Appuntamenti

L'infinito limitato della vita La vita, il limite, le leggi

Scritto da Segreteria il 09 Settembre 2009

LA VITA, IL LIMITE, LE LEGGI:
TUTELA, CONTROLLO E RESPONSABILITA’
Università del Salento
Università degli Studi “Roma Tre”
Scuola estiva della differenza
Lecce 1-5 settembre 2009

Intervento di Daniela Finocchi, ideatrice del Concorso Lingua Madre

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre è nato nell’ambito del pensiero femminile al quale appartengo da sempre. Dopo l’avvio al Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, è ora parte del più ampio progetto permanente della Regione Piemonte, che lo promuove insieme alla Fiera Internazionale del Libro ed è destinato alle donne straniere residenti in Italia, con una sezione dedicata alle donne italiane. La premiazione avviene nella giornata di chiusura della Fiera del Libro e i racconti selezionati sono raccolti ogni anno in un libro.
Il numero sempre crescente di partecipanti, le decine di iniziative svolte su tutto il territorio nazionale, i riconoscimenti (quali l’annullo filatelico che le Poste Italiane hanno dedicato al concorso) si accompagnano a collaborazioni con enti e istituzioni (da Slow Food Terra Madre al Torino Film Festival, dal Ministero della Giustizia al Provveditorato, al CIRSDE, alla SIL e così via) ed hanno portato alla nascita di una vera e propria “comunità allargata” che continua a esprimersi e confrontarsi durante tutto l’anno, anche grazie alla creazione di un blog (www.concorsolinguamadre.it).
Le parole delle donne conquistano, tanto che dai racconti è stato anche tratto lo spettacolo teatrale “Senza voce, senza terra, soli…” (Fabula Rasa-Assemblea Teatro).

Le storie che arrivano ogni anno (oltre 260 nell’ultima edizione) sono sguardi sulla realtà, su vite e vissuti di tante e differenti provenienze, sempre in relazione e in dialogo con i femminismi di appartenenza o di acquisizione.

Come scrive Cristina Bracchi (Cirsde)
Si prefigurano, più o meno progettualmente, pratiche di nuove cittadinanze, tra scrittura migrante e lingua madre, che possono suggerire modi e forme di ripensamento del vivere associato, per decostruirne i principi di guerra, di violenza, di esclusione”.

Le donne che scrivono al Concorso Lingua Madre dimostrano come il fenomeno dell’immigrazione/emigrazione al femminile necessita di una lettura diversa da quella tradizionale, diversa da quella dell’analisi storica accademica. Una lettura che metta in luce quelle “strategie di libertà” di cui scrive Cristina Borderias (Strategie della libertà. Storie e teorie del lavoro femminile di Cristina Borderias, Manifestolibri, 2000).
Superato il paradigma dell’emancipazione, infatti, la presa di coscienza femminista impone il valore fondativo della differenza e introduce nuove categorie analitiche nello studio dei rapporti sociali e di lavoro. Così vengono innescate quelle “strategie di libertà” che conducono al cambiamento. Insieme ad esse la speranza e quella forza irrinunciabile del desiderio di cui scrive Luisa Muraro (Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio di Luisa Muraro, Mondadori 2009).

Ecco quindi che quasi si declina il tema della Scuola estiva di quest’anno su “La vita, il limite, le leggi”. Ciò che Marisa Forcina mi diceva per svilupparne il senso, per spiegarmi cosa si intendeva analizzare e cioè la vita come esistenza, tra controlli e tutele che spesso privano, anziché agevolare, la libertà. Invece  di tutele, avremmo bisogno di fiducia, mi diceva, che, come la libertà e la felicità, è qualcosa che circola sempre meno.

Non è un caso che Luce Irigaray scriva

è tempo di svegliarsi e promuovere una cultura personale e collettiva che anteponga la felicità ad ogni forma di dominazione, appropriazione, possesso”.

Io aggiungerei anche l’amore ed è ciò che traspare molto chiaramente dai racconti delle autrici del Concorso Lingua Madre. Amore che non si esaurisce neppure nel lungo e difficile cammino dell’emigrazione: per una madre, per una città, per una sorella, per un’amica, magari per un sapore.

Ecco così che un piatto ricco, fresco e colorato come il tabboulé diventa sinonimo di corretta integrazione, perché le persone, come scrive Lydia Keklikian, una delle autrici vincitrici della IV edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre,

non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, ma devono fare in modo di comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa, che stuzzica il desiderio di ognuno di conoscersi a vicenda”.

