Le autrici di Lingua Madre

Riflessioni su "L'amare delle donne" A cura di Franca Balsamo

Scritto da Segreteria il 07 Settembre 2011

Pubblichiamo di seguito la recensione che Franca Balsamo, dell’Università degli Studi di Torino ha scritto su L’amare delle donne (Lietocolle Editore), la raccolta poetica di Anna Raffaella Belpiede, selezionata del VI Concorso Lingua Madre con il racconto Ho vissuto in terre lontante.

“Leggere le poesie di Anna è stato come un viaggio. Le ho lette, rilette e poi ancora una terza volta. Ed ecco il diario di bordo.
Alla prima lettura: la mente osserva e mi chiedo: che cos’è la poesia?  – Interrogativi che ho sempre avuto (anche scrivendo).
Che cos’è la poesia?
Il linguaggio delle emozioni? Il linguaggio primario delle emozioni è inarticolato (Ah, oh…), è vicino all’urlo, al mugugno, al pianto animale, all’abbaio. Perché la poesia sta su quel confine tra la lingua ordinaria, funzionale e spiritualità (anch’essa priva di articolazione: preghiera, meditazione silenzio), nel luogo della loro intersezione.
La poesia è il linguaggio in cui la parola transita o ci fa transitare tra questi due confini, dall’espressione del sentire animale al desiderio spirituale. In mezzo sta il linguaggio (come creta) e la sua manipolazione perché si adatti il meglio possibile a questa metamorfosi.
– La sua creatività: è anche lo spazio in cui il linguaggio si ri-crea, dove ri-nasce, nella soggettività: ogni poesia è il linguaggio, del tutto unico, del/della poeta – ma in una soggettività che sgorga dalla struttura sociale (della scrittura come si è sedimentata e costruita nel tempo – e di lì riparte per ricrearla) – di come quel mezzo (la lingua) si è articolata nella società, nello spazio e nel tempo dato. Permette allora, attraverso la ricreazione del soggetto, di ricreare anche la lingua (è sempre un atto di parto, di dare alla luce, di natalità).
– E questa rinascita della lingua accompagna anche spesso la ri-nascita di un soggetto da una totale distruzione-destrutturazione, dalla ricomposizione di rovine dell’animo alla ricomposizione di un senso. Rinascita soggettiva (e poi oggettiva) della lingua e rinascita della persona sono il riflesso l’una dell’altra.
– Perciò la poesia è anche terapeutica: è la lingua in cui è possibile tenere  e tessere insieme razionalità e irrazionale, emozione e pensiero (emozioni profonde e razionalità estreme a volte matematiche, nella misura dei ritmi, della “metrica”).
– Terapeutica perché è il linguaggio – che nel suo riscoprirsi e rinascere – consente di dire quello che non è possibile dire nella lingua ordinaria della logica binaria, è la lingua che permette di dire, di rinominare e di dar valore all’ambiguità dell’essere e dell’esperienza, della non dicidibilità dell’esperienza (totale)… Tutta la scelta, la logica  allora possono trasferirsi e concentrarsi nella scelta di un vocabolo piuttosto che un altro, in una virgola qui, un punto, in un punto a capo…
Rivela la sacralità dell’ambiguità: dove orrore e meraviglia stanno insieme, dove stanno insieme paradossi inconciliabili, le connessioni intime che sono socialmente “tabù”. Che sembrano inconciliabili ma che si posso anzi armonizzare insieme quando si lascia libero il corpo a connettersi in un momento magico alla lingua materna/o paterna. Per questo è il luogo della verità.
–   Ma questa ambiguità per essere comunicata deve essere bella, deve usare un linguaggio che prende anche dalla musica, ritmo, musicalità dei suoni (lavoro nella forma): con varianti infinite di stile (del tutto soggettive ma che possono comunicare proprio perché radicate come una pianta nel linguaggio condiviso).
–  È un luogo di passaggio: dalla “vita così com’è”, la “vita nuda” (direbbero Agamben o Pirandello) quella che viene rinchiusa nei campi (manicomi o campi di concentramento di ogni tipo, ogni tipo di luoghi di reclusione e di emarginazione dal collettivo sociale normale e normato) à alla vita spirituale: sacralizza la vita nuda e in quanto tale le dà il diritto di essere riconosciuta e di esistenza.
È una traduzione dello spirito nella società (e non è dipendenza, non crea dipendenza, anzi vicendevole  attenzione e ascolto… come la musica, anzi preserva dalla dipendenza da TV, religione, da ogni forma di comunicazione ripetitiva e stereotipata perché è lingua che si ricrea nel momento in cui qualcuno/a la scrive e un’altra/o la  legge.
E permette di trasferire … anche l’eros. Quella carica di pulsione erotica  e perché no anche di morte: che potrebbe, se non incanalata, trasformarsi anche in violenza, distruzione: quella passione erotica che carica la relazione tra l’essere umano e il suo mondo del piacere che può anche esplodere e distruggere  e disarticolare la persona nella sua identità (farla a pezzi, disfarla, scioglierla in uno stato che la magia conosce bene, olon – oppure farla esplodere nella violenza: che l’amore, l’amour fou… sia sempre stato pericoloso per la società, tutte le società lo sanno, è portatore ovunque di libertà e ribellione) à la poesia permette di raccogliere quello stato della passione dell’essere, quello stato “magico” destrutturato – che può essere estatico ma anche pauroso, panico – se ci si abbandona al ritmo della lingua (che ci è stata trasmessa) ecco che essa non solo diventa un salvagente ma permette di tradurre quello stato, di dare ad esso forma, anzi forme, dove (forse) solo si può riconoscere il divino della creazione.
Dall’indicibile vero à al detto poetico che è di per sé una lingua polisemica, stratificata: c’è musica, c’è ritmo, c’è il significato, come l’immagine, e ha a sua volta molte immagini, una molteplicità di piani d’ascolto: difficili e facili. Bisogna entrare nella sua lunghezza d’onda comunicativa e di visioni (in empatia).
È anche (l’estremo) tentativo di seduzione e di fare l’amore  – senza corpo, dove il corpo fisico si trasferisce nell’erotismo delle parole. E richiede una risposta, un riconoscimento, una lettrice o un lettore che entri in sintonia, che la riceva, che l’ascolti, che la canti a sua volta.

