Madri e figlie

Muima Madri e figlie

Scritto da Segreteria il 22 Febbraio 2022

Testimoniare e ricostruire una genealogia femminile attraverso la scrittura. In questi testi le autrici tornano a riappacificarsi con le proprie origini e la propria cultura, per pensarsi e rappresentarsi al di fuori degli stereotipi. Un percorso che le porta a riconoscere il debito simbolico verso le madri (reali e non) per scoprire, in sé e nelle altre, una grandezza capace di unire.

MUIMA
di Nadia Kibout [Algeria]

C’era una volta… Come sarebbe bello incominciare così questo racconto, come fosse una favola, di quelle favole che, ahimè, non ho mai sentito in vita mia, o meglio, nella mia infanzia. Un’infanzia che definirei rumorosa e ombrosa. Oggi mi accorgo che le favole non erano decisamente per noi, no, quelle semmai si vedevano in televisione, nei film o nei cartoni animati, e non facevano altro però, che alimentare il sogno di una vita altra e farti capire che forse sei nata nel posto sbagliato nel momento sbagliato e sopratutto nella famiglia sbagliata. Sarà per tutto questo che ho deciso di fare della mia di vita una sorta di favola?
Si dice che la nostra lingua madre sia quella che ascoltiamo nella pancia della madre, quindi la mia è l’arabo, algerino per essere precisa. Una lingua che ti fa sentire diversa, perché un conto è parlarla in casa propria ed un altro conto portarla fuori dalle mura domestiche in Francia o in Italia, dove tutto cambia. Dove ti prendi in faccia lo schiaffo dell’ignoranza altrui, quello che sa fare male e ferire nell’animo. Perché parlare una lingua diversa del Paese in cui vivi è così problematico? Io oggi vedo ciò come un dono, una qualità. Di sicuro però c’è che questa lingua altra, parlata, non deve essere d’intralcio per la comunicazione, ed è quindi forse vero che i nostri genitori qualche responsabilità ce l’hanno. Soprattutto, se già in partenza non sanno né leggere né scrivere la loro, di lingua, figuriamoci la lingua del Paese che li ospita!

Ed allora eccomi qui a scriverti Muima, dopo tanto tempo, troppo forse, e penserai sicuramente che sono troppo impegnata, indaffarata per farlo… A te piace immaginarmi così, sempre occupata, che non mi fermo mai, neanche per mangiare, e così ti giustifichi la mia magrezza. Come facevi quando, da piccola nelle nostre domeniche di bagno turcohammam le donne ti facevano sempre battute sulla mia magrezza, che per la loro logica pare sia una malattia. Sì, perché la donna araba grassa deve essere, molto carnosa, e tu ti sentivi obbligata a giustificarti. Cosa che a me faceva molto arrabbiare. Questa specie di discriminazione mi faceva sentire diversa, non accettata, si puntava il dito sulla mia apparenza esterna e nessuna che chiedesse semplicemente o veramente “come stai?”. Io comunque ho tuttora un fisico minuto, mi nutro come mi piace e mi sento bene così, nel corpo e nel peso dei miei cinquanta chili per un metro e settanta. Una cosa, tra l’altro, per la quale mi dici sempre che dovrei fare la modella. E ciò mi fa tanta rabbia perché negli anni in cui potevo pensare davvero di farlo me lo hai negato, sicuramente per ignoranza, ma mi fa anche sorridere, per quanto questo sia contrastante con la tua nuova vita. La vita di una donna musulmana convertitasi venti anni fa ormai, che indossa il velo. Quel velo che a me invece non piace. Non mi piace perché non riconosco quella bellissima donna che ho sempre visto in te, morbida, carnosa, sensuale e bella, di una bellezza orientale, capace di fare girare la testa a tutti per la strada, specie gli uomini. Oggi tutto ciò non c’è più, è andato in fumo, scomparso, e a volte fatico a credere che tu sia stata quella donna. È vero che la vita ci cambia ma io, ammetto avrei desiderato altro per te. Sono stata anche cattiva con te, come quel giorno in cui per telefono tu mi annunciasti della tua scelta di indossare il velo, cosa che già stavi facendo in realtà, dal tuo rientro dal viaggio a La Mecca, come vuole la religione dell’Islam, (la donna che compie il pellegrinaggio a La Mecca al ritorno da esso deve coprirsi e rispettare i dettami per il resto della sua esistenza, diventando essa una cheikha). Ebbene, colta di sorpresa, per me quella fu una notizia shock: ti dissi di non osare di presentarti così a casa mia in Italia. E la tua risposta giustamente fu quella di dire “non ti preoccupare che non mi vedrai a casa tua”.  Una grande paura s’impossessò di me, unita alla rabbia, come se avessi sentito il mondo crollarmi addosso con la consapevolezza che d’ora in poi tutto si sarebbe potuto complicare tra di noi.
Ed è così che alla fine ho preso coraggio e sono venuta a trovarti, dopo cinque lunghi anni. Partii da Roma con la macchina fino Carpentras, provincia di Avignone, nel sud della Francia. Una decina di ore di guida con la testa piena di dubbi ed ansie verso casa. In realtà non più casa per me, perché nel mentre traslocasti altrove da quella che per me prima era “casa nostra”, nella città di Saint-Etienne, dove sono nata. Una casa nuova quindi in una nuova regione, dal centro della Francia al sud. Un luogo non luogo per me, nulla a cui aggrapparmi se non la concentrazione alta di popolazione araba, di quelle che a una come me la fanno sentire forse sbagliata o a disagio.