Anche i piccoli gesti quotidiani, come cucinare un piatto, conducono allora a un equilibrio cercato con caparbia e fatica dalle donne sradicate dai loro affetti, dalla loro terra, dalla propria cultura.

Un’altra autrice – Rosa Storto Gaggini – descrive l’amore che considera “rubato” da quella badante assunta per assistere la madre e che poi riscoprirà, invece, rafforzato proprio grazie a questa donna. Oppure l’amore che lega Alla Ivanova alla madre, che fa sì non si possano lasciare quando la figlia decide di venire in Italia dalla Russia
per poter migliorare le condizioni della mia vita. Sarebbe stato ingiusto e ingeneroso – scrive – lasciarla sola in un paese con tante difficoltà di vita, in un’età non più giovane”.
E questa mamma per amore della figlia cerca di integrarsi nella nuova società, tanto da frequentare a settantacinque  anni il corso d’italiano per stranieri.
Ma non è felice – scrive la figlia con amore struggente – Non trova una vera soddisfazione nella vita, si sente poco realizzata ed apprezzata. Non vedo più la sua allegria, la gioia di vivere, non sento più le sue risate, le barzellette e le sue famose battute di spirito. Sembra proprio spenta!
Oggi, le mancano i grandi spazi, lo scricchiolio della neve sotto i piedi e il grande gelo invernale (sempre accettato perché  molto caldo è l’amore per la patria), non sentire più il contrasto tra lo stormire delle fronde degli alberi di betulla e il chiasso nelle case. Le manca tanto il suo paese così grande e ricco e allo stesso tempo povero e infelice. Le manca la nostra gente semplice, sorridente e aperta, che merita molto di più di quello che ha.
Mi chiedo tante volte se ho fatto la scelta giusta chiedendole di vivere con me in Italia, abbandonando le sue conoscenze, il suo ruolo sociale, le sue certezze, le sue radici. Anch’io le ho abbandonate; la mia unica certezza rimane il profumo del pane e dei dolci appena sfornati che mi sveglia ancora al mattino
”. Quelli preparati dalla mamma.
Ancora, l’amore di una figlia ha fatto inviare al Concorso a una donna russa gli scritti della madre, Irina Petoukhova, che l’aveva seguita in Italia dove poi è morta.

Scrive invece Dragana Babic: “ Belgrado non mi ha amato abbastanza”, al contrario di Torino, città dove è approdata dalla Serbia.
Amo il suo modo di essere – scrive – ma la amo soprattutto per i sorrisi ricevuti qui e perché mi ha fatto scoprire il mio valore, mi ha fatto credere in me stessa, nel mondo. Mi ha fatto crescere, mi ha fatto sfaldare le mie paure. Mi ha fatto migliorare. Torino mi ha amata, tanto. E mi ha conquistata con il suo amore. Ed io mi sono abbandonata completamente a questo sentimento. Me lo godo, me lo respiro, mi nutro di questo nostro amore, che non sta mai fermo, che si muove sempre verso un ulteriore miglioramento”.
Non è un caso che, Igiaba Scego – ormai nota scrittrice “somala di origine, italiana per vocazione”, come ama definirsi lei stessa – abbia coniato il termine dismàtria per indicare il  dis-patrio femminile, poiché il legame che lega le donne alla terra d’origine è quello materno ed esiste una peculiarità femminile di vivere la lontananza, l’esilio forzato, l’identità sospesa. Non più patria, quindi, ma màtria. Per tutte.

Le donne sono predisposte alla maternità, ad accogliere l’altro da sé, ad averne cura e a far sì che sviluppi la propria autonomia. Così come hanno – quale modalità propria di stare al mondo – la relazione prima della norma, la responsabilità prima della convenienza, la cura dei rapporti prima della giustizia astratta, come ci ha dimostrato Carol Gilligan. Tutto ciò imprime alle donne un atteggiamento diverso nella gestione dell’impensato, del nuovo, di ciò che è straniero. Quando due donne si incontrano, ciò che appare in quel primo impatto è la comune appartenenza allo stesso sesso, prima della nazionalità, della lingua o del ceto sociale.