–          La mente pensa

–          in cerca di metafore, della lingua

Mi piacciono in questa fase alcune poesie: Il tempo delle danze, Sono rimasta ferma, Io (doppia, multipla, attraversata…)

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Seconda tappa: penso ancora alla funzione della poesia, del linguaggio poetico: di tener tutto insieme: l’intimo, di esporsi: di esporre e comunicare cose, esperienze che non si possono dire altrimenti: recuperare pezzi perduti, a volte rovine, pezzi di puzzle sconnessi.
Ci si espone abitualmente in RUOLI (e si lascia qualcosa – di molto importante, dietro: si espone una parte a volte minima di sé quella richiesta dai ruoli (lavorativo, ma anche amicale, parentale, materno, qualcosa sta sempre fuori dal ruolo, oltre e sembra che sia il vero se stessa, senza forma (prima che si dica con le parole).
Anna è una sociologa, è stata una operatrice sociale, responsabile di progetti importanti nel campo della immigrazione, ha scritto un importante libro sulla Mediazione culturale che fa scuola in tutti i corsi di M.C. Forse molti la conoscono così. Ma chi l’ha conosciuta in realtà sa benissimo che Anna non era solo quella, che quei vestiti le stavano stretti, che la sua anima, la sua vitalità debordavano dai ruoli, esplodeva a volte quasi letteralmente,  – chi l’ha conosciuta sa benissimo che è sempre esistita un’altra Anna (il suo doppio: basta leggere la poesia “Io”) dominata non vorrei dire – se non fosse un termina abusato – dalla passione (dalla profonda essenza del sud), una Anna non solo alla ricerca delle “radici” del suo sud, ma alla ricerca di un linguaggio per dirsi nella sua interezza, nella sua complessità e in particolare per recuperare al discorso, alla luce della parola e della comunicazione, – alla sfera pubblica, – tutto quel profondo mondo (non mi piace chiamarlo semplicemente inconscio, che poi è anche conscio) che nominerei con le sue parole:  “la voragine scura della terra”, tutto quel magma su cui abitualmente mettiamo un coperchio e dimentichiamo rimuoviamo (ed è tutto quel rimosso che in quanto rimosso, pullula poi dagli interstizi del mancato discorso in follie, violenze che attraversano la nostra società. Anna ha usato le parole per dirsi, per far emergere quel mondo sotterraneo, profondo, che ha attraversato e anche per dire quelle cose paradossali (che stanno insieme nell’amore, che ne sono la reale essenza e che non stanno insieme nella logica, ma solo nella poesia) dell’amore e dei rapporti, che sono indicibili nella logica del discorso (logica aristotelica, oppositiva e duale: o sì o no, bianco o nero, che sta alla base peraltro della scienza e dei nostri computer), pubblico (androcentrico).
Ed ecco la scoperta della lingua poetica: l’unica che dando parola all’indicibile (grazie ai suoni, meccanismi complessi della retorica e delle metafore ecc.), grazie alla possibilità del suo giocare libero con il linguaggio permette di tenere insieme tutto, di dirsi nella propria ricchezza, complessità, stratificazione e insieme unicità. Nel dirsi. Per questo considero la poesia di Anna una continuità nel suo impegno politico nel più alto senso e nel senso femminista della parola.
– Perché oggi – e questa è la penultima considerazione a cui ero arrivata in quel primo percorso: oggi che il rapporto tra privato e pubblico si è ribaltato e il privato ha invaso il pubblico (e quasi annullato per come lo conoscevamo fino a ieri), sia nelle forme – nei picchi di maggior sfruttamento a fini di potere in una direzione proprio opposta a quella cui aspiravano/amo noi femministe anni settanta – ma non solo questo…. il rapporto privato/pubblico si è ribaltato nella società globale in genere, lo vediamo nel bisogno di esporre se stessi in pubblico (la fine della privacy?), il proprio privato, di dirsi (e non è solo in Italia, la seduzione e il narcisismo che passano per la rete pubblica, visibile a tutti, la ricerca di possibili relazioni, anche d’amore, nel villaggio globale necessita di esposizione dell’intimità a un vasto pubblico…) – circola anche nella rete e nelle reti, per es. in face-book, di socializzazione collettiva: ci si offre, ci si espone anche nella propria intimità – senza sapere o indifferenti al fatto che in questo modo – come ha mostrato Report nella sua inchiesta – esponendosi si diventa oggetti di mercificazione continua nel grande mercato globale (pubblicitario). E questo è un esporsi di superficie, rapido, con i tempi non diversi da quelli della circolazione delle merci nell’economia liberista. Anna è passata da face-book, non l’ha ignorato e non lo ignora (e grazie a lei anch’io sono entrata nella rete, per imitazione, contagio), ma per andare oltre, per andare ben oltre: è approdata, nell’affondo, e non so come, attraverso quali vie – e questa la domanda che le rivolgo, – alla poesia: cioè alla libertà di un linguaggio che esprime, evoca e nello stesso tempo vela, che ha radici nel profondo dell’esperienza (ed è insieme anche gioco, gioco serio, ora allegro, ora triste…) ma esperienza che il linguaggio simbolico fa risalire alla comunicazione che sta a cavallo tra il linguaggio universale della musica e il radicamento nella propria esperienza linguistica localissima.
– Ma poi (terza tappa): ho riletto le poesie un’altra volta (senza più stare attenta a metafore ecc.). Lasciandole scivolare, senza più analizzare: e allora loro si sono messe a parlarmi, anzi a cantare, con il linguaggio proprio di Anna.
– Non era necessario cercare metafore – che la tradizione ha addensato nella lingua costruita dagli uomini. La lingua di Anna è, viene dal corpo, quasi in continuità, usa quello che sa, ma è questa continuità quella che Luisa Muraro attribuiva al discorso “metonimico” delle donne: una continuità, non discontinuità tra il discorso, il simbolico e la materia del corpo. Con tutte le sfumature del sentire.
Questa è indubbiamente la parola dell’Amare delle donne.
E in questo la poesia di Anna non è solo di Anna ma è pure qualcosa di universale (entra nella creazione della lingua e del senso nel senso più pieno). Come abbiamo sentito/sentiremo la sua poesia “canta” anche senza metafore particolari.
Bisogna però fermarsi, o almeno rallentare, lasciarsi “compenetrare” (e anche questo è rivoluzionario).”

Franca Balsamo -Torino