Ora, entrando nel tuo appartamento di periferia, al piano terra, attraverso l’arredamento di certi mobili appartenuti al nostro vissuto e qualche foto sparsa qua e là sulle pareti, ho avvertito un po’ di senso famigliare. Con piacere e rassegnazione notai che il tuo stile verteva sempre nel mantenere colori e mobili della tua terra di origine, l’Algeria. Dunque erano passati cinque lunghi anni sì, ma non si sentivano alla fine. E la mia inquietudine nel vederti col velo è volata via presto, perché quel velo che tu indossi non è quello che mi aspettavo: il tuo velo copre solo la fascia dei capelli, lascia spazio al tuo gran bel viso vissuto e segnato di donna araba. Quella stessa donna araba che io sento di avere in me, che per anni ho rinnegato e che la terra che oggi mi accoglie, l’Italia, mi fa ri-scoprire. Quante cose mi ha fatto scoprire l’Italia e gliene sono grata, anche se questa scoperta la devo a me che so da sempre accogliere ed abbracciare ciò che mi si presenta davanti. È risaputo, bisogna sapersi dare delle opportunità! E io me le sono date, nel bene nel male.

Muima ora ti guardo, ti osservo, e di conseguenza osservo me. Noi, donne sradicate fra gli sradicati inconsapevoli. Come si fa? Come ci si può costruire in uno stato perenne di disagio, in un continuo sentimento di fuori posto, fuori luogo? L’essere stranieri a sé stessi è la condizione peggiore da sopportare. È come un veleno che penetra e poi si espande languidamente in ogni dove, dentro di te, consumandoti fino a lasciare lembi stracciati che trascinerai fino alla tomba.
Donna, tu nasci come un fiore, fiorisci a tua volta ma nel giardino sbagliato per il più delle volte. Un giardino dove, ad annaffiarti, la maggior parte delle volte sono mani maschili incapaci di sfiorarti con delicatezza perché venute al mondo come ingessate e poi cristallizzate dalla vita.
Eppure Muima, tu sei stata donna sognatrice e piena di fantasia. Fantasia soffocata che fuoriusciva a spruzzi, come quando ti mettevi davanti alla televisione nel soggiorno sgombro di casa per vedere le videocasette in bianco e nero dei film di Farid El Atrache, attore e cantante egiziano di una bellezza sconvolgente, e allora stavi in piedi e ti mettevi a ballare, niente più esisteva intorno, solo te e lui. Ed io ti guardavo, innamorandomi a mia volta di questo uomo che mi trasportava in un altrove non identificato che però sapeva di leggerezza, di libertà e di proibito. Sì. Proibito perché non si potevano guardare in famiglia i suoi film, non in compagnia dei maschi, perché tutto ciò che tratta dell’amore, anche solamente accennato, non è concesso vederlo unitamente a maschi, fratelli, padri, zii che siano… un tabù! Questa clandestinità, questo momento di complicità, oggi mi ritorna in mente, mi fa sorridere e mi regala una consapevolezza che mi ero negata. Oggi se faccio il mestiere che faccio, tutto questo in grande parte c’entra. Io sono colei che tronca e realizza. Tronca con la tradizione di una famiglia di origine musulmana, maschile per lo più, essendo cresciuta come unica femmina in una famiglia di nove maschi, e realizza, perché ho realizzato senza rendermene conto, oltre al mio, il sogno inconfessato di mia madre, di vivere di arte, recitare, scrivere e ballare.