Quell’irriducibile differenza dei sessi, come la chiama Adriana Cavarero, che deve fare i conti con le regole delle società patriarcali ed ecco che le donne straniere si trovano a vivere, a confrontarsi con un infinito “limitato”. Il titolo del mio intervento è infatti mutuato da uno dei racconti del Concorso, quello di Besa Mone, autrice albanese. Nel raccontare con singolari e divertentissimi parallelismi matematici la storia della figlia che vorrebbe diventare insegnante, si trova a scontrarsi proprio con il limite delle leggi (tema sollecitato dalla Scuola Estiva quest’anno) che rendono l’infinito dell’inserimento sociale degli stranieri – appunto – “limitato”:

E sul diario Anila annota: «Mi sembra che la legge mi sussurri nelle orecchie: Finché vuoi istruirti nella scuola italiana sei libera di farlo (per la primaria e la secondaria non serve neanche il permesso di soggiorno), istruire gli altri non te lo permetto.» Amareggiata aggiunge: «A mia madre è stato tolto il diritto di scegliere perché viveva in un sistema totalitario; a me è negato, perché vivo in un sistema democratico? Ma allora quale sarebbe il sistema dove certi diritti non vengono negati?»”

Le antologie che raccolgono queste storie sono più di una semplice testimonianza: dietro a tanti racconti diversi c’è una sola storia, più grande ed importante, che esalta la differenza di genere.  Quella differenza di genere che non solo imprime diversi valori e diverse regole di vita, ma a cui è affidata la speranza di un cambiamento futuro soprattutto all’interno di quelle società arcaiche dove non saranno certo le guerre degli uomini a mutare le cose. Una speranza di cui si hanno continue conferme. Nelle relazioni di questi giorni è stato detto che “le donne sembrano assenti”, ma non è così: come ieri le madri dei desaparecidos di Plaza de Mayo oggi ci sono le donne delle recenti elezioni in Iran. E’ stata Zahra Rahnavard, moglie del candidato moderato alle elezioni presidenziali iraniane, Mir-Hossein Mussavi, che ha rappresentato il vero segnale di cambiamento in questo Paese. Con uno stile totalmente inedito ha criticato le operazioni di polizia contro le ragazze ‘malvelate’, si è espressa chiaramente in favore della parità dei diritti fra i sessi e di una maggiore presenza delle donne sulla scena politica e sociale e molti giovani, soprattutto donne, che si opponevano alla rielezione del presidente uscente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad non hanno nascosto di aver votato per il candidato conservatore moderato proprio perché affascinati dalla personalità della moglie. E sono state poi le giovane studentesse, come Fatemeh Karimi, che hanno diffuso le notizie sulle repressioni seguite alle elezioni comunicando via blog o face book, diventando le corrispondenti dei quotidiani occidentali. Certo, come sostiene Barack Obama, non ci sarà vero cambiamento finché non si uscirà dal fondamentalismo religioso, ma Zahra Rahnavard, Fatemeh Karimi e le altre incarnano le speranze di una popolazione femminile che rimane in gran parte nell’ombra, ma non rinuncia a desiderare. In Iran come nel resto del mondo e in condizioni politico-sociali anche assai differenti fra loro. Per esempio, sono quasi tutte donne nella rete di attivisti che portano alla luce gli orrori della guerra in Cecenia. Era donna Natalia Estemirova, l’altra giornalista trucidata a luglio dopo la Politkovskaya, come è una donna Lidia Yusupova che difende i ceceni alla corte europea di Strasburgo.
E’ questo l’anelito di chi cerca e, pur sapendo che non potrà mai raggiungere lo scopo, non rinuncia ad avvicinarsi, scrive Luisa Muraro. Un desiderio che non si arresta anche
nella cultura che cambia senza andare avanti, in un’economia che si espande ma non fa crescere né la gioia né il senso di sicurezza, nella vita che sembra tutta un mercato, con l’umanità stretta fra il troppo e troppo poco. Traspare l’intuizione che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare, nonostante ci capiti spesso di fare l’esperienza di una loro apparente, reciproca estraneità”.
Luisa Muraro ricorda la storia di un antico testo persiano che narra di quando Giuseppe fu messo in vendita dai suoi fratelli, allora si presentarono molti compratori, tra cui una vecchia che stringeva alcuni gomitoli di lana ed alle esclamazioni di chi sorrideva di fronte alla sua misera offerta rispose “Lo so che non potrò comprarlo ma mi sono messa in fila perché amici e nemici possano dire: anche lei ci ha provato

