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M'illumino di meno 2022 Un racconto per la Giornata del risparmio energetico

Scritto da Segreteria il 11 Marzo 2022

Il Concorso Lingua Madre partecipa anche quest’anno a M’illumino di meno, la giornata del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili promossa dalla trasmissione Caterpillar di Rai Radio 2. Per l’edizione 2022 – dedicata da una parte alla mobilità sostenibile e dall’altra alle piante come strumento gentile per compiere la transizione ecologica – ecco quindi L’erbario di Ramia, racconto corale del Gruppo di narrazione interculturale la Casa Di Ramia.

L’erbario di Ramia

L’albero del pepe di Tedla (Teramni, Eritrea)

A casa di mia nonna, in giardino, c’era un albero del pepe: alto, bellissimo, con tante foglie sottili e carico di piccoli grappoli neri. Noi lo chiamiamo berbere telli: berbere vuol dire “peperoncino” e telli vuol dire “nero”. Pepe nero. I miei nonni – preti copti tutti e due – e anche le mie nonne, sapevano curare con le piante. La gente veniva a casa nostra a prendere il pepe. Le foglie, soprattutto. Si fanno bollire nell’acqua, poi si può bere o aspirare il fumo. Quando ero ammalata era questa la mia unica medicina.
Sono andata l’estate scorsa e l’albero adesso è tutto secco. È cambiato tutto, là, negli ultimi trent’anni. Il mio è un paesino piccolo, come Negrar, per dire. Quando torno, tanti non mi conoscono neanche, magari perché sono nati dopo che io sono venuta qua. Se qualcuno mi presenta e dice: «Sai, lei è la figlia del tale», allora magari dicono «Ah, sì?». Quando vado è bellissimo ma ormai io sono abituata qua, sto bene qua.
Ma quell’albero del pepe! Lo avevano piantato i miei nonni. Faceva una grande ombra. Quando io sono nata, l’albero era già lì e tutta la gente veniva lì sotto, al fresco, a prendere il caffè, si stava insieme. Era bellissimo. Anche il paese era bello. Si viveva di agricoltura. Teramni si chiama, il mio paese, perché ci sono tanti sassi. Umni vuol dire “sassi”. “Città piena di sassi”, questo vuol dire, il nome del mio paese. Ma intorno ci sono tanti campi, coltivazioni. È un posto bellissimo. E quell’albero di pepe!
Il pepe è dappertutto adesso, nel mondo. Perché fa bene. Si mette anche sul mangiare. Fa bene al fegato. Per noi il pepe è proprio una medicina, anche per voi?

Il gelso di Sadaf (Kabul, Afghanistan)

