Coronavirus: e le donne?

Testimonianze di donne migranti Racconti dall'Associazione Annassim

Scritto da Segreteria il 12 Luglio 2022

“Non posso permettere che le storie delle mie amiche migranti rimangano disperse nel mio computer”, ha scritto Lella Di Marco (Michelina Vultaggio) al Concorso Lingua Madre inviando storie, testimonianze, ricordi delle donne straniere conosciute in 20 anni di lavoro con l’Associazione Annassim: donne native delle due sponde del Mediterraneo di Bologna. Storie che raccontano il presente, passando dalle tradizioni del passato alla più recente attualità con la pandemia da Covid-19.

“Sono storie umane di riscatto, volontà di fare la propria parte anche dando un contributo attraverso la scrittura, a volte poetica ma sempre a favore dell’emancipazione delle donne e della liberazione dei popoli”, ha spiegato ancora Lella Di Marco, aggiungendo: “questi scritti testimoniano come siano cambiati i bisogni, il senso della politica, il fare lavoro di comunità, la necessità di dare visibilità alle donne migranti, permettendo la convivenza pacifica (da non confondersi con l’integrazione o l’assimilazione) grazie alla condivisione di saperi e differenze, spinte verso un rinnovamento culturale”.

Riportiamo di seguito il racconto di Lella Di Marco, fattasi portavoce dei vissuti delle donne che ha incontrato, conosciuto e amato.

Nel 2003, quando l’immigrazione era folclore, retaggio di un colonialismo legato a valori ormai da noi lontani, a Bologna è stata creata una associazione di donne native e migranti denominata “Annassim”, che fonda le sue basi nella differenza di genere e in quelle qualità, in quei saperi delle donne migranti inscritti nella genealogia femminile indispensabili per la trasmissione della conoscenza, per l’educazione dei figli e delle figlie, per mantenere viva una tradizione costretta con il passare del tempo a dileguarsi. Convinte che ogni dimenticanza è una perdita di ricchezza per tutte e tutti, abbiamo continuato a pensare e ad agire insieme, imbattendoci in un territorio molto fertile e pronto ad emergere. 

Proprio quel periodo erano stati tradotti in italiano i testi dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas sul Linguaggio della Dea, perciò è stata una grande sorpresa e motivo di soddisfazione ritrovare quegli stessi simboli del matriarcato nei disegni, nei ricami, nei tatuaggi con l’henné portati inconsapevolmente dalle donne che si rivolgevano all’Associazione. Il nome Annassim è stato proposto da Fatiha  Morchid, un’amica marocchina, proveniente da Casablanca. Un nome  che ci è piaciuto subito moltissimo, perché  pieno di speranza, progettualità, vita nuova insieme. Anassim in arabo significa ‘brezza del mattino’, quell’energia positiva che fa vivere un nuovo giorno pieno di opportunità. 

Fathia si è rivelata inoltre di grande talento e capacità relazionali, con la ferma volta di esserci con la sua storia e la storia del suo paese di provenienza, sempre nel suo cuore, vivo come i ricordi dell’infanzia e la vita trascorsa fra le coccole materne, indimenticabili e sempre presenti come segni sul proprio corpo. Fathia ci ha inoltre insegnato il rispetto per questo corpo, da curare e proteggere come qualcosa che ci è stato affidato e di cui siamo portatrici e non padrone. Il corpo, come la natura, non ci appartiene, quindi di conseguenza non possiamo distruggerli n’è ignorarli: proteggerli e averne cura, invece, serve a perpetrare la vita. Nel corpo e nelle sue possibilità c’è bellezza e sentirsi belle significa abbracciare una sensazione quasi divina: un messaggio molto potente nella nostra società “usa e getta”.
 
Zora, un’amica tunisina, ha cominciato a truccarmi utilizzando tecniche e unguenti preparati dalla sua mamma. Così la polvere di antimonio mescolata alla polvere dei noccioli, dei datteri macerati dal calore della sabbia del deserto viene utilizzata per il trucco degli occhi per dare profondità allo sguardo. Belle per rimanere in casa. Belle per se stesse anche se non è presente il marito. Belle per sentirsi belle e vivere la bellezza. Per Zora utilizzare i prodotti della sua mamma era una grande privazione ma per me lo faceva volentieri e a fine opera mi guardava ed esclamava: “Com’è bella Lella! Sembra una beduina…”.