Come per la vecchia della lana, ci sono quindi tanti modi di “andare al mercato”, scrive Luisa Muraro, contro la parzialità della ragione, forti nella certezza di essere destinate a qualcosa di grande.
Il percorso dell’integrazione al femminile è difficile e richiede forza e coraggio, ma non è solitario, le difficoltà sono condivise e comuni per tutte le protagoniste. Nell’affrontare la sfida le donne dimostrano che non si è sole in un paese straniero, le proprie paure sono le paure di molte e la sfida si può vincere.
Le storie diventano così un unico affresco e testimoniano l’importanza della condivisione, dello scambio, della possibilità da un lato – per le donne straniere – di esprimersi senza filtri (per non essere condannate all’invisibilità e alla rassegnazione, come raccomandava Marisa Forcina) e dall’altro – per le/gli italiane/i – di disporsi all’ascolto.
Ecco allora il destino di una donna che ha cominciato a correre nel ventre della madre non rassegnata al fatto che oggi in Italia, come in Vietnam allora, si tratta di evitare la morte. La forza espressiva dell’esperienza autobiografica, l’urgenza del ricordo, l’ossessione di un incubo ricorrente e il bisogno di lasciare alle figlie la propria “eredità senza dote” creano un tessuto complesso e ricco, in cui i piani si sovrappongono naturalmente, con grande mobilità e sensibilità.
Come quando ero bambina la paura mi sorprende quasi ogni notte, riducendomi a lottare per rinviare i sogni, per prendermi una tregua. Attendo, oggi come allora, che la stanchezza scenda per poter sprofondare nel sonno turbato: una altalena di sogni e dormiveglia, sapendo che gli incubi sono pronti ad animarsi nel brutto film di sempre, dove scappo con la mia famiglia”, scrive Marja Sabadini.
E ancora lo sfruttamento messo in atto da uomini senza volto, perché gli occhi si fermano alle mani, mani che raccontano un potere vissuto ed esercitato sino ad aprirsi a un livello simbolico, come nel racconto di Alketa Kosova:
Conosco mani materne, cosi secche e asciutte, che, stanche di zappare la terra in cooperativa, non mi hanno mai accarezzata e riempivano di cibo solo il piatto dei fratelli.
Conosco mani fraterne, cosi piccole e morbide che avevano fretta di diventare grandi e potenti addosso a me, così senza motivo, per un sorriso a qualcuno o per una risata giù, per la strada.
Mani bagnate di sudore e vigliacche che tradiscono dietro le spalle e ti lasciano.
Mani bugiarde che non sanno stingere la mano, ma solo ti toccano in un contatto finto e freddo che ti fa rabbrividire. Ho conosciuto delle mani calde che mi curavano e mi imboccavano. Mani che mi hanno offerto un posto letto pulito e mi hanno sfamato.
Ho conosciuto anche mani che stringevano le mie sorridendo, che mi offrono un posto di lavoro in fabbrica e senza intimidirsi dalla mia storia, con le stesse mani mi spingono la testa in basso sotto la scrivania…

Non manca la nostalgia del vento, dei sapori, degli odori, che hanno accompagnato gran parte della vita e che si unisce alla mancanza degli affetti famigliari non compensati del tutto dall’amore di un compagno.
Scrive Gordana Grubač:
Il fischio della locomotiva prevalse ed io mi resi conto che il treno Belgrado – Venezia era già partito da un po’ ed io stavo finalmente andando verso la nuova vita che avevo sempre desiderato.
Mi voltavo indietro cercando di assorbire con gli occhi il più possibile, di impregnarmi l’anima di quell’aria che aveva l’odore di legna bruciata. Il treno passava dalla Croazia e dalla Slovenia e fermava ad ogni palo della luce. Strisciava pigro sulle rotaie arrugginite come un rettile invecchiato; a lui sembrava non importasse di andarsene.

Le donne hanno la capacità di trasmettere stati d’animo attraverso le immagini di paesaggi, oggetti, figure. Anche quando non sono concilianti e si dimostrano molto lucide nella descrizione di un dolore generalizzato, come accade nel racconto di Sarah Zuhra Lukanic dove i fiocchi di neve che si posano sulla madre diventano metafora forte, poetica e molto visiva.
Per Ruth Segitz l’occasione, invece, di ripercorrere una storia non troppo lontana attraverso la struggente scoperta dell’assurdità della guerra, da parte di un bimbo che assume su se stesso le colpe dei “padri”, di un popolo, quello tedesco, ritenuto assassino della bambina innocente Anna Frank, fino alla scoperta di una “vittima” di famiglia, altrettanto innocente. Catarsi di una colpa insopportabile che finalmente si distacca dal piccolo protagonista, rendendolo libero di accettare la sua identità di italo-tedesco e la sua famiglia,  senza dover scegliere tra il bene e il male. Temi che non appartengono, quindi, esclusivamente ai cosiddetti paesi “extracomunitari”, ma che coinvolgono chiunque si ritrovi nella condizione di “straniero”, anche provenendo da un paese “ricco ed evoluto” come la Germania.