La casa di mia nonna era in un villaggio costruito da suo padre. C’erano quarantadue abitazioni e, al centro, un cortile con un albero grandissimo, molto vecchio, che faceva dei frutti piccoli e neri.
Certi sono dolci e certi sono aspri. Qui si chiamano “more”. L’albero noi lo chiamiamo sho tut, “re delle more”. A me piacevano tanto, ma quando le mangiavo mi andava giù la pressione e non riuscivo più a stare in piedi. Mia mamma diceva che è perché io sono bianca e i frutti neri neri.
D’estate mia nonna mandava me e i miei cugini sull’albero per raccogliere le more e noi ci arrampicavamo sopra come gatti. A volte litigavamo perché uno invadeva la zona di un altro. La nonna dava indicazioni da giù, poi ci dava la mano per aiutarci a scendere piano piano. Se arrivava mio padre io mi nascondevo perché salire sull’albero era una cosa da maschi.
C’è un tipo rosso di more, aspre, con cui facciamo un’insalata con pomodoro e cipolla. Invece quelle dolci le preparavamo di pomeriggio sul terrazzo con un po’ d’acqua, poi mia nonna chiamava tutti: «Venite a mangiare le more!»
Se mi vedeva tirare un ramo per mangiare i frutti mi sgridava: «Sadaf, non tirare i rami che li rompi!». Mia nonna è molto attaccata a quest’albero. Se i bambini andavano sotto a far pipì, prendeva in mano il bastone e gridava: «Andate via! Via figli di cane! Voi siete figli di cane! State lontani da quell’albero!»
Mia nonna mi ha raccontato che un giorno, quando c’era la guerra, sono arrivati i russi e hanno preso dodici uomini – tutti gli uomini della famiglia – per portarli via e ucciderli: suo papà, i suoi zii, suo marito, i suoi figli. Li hanno presi tutti, tranne suo fratello più piccolo perché sua madre l’aveva nascosto sotto un mucchio di coperte, così quando i russi sono entrati non l’hanno visto.
Mia nonna dice: «Quando guardo quest’albero, penso a quel giorno e mi arriva mio padre davanti agli occhi.» Mi ha raccontato che quando è morta sua mamma, hanno trovato sulla sua pancia una grande bolla, come una grossa bruciatura e lei ha detto che era il dolore che era uscito così. Sua mamma, ha detto mia nonna, aveva una foto con tutti i suoi figli e tutti i giorni parlava con loro e piangeva. Certi giorni non parlava. Dondolava soltanto, avanti e indietro.
Dopo questo fatto mia nonna e il resto della famiglia sono scappati in Pakistan.
Quando, anni dopo, è tornata mia nonna ha detto «Adesso voglio sistemare la casa di mio padre. Io voglio morire là». Siamo andati a vederla, tutti insieme. Io avevo sette anni. Abbiamo fatto un pic-nic. Mia nonna, prima cosa, ha fatto una carezza all’albero. «Questo l’ha piantato mio padre. Guarda, poverino». Ha tirato un ramo per vedere se c’erano delle more, ha detto «Guarda, non è secco». Pensava che fosse morto perché nessuno gli aveva dato acqua. Poi tutti hanno cominciato a piangere. «Guarda, questa era la casa di mia zia», diceva mia nonna. Era un villaggio di parenti. Ci abitavano mia nonna, suo fratello, sua sorella. Mia zia andava da una parte, guardava la sua camera, mia mamma andava a guardare la sua. Piangevano tutti.
D’estate tutti i vicini e i nostri parenti venivano a casa di mia nonna per mangiare le more. La chiamavano: «Camarghòl! Camarghòl! Vorrei mangiare un po’ di more, me le prendi? Manda qualche bambino sull’albero a prendere delle more, per me».
Allora lei mi chiamava: «Sadaf, alzati da quel tappeto, vai sull’albero a prendere le more!»
Ancora adesso ogni mattina, quando si sveglia, prima cosa mia nonna prende una ciotola, la riempie d’acqua e dà da bere all’albero. Io sono dieci anni che non torno, ma tutti i parenti continuano ad andare, ogni estate. Vanno a mangiare le more e a vedere mia nonna e tutta la famiglia. Se non c’era quest’albero, secondo me, nessuno andava a trovare mia nonna.
Lo racconto sempre a mia figlia Zara, che non è mai stata in Afghanistan:
– Lo sai che avevo un albero di more grandissimo? Erano dolci, nere. Io mi ci arrampicavo sopra come un gatto.
– Davvero, mamma? – mi dice.

L’arbre danger di Patricia (Costa D’avorio)

Io non volevo raccontarla questa storia, siete state voi a insistere. Io sono nata di là in Africa, in Costa d’Avorio. Sono cresciuta con mia zia, in città. A sette anni, sono andata da mio papà, al villaggio. E in mezzo al villaggio c’era un albero. Grandissimo. Un giorno mio papà mi ha detto: «Non passare mai vicino all’albero, quando vai a prendere l’acqua. Devi fare tutto il giro.»
Allora gli ho chiesto perché.
– Perché si chiama arbre danger, vuol dire che è un albero pericoloso.
– Ma perché si chiama albero pericoloso?
– Li vedi tutti questi bambini, qua al villaggio? Loro vanno a scuola, ma a scuola non fanno niente. Perché gli hanno preso l’anima per metterla sotto l’albero.
Ho detto: «Va bene, ho capito». Però non ero convinta. Allora una sera sono andata da mio fratello –che aveva sempre vissuto là – e gli ho chiesto: «Come mai il papà mi ha detto di non passare vicino all’albero?» E lui mi ha preso e mi ha portato a casa di una vecchia. E le radici dell’albero entravano dentro casa sua. Mio fratello mi ha detto: «Hai capito adesso perché il papà ti ha detto di non passare vicino all’albero?»
Qualche tempo dopo hanno fatto tagliare l’albero e veramente sotto hanno trovato dei grandi vasi di terracotta chiusi con il lucchetto e dentro i vasi c’erano cartelline di scuola, penne, quaderni, gomme…
Ho chiesto a mio papà come faceva a sapere, lui, che sotto l’albero c’erano tutte queste cose e lui ha detto che era stata la vecchia a mettercele sotto, quella che l’albero le era entrato dentro casa.

