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La fune Sconfini

Scritto da Segreteria il 02 Marzo 2022

Il concetto di identità rimanda a un io fisso, che si potrebbe anche spezzare. Meglio pensare in termini di soggettività, come suggerisce Traudel Sattler (della Libreria delle Donne di Milano), fedele a sé in uno scambio attivo con l’altra e l’altro, che dà vita a un dialogo tra generazioni e modi di vita diversi. Storie di donne lontane e vicine che attraversano il dipanarsi di vite in movimento, eppure solide, in cerca di uno spazio autentico dove esprimere la propria differenza. Per potersi, sconfinando, reinventare.

LA FUNE
di Miriam Tahri [Tunisia]

Sono seduta, in attesa dell’apertura del gate, sul sedile freddo della sala d’attesa. Questo non luogo ci ospita tutti, diversi e con storie diverse, con in mano un passaporto timbrato per la stessa destinazione. Una donna mi guarda, curiosa. Non so cosa pensa. Lei non sa che non sono più lì.
Con le braccia aperte, ma senza un crocifisso alle spalle, cerco di mantenere l’equilibrio sulla fune che mi condurrà in una terra inesplorata, vergine, fertile. La mia.
Io vi avverto, per pietà: questa storia non ha nulla di speciale, in un cosmo costellato da esistenze straordinarie; ma ha qualcosa da dire, prima di lasciare questo spazio conosciuto. Con l’augurio che dentro un racconto possa nascondersi un’anima più eloquente e più sagace di questo susseguirsi di parole. Il consiglio, tra le righe, è solo quello di tenere ben piantato lo sguardo sulla fune, cosicché voi possiate sentir meno gravoso il peso di ogni singolo pensiero, e al contempo non perdere l’equilibrio.
Cari tutti, io vi saluto. Nella speranza di rivedervi in migliori occasioni, mollo gli ormeggi, ripongo ogni armatura nel baule delle vostre aspettative e parto alla ricerca della terra di ricongiunzione.
Non credo di aver meritato la medaglia d’oro al valore della doppia sofferenza, e in omaggio, con ossequi, ve la rendo. Qui il mio cuore, questo brandello di identità.
Lascio a voi la smania, ossessiva e compulsiva, di fissare i modelli, i confini, i colori e le definizioni. Slaccio la cintura, tolgo i veli e le camice, e nello zaino faccio spazio all’idea di lasciare andare, appoggiata dal diritto naturale di abdicare, di mollare, di crollare, di mischiare l’acqua e il sale e di ricostruire.
Rinuncio. Alla pretesa di autogoverno, di lungimiranza, di sapere cosa sarò domani, e mi affido in nome di un amore che non tramonta quando finisce il giorno. Non me ne vogliate, me ne vado.
Farsi ponte non ha funzionato, e a dirlo non è quest’anima sradicata, ma il ponte stesso che per anni ha singhiozzato, e pianto e urlato lacrime amare, inascoltato.
Il ponte, fermo e solido col suo cemento armato, non possiede, tra le travi, le fragilità che ho ereditato.
Me ne vado. I miei ossequi e il mio rispetto. Nello zaino ho pochi averi, e nella tasca una lista di chi mi somiglia.
Una spiga di grano intrecciata.
E se potessi ereditare da lei la pazienza dell’attesa e la speranza della raccolta, o anche solo l’odore del pane, sarei più vicina al suo campo che a un ponte. Lei sì, mi assomiglia di più.
Una corda. La vedete quella corda stesa in balia del vento? Della tramontana impara che il freddo pungente non è mai di buon auspicio, ma è sempre meglio del tepore di un garbino caldo, ma in potenza nefasto, e mi assomiglia di più.
Un rosario. I grani appesi al filo di un rosario mi ricordano che nella leggerezza si nasconde il peso dell’espiazione di un peccato, che ciò che in terra è pesante, in cielo è leggero, e che è nell’avanzare a piccoli passi che il traguardo fa meno paura.
Un bicchiere di terracotta.  L’argilla, grumosa, per amore si fa liscia e malleabile, e così lei, sì, mi assomiglia di più.
Un gomitolo di lana. La fibra, il colore. Forse l’intreccio, forse il calore, forse un riparo, mi assomigliano di più.
Una piuma. Leggiadra, ha permesso l’enarrare del sacro pensiero di altri tempi. Lei, lo spero, mi assomiglia di più.
Avanzo di un passo, mentre le parole accentuano la precarietà di questa fune, e in una vibrazione raggiungo la consapevolezza che forse non vi è acquietamento, non vi è pacificazione senza ricongiunzione.
Il ponte, nella sua rigidità, mi aveva tradita. A me, che avevo solo bisogno di trovare il coraggio di dire che volevo fermarmi. Volevo scendere, dalle aspettative di chi mi voleva sempre o nel velo o nella camicia. Da chi vedeva, ma senza guardare, unicamente la capienza di un vaso di cristallo importato da lontano, caduto e con fatica sopravvissuto, continuando a versare fino allo strabordo.
Per questo, adesso, nel tentativo di trovare un equilibrio su questa fune, sono finalmente io, io, io senza un nome, senza una scelta, senza una storia, senza identità.
Sono io che cerco la via, la mia e propria, nei panni di un funambolo, con addosso la pluralità delle anime insolenti e curiose che si insidiano dietro un nome singolare femminile, che per ironia della sorte ha due letture, due interpretazioni, due universi che fino alla morte mi accompagneranno in questo viaggio meraviglioso e sorprendente.
Sono io, e mi sento io, mentre ballo in bilico tra la terra e il cielo. Tra i palmeti e tra gli ulivi, tra la melodia dei gabbiani, tra le luci di città, tra il numero dispari dei datteri, tra le foglie che cadono d’autunno, tra la malattia e la sua cura, io mi sento la donna che mi assomiglia di più, in un corpo piccolo e imperfetto, un po’ goffo ma irriverente, con un taglio d’occhi mediterraneo e le mani sprofondate nel deserto del Maghreb, con le mie rivoluzioni vinte a metà, con le mie scelte sconclusionate, con le speranze ammaccate e i sogni tutti da ricostruire.
E sulla fune resto, e abbraccio il fine ultimo di questa agognata ricerca, che nella sintesi tra materia e pensiero, anima e corpo, bianco e nero, mette un punto a questa storia. Il nodo si allenta, la corda si libera e il corpo si estingue, disciolto come sale sul fondo del bicchiere. Questa, dopo tutto, sono io. Equilibrista per natura, acrobata errante per necessità.
Col vostro permesso. Me ne vado, e ricomincio.

Il racconto La fune di Miriam Tahri è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventuno – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)

Illustrazione tratta dalla fotografia “Il viaggio della vita” di Ana-Maria Iulia Radoi, selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XIII Edizione del Concorso Lingua Madre.