Come è lontano però Muima il mondo che ti ha vista nascere. Viene da pensare che era una vita fa, che forse tu non sei più quella. Neppure io non sono più la stessa, ma cosa cambia in fondo? Di sicuro non il punto di partenza. Siamo e rimarremo sempre il risultato di un atto che non conosceva amore: la violenza. Una violenza, la tua, della quale non fai fatica a dire che ti ha regalato bei figli. Sì, perché questa violenza si è ripetuta più volte nel passato da parte di quest’uomo che altro non era che tuo marito, mio padre, datoti in matrimonio. Un matrimonio forzato, che di amore non aveva niente e che in fondo ti ha impedito di amarli, questi tuoi figli, e di occuparti di loro, dall’alto dei tuoi quindici anni. Come del resto ti ha impedito di scoprire e vivere la tua femminilità, la tua bellezza, il tuo essere semplicemente donna. Hai pensato che bastasse partorirli, questi pargoletti, per pagare il conto di queste violenze. Un conto salato. Ma dare vita a dei figli non ti dà diritto a nessun sconto, anzi, te ne presenta altri, di conti, dal sapore però amaro. La tua ultima nata, Nadia, arriva per te come una benedizione dopo i primi tre maschi, per il semplice fatto che è femmina. Sì, perché è in questa neonata che riponi tutto quello che sogni. Tutto quello che custodisci nel tuo intimo e che mai hai confessato. Ma di occuparti di Nadia, dei suoi bisogni primari, dell’amarla, coccolarla e proteggerla non ne sei capace. Perché da quando tuo marito ti ha abbandonata, qualche mese prima della nascita di Nadia, il tuo mondo è cambiato. Ti ritrovi data in moglie ad un uomo che non vuoi, padre di cinque figli maschi che vivono con lui, in un villaggio della periferia di Saint-Etienne che non conosci, in una casa su due piani, senza bagno, doccia nè impianto di riscaldamento.
Il riscaldamento però, presto sarai tu a fornirlo. Semplicemente perché a te, Muima, giovane mamma, bella donna algerina carnosa, viene chiesto altro. Ci sono appetiti grandi da soddisfare e per i quali tu, per otto anni, verrai trascinata ogni notte, a suon di minacce e botte, nei cantieri edili delle periferie per darti in pasto ad operai assetati di sesso. Uomini lontani dalla loro terra d’origine che riescono a ritrovare un po’ di casa nel penetrare una donna che ricorda loro il profumo di quella casa. Anche se a pagamento e dietro violenza. Quel nuovo marito che ti trascina lì ogni notte non è altro che un tuo concittadino algerino che ti ha scelta dopo che il tuo primo marito Abdelkader, padre dei tuoi quattro figli, ti ha abbandonata vigliaccamente una notte, in seguito a un incidente da lui causato perché ubriaco, causando la morte di un innocente pedone. E così la libertà di tuo marito Abdelkader sta nel rientrare nel Paese suo, in Algeria, lasciandosi tutto dietro, senza mai più mettere piede in Europa. La tua, di libertà invece, o meglio la ricerca della tua libertà, la vai a provare nel più crudele dei modi, tentando il suicidio, non una, ma due volte, con ricoveri in ospedali psichiatrici.
Muima, sei una sopravvissuta colpevole di aver ucciso la morte.
Ma la tua ultima nata, Nadia, rappresenta per te la speranza e, di fatto, il suo nome ha come significato proprio “Speranza”. Muima, sappi che per me così è stato: ho capito che il posto dove si nasce e si cresce può essere un luogo che ti sta stretto. E allora cresci con la consapevolezza che quello sarà solo un punto di partenza, che da quel luogo ti dovrai sganciare per vivere e non più sopravvivere. E così a quindici anni mi sono ritrovata nel teatro delle opere liriche della città di Saint-Etienne, con in mano un copione, provando a leggere e decifrare un’opera di Leoncavallo, il Pagliacci, mentre erano in corso le prove del coro. Non capivo la lingua italiana scritta che stavo decifrando ma il suono delle parole era molto dolce alle mie orecchie, tutto ciò mi portava in un’altra dimensione, mi portava a sognare. Ed ecco che il sogno mi portava ad immaginare l’Italia che pensavo lontana, molto lontana. Un’Italia solare e romantica dove mai avrei pensato che sarei finita a vivere. Quanta tenerezza nel ripensare a quei tempi del teatro lirico dove ero solita collaborare come comparsa nelle varie opere, che erano per lo più italiane.