“Terra” di Hamida El Bennaoui

Gli alberi del giardino di Ratna (Calcutta, India)

In campagna, quando veniva buio! Prima abitavamo a Calcutta, in una zona industriale, non saltava mai la corrente, ma quando – per via di mia sorella che soffriva d’asma – ci siamo trasferiti in campagna… «Sta arrivando, sta arrivando, sta arrivando». E sapete la corrente quando è arrivata? Quando io facevo l’università. Usavamo delle lampade a cherosene.
Prima, in città, non c’erano alberi. Solo cemento, mattoni. Ma là, in campagna, appena arrivava il buio, tutti gli alberi cominciavano a spostarsi. La loro ombra!
Quando c’era la luna piena era bello, perché era come se ci fosse la corrente. Però tutte le ombre degli alberi sembravano pantere in agguato. Mia mamma diceva «Venite, giochiamo a badminton, che c’è luna piena!» Io cominciavo a giocare, ma poi vedevo queste ombre, come se ci fosse qualcuno nascosto che mi spiava da dietro l’albero. Allora dicevo «Io vado a studiare in camera». E tutti pensavano: “Ma guarda questa che brava, che vuole sempre studiare. Avrà tanti difetti, però vuole sempre studiare”. Ma no! Era perché io vedevo tutti questi alberi che prendevano vita.

Il pepper fruit di Sandra Faith (Benin City, Nigeria)

In Nigeria, quando nasce una bambina, seppelliscono il cordone ombelicale sotto un albero. Il mio l’hanno messo sotto un pepper fruit a casa di mio nonno – che poi è diventata casa di mio zio, fratello di mia mamma. È diventato lui capo di quella casa. E quando maturava la frutta, lui la raccoglieva e la vendeva per comprare vestiti o scarpe per me. Quello è il mio albero. E c’è una preghiera dell’albero che si fa, una preghiera per l’albero che è una preghiera anche per me. Non so se si fa ancora, io non ho seguito questa usanza con le mie figlie. Dice, in sostanza, “Cresci bene, albero, senza problemi, dà buoni frutti, che la gente ne possa mangiare. Diventa famoso per la tua buona frutta e come te cresca, dia buoni frutti e diventi famosa per la sua bontà e la sua generosità anche Sandra”.
E a me sembra che questa preghiera accompagni il mio cammino. Mi aiuta ad aiutare gli altri. Come il mio albero, che dà a tutti i suoi frutti.

I platani del Prato Della Fiera di Susanna (Verona, Italia)

Vicino alla casa dove sono nata, a Isola della Scala, c’era il Prato della Fiera, con i suoi grandi platani. La famiglia di mio padre è legata a questi alberi perché ha avuto una fabbrica di zoccoli fino al secondo dopo guerra. Mio nonno era l’addetto alla segheria. Lui comprava i tronchi degli alberi, li segava con le macchine e i suoi due fratelli con tutte le mogli facevano il resto della lavorazione.
Un anno, dopo la guerra, pensando di fare un grande affare, mio nonno ha comprato tutti i platani del Prato della Fiera, solo che durante la guerra proprio lì si erano accampati gli americani e avevano fissato le tende ai trochi con certi chiodoni, per cui la sega saltava in continuazione. Un disastro. Poi i platani sono stati ripiantati. Quando io avevo cinque, sei anni erano già grandi e tanti avevano il buco. Certe sere d’estate mio padre mi portava a fare delle passeggiate nel parco e mi raccontava che dentro questi alberi vivevano i sette nani. «Questa è la casina di Cucciolo, questa è la casa di Eolo». Io guardavo questi buchi. Mi facevano paura e al tempo stesso avrei voluto entrarci dentro. Una volta mio papà mi ha sollevata davanti a una di queste aperture, tenendomi da sotto le ascelle. «Entra, prova a vedere se ci stai» mi ha detto. Ho messo dentro la testa. Qualcuno aveva buttato delle cartacce colorate dentro il buco, ma il nero s’infittiva verso l’alto. C’era un silenzio diverso, come in chiesa. Poi mio padre ha fatto finta di spingermi dentro, io ho urlato e la mia voce ha risuonato dentro l’albero. «Mettimi giù» ho piagnucolato. «Non vuoi andare a salutare Brontolo?» mi ha detto. Sono rimasta arrabbiata con mio padre per qualche giorno. Faceva sempre di questi scherzi stupidi. Come quando mi metteva a sedere sopra l’armadio e poi faceva finta di andare via. «Ti sembrano scherzi da fare?» gli diceva mia mamma quando correvo a sfogarmi da lei. Però quelle emozioni me le ricordo bene ancora adesso. Era come essere sulla soglia di un’avventura solitaria o di un mistero. Qualcosa a cui si può dire sì o no.

Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Fotografia “Terra” di Hamida El Bennaoui, vincitrice del Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla IX Edizione del Concorso Lingua Madre.