Non meno importanti i racconti della sezione dedicata alle donne italiane, testimonianza di una relazione possibile, vissuta, partecipata – proprio questo aspetto della relazione, dello scambio ci preme incentivare, infatti il Concorso non solo ammette ma incoraggia la collaborazione fra donne – e questo avviene anche quando ci si trova a confrontarsi con temi difficili e terribili come quello delle mutilazioni sessuali, affrontato dalla giovanissima Alessia Femiani attraverso le parole di un’amica:
quando ricevetti l’infibulazione capii che non sarei mai più stata una bambina..una donna..ma sarei stata solo più una schiava
Le storie sono unite da un sentire comune, da qualcosa che lega e rende simili le donne da qualsiasi parte del mondo provengano e a qualsiasi cultura appartengano: il modo di affrontare la vita e di vivere gli eventi, che va a costruire quella storia al femminile la cui importanza qui si intende sottolineare e valorizzare una volta di più.
A testimoniarlo ci sono anche le biografie delle autrici che ogni anno riportiamo alla fine del libro, rappresentano altre storie, un’altra lettura di questa realtà così variegata e simile al tempo stesso.
Storie confluite tutte nella lingua italiana, scelta non solo formale ma sostanziale e che si fa pensiero.
Le parole diventano flessibili e, seppure non sia questa la priorità del Concorso Lingua Madre, si assiste anche a stimolanti sperimentazioni linguistiche.
Quando il migrante arriva nel paese che lo ospita è chiuso nella sua lingua natale – afferma Christiana de Caldas Brito, altra autrice straniera “emergente”, in una sua intervista – la nuova lingua è vista come una lingua di serie B con cui non comunica i suoi sentimenti”.
Poi le cose evolvono, si scoprono termini che servono non solo per comunicare, ma anche per creare. Infine, l’italiano diventa la lingua scelta, si fa pensiero e si può arrivare persino a giocare con le parole, cambiandole, condensandole, inventandone delle nuove.
Chiamare le donne ad approfondire il rapporto tra identità, radici e mondo “altro” in italiano assume quindi molteplici valenze.
Si tratta della lingua del paese d’accoglienza, quello dove adesso vivono, lavorano, magari si sono sposate ed hanno avuto dei figli, ma il suo utilizzo – come il Concorso richiede – non va letto come una forzatura.
In fondo le donne sono abituate ad esprimersi in una lingua straniera perché da qualsiasi paese provengano, a qualsiasi cultura appartengano la “lingua” che utilizzano non è la loro ma è quella dei padri, quella della “cultura patriarcale”. Le donne allora, potremmo dire, sono abituate ad esprimersi in una lingua straniera, nel senso che gli è “estranea”, che non gli appartiene, in quanto storicamente emarginate dalla cultura con la “c” maiuscola.
Non a caso si è deciso di ricorrere alle immagini realizzando un booktrailer (nuova forma di promozione editoriale) dei libri sinora pubblicati, declinandolo sui temi portanti del progetto.
All’inizio del video le donne riprese sono distanti. C’è una donna che è ancora, davvero straniera, un elemento estraneo nell’inquadratura come nel mondo in cui si muove, circondata dal rumore di fondo di una realtà indifferente e incomprensibile.
Dall’altra parte ci sono le donne che la sfida l’hanno vinta e che sanno di non essere più sole. Sembra esserci un abisso fra la prima donna e le altre, sia nelle loro storie sia nelle immagini e nei suoni con cui il booktrailer le racconta. Sembrano tante storie slegate, ogni donna ha la sua vita e nessuna sembra conoscersi. Ma ad unirle c’è un fiore di magnolia. Un fiore bianco, giunto in Europa dall’America centrale, che gli europei credevano fragile e delicato ma che dimostrò di poter mettere radici anche in climi ostili e diversi da quello d’origine. Nel momento in cui la donna lo raccoglie, ai rumori sconnessi di una realtà ostile può sostituirsi la musica e l’armonia che faceva da colonna sonora alle altre storie. La magnolia è simbolo di dignità e perseveranza, è una rivendicazione di forza, nel rispetto delle differenze culturali e della differenza di genere. Condividendolo, le donne che hanno vinto la sfida possono mostrare che ciò che sembra destinato alla sconfitta può trasformarsi in una vittoria, se c’è la consapevolezza di non essere sole, se vite lontane si legano l’una all’altra.