Allego la foto del matrimonio di Fousia, con la madre che la coccola mentre impartisce le ultime raccomandazioni in attesa della prima notte di nozze.
Fatima, la mamma di Fousia, è una delle donne più nobili, aperte e disponibili, senza “barriere”, che abbiamo mai conosciuto. Si sentiva in dovere di invitare a casa sua chiunque incontrasse, per mangiare couscous, nsemen, baharir (il pane arabo) e le specialità marocchine, disposta a prepararle per ogni tipo di ospite. Generosa senza distinzioni, non attenta alle provenienze, era diventata simbolo di intercultura, di apertura all’altro/a, di eliminazione delle differenze per una convivenza pacifica improntata all’aiuto reciproco e al donarsi senza pretendere nulla in cambio ma soltanto in nome della sorellanza. Aveva acquisito una grade consapevolezza sulla condizione della donna nelle diverse società e sul senso delle discriminazioni in Italia nei confronti dei migranti, tanto da partecipare puntualmente alle manifestazioni di piazza. Lei rimane e rimarrà per sempre nei nostri cuori. Lei casalinga, lei madre di tre femmine e un maschio, lei ubbidiente ad Allah, lei che pur riconoscendo la mia laicità era pronta a vedermi come una pari, lei pronta ad annullarsi per la famiglia ma disposta a scendere in piazza per un futuro migliore per se e i suoi figli, lei madre di tutti con un caldo abbraccio che sapeva avvolgere. Lei madre e discepola delle figlie che tanto amava, riamata.

Non posso non ricordare, con commozione, un’altra Fatima che purtroppo ci ha lasciate prematuramente dopo aver dato alla luce un bambino tanto desiderato
Salam سلام 
Ciao Fatima
 
Quando un’amica se ne va non ci lascia né sole né indifferenti.
Fatima era una “extracomunitaria” fuggita dalla povertà e dall’isolamento di un piccolo villaggio fra le zone desertiche del Marocco, dove ancora si può morire per il morso di uno scorpione o perdere un braccio per una lieve ferita non curata.
Fatima in Italia cercava sì lavoro ma anche un luogo libero, dove potere studiare, conoscere altre donne, capire il valore della democrazia, poter affermare le sue idee, rispettare e riconoscere, essere rispettata e riconosciuta. Insieme ad altre donne.
È stata un esempio di integrazione, nel senso profondo di convivenza nel reciproco rispetto delle persone e delle regole, senza mai rinunciare alla sua identità, alle sue radici, alla cultura del paese di provenienza.
È stata apprezzata e stimata nelle scuole, nei corsi di formazione, nei gruppi teatrali, nei luoghi di lavoro che ha frequentato a Bologna, entusiasmando tutti con la sua solarità, allegria, disponibilità, saggezza.
A noi ha insegnato molto: a non scoraggiarsi mai di fronte alle difficoltà, a saper attendere, la cura nei confronti delle persone, le pratiche di medicina naturale e poi a fare patti chiari, scrivendo anche una specie di contratto con l’uomo che si intende sposare, pretendere sempre che lui sia gentile e non tradisca il contratto sottoscritto.
La sua ricerca dell’uomo gentile ci faceva sorridere, ma probabilmente era un retaggio dei poeti arabi andalusi del 200 la cui poetica si è poi diffusa anche in Italia.
Gentile era lei, gentile il marito e gentile il suo bambino di un anno.
 
L’abbiamo voluta ricordare anche mettendo in rete il suo intervento per il Convegno realizzato presso il centro interculturale M. Zonarelli a Bologna il 28 novembre 2009 dal titolo “I saperi delle donne – Sguardi e cura dei corpi nei cicli vitali”, inserito nel volume omonimo pubblicato dalle edizioni Martina.
Fatima ha sofferto tanto, ma la sua vita è di quelle che lasciano un segno, che pesano molto sulla bilancia dei valori e dell’impegno umano per il bene soggettivo e per quello comune.