Muima, io penso che la nostra storia agisce sulla nostra identità e sulle nostre decisioni. Così un giorno, mentre lavoravo in un villaggio turistico in Marocco conobbi un uomo italiano, siciliano per essere precisa, Flavio, che lavorava anche lui nello stesso villaggio, parlava francese, ci piacevamo molto e così il mio sogno italiano incominciò. Lui mi raccontava dell’Italia, della Sicilia e io sognavo di nuovo questa lontana terra. Avrei potuto finalmente vedere questa terra tanto sognata. Ma poi successe che decisi di lasciare Flavio e di tornare a casa, anche se con metà delle mie cose. Era metà autunno circa, mi stavo organizzando la stagione invernale di lavoro in un posto di montagna. Mi accorsi che molte delle mie cose in realtà non erano con me ma con Flavio. Lo chiamai chiedendo la cortesia di spedire in Francia le mie cose e a grande sorpresa lui mi invitò a venire di persona a prenderle, così mi avrebbe fatto da guida turistica nella sua città, Palermo, che meritava di essere visitata. Così il sogno italiano finalmente prese forma e mi imbarcai per la prima volta verso l’Italia, verso Palermo, senza dire nulla a nessuno. Arrivai nel tardo pomeriggio, lui venne a prendermi all’aeroporto e mi portò a Mondello per un aperitivo. La bellezza di quel luogo mi lasciava senza parole: una spiaggia infinita, dei colori caldi, gente elegante, da ogni dove e di tutti gli stili, a passeggiare, ridere e chiacchierare ad alta voce. Devo dire che davvero era un bellissimo posto, ancora più bello di come me lo ero immaginato. Flavio mi portò poi a cena in un ristorante di pesce, sempre a Mondello, dicendomi che non mi dovevo preoccupare per il dormire perché potevo stare tranquillamente a casa sua. Anzi gli faceva piacere. In fondo eravamo amici, la nostra storia era finita ma questo non toglieva che si poteva rimanere in contatto. La cena fu squisita, bevemmo un poco di vino bianco, chiudendo poi con un dolce. Flavio pagò il conto, lo ringraziai e sorridenti salimmo in macchina. Mi disse che casa sua era a Cefalù, fuori Palermo. Le luci della città si facevano sempre più scarse lungo il percorso dell’auto, una fiat croma di cui mi piaceva il colore marron glaçé, ricordo. Man mano che la macchina proseguiva era calato il silenzio, Flavio non parlava più, io guardavo fuori dal mio lato: non volevo perdere niente di questo sogno italiano che stavo vivendo. Ad un tratto però mi sentii tirare per i capelli, la mia testa andò a sbattere contro il cambio delle marce dell’auto. Ero terrorizzata. Lui aveva una mano sul volante e l’altra intenta a dare pugni, a sbattermi la testa sul cruscotto, lo supplicai di smettere, avevo paura, ma lui mi disse che non sarebbe finita così, che me la doveva far pagare. Cercai di scendere dall’auto in corsa, ma lui bloccò le serrature. Gli dissi che sarei stata tranquilla e che avrei fatto ciò che voleva. Arrivammo davanti a una villa che mi sembrò abbandonata. La villa era di quelle signorili come si dice, ben arredata e vasta. Mi sedetti su di un divano per prendere fiato e riorganizzare le idee, per capire come uscire da quella situazione. Lui andò in bagno e io ne approfittai per cercare un telefono e chiedere aiuto. Mi precipitai verso l’apparecchio e feci appena in tempo ad alzare la cornetta che da dietro mi sentii tirare di nuovo per i capelli. Flavio mi buttò per terra e mi prese a calci, io mi cercai di proteggermi come meglio potevo e quasi svenni. Lui staccò dalle pareti i telefoni di casa e poi mi ordinò di alzarmi e seguirlo. Barcollante lo seguii nella camera da letto, osai sperare che dopo la violenza avrebbe avuto un poco di pietà verso di me, permettendomi di riposare un poco. La mia ingenuità è un grande inganno a volte. Lui voleva Nadia, quella Nadia che lo aveva lasciato. Voleva fare sesso con me e allora sotto la minaccia di un coltello compì quell’atto violento che uno pensa di aver visto solo nei film e che mai si aspetta di vivere in prima persona, compiuto poi da qualcuno che hai comunque amato. A volte, è vero, Flavio era un po’ possessivo, geloso ma avevo creduto che fosse il suo modo di amare. Il sogno Italia era così forte in me che mi ero fidata e mi ero ritrovata in un incubo.
La mattina seguente mi svegliai sola in casa. Andai alla finestra per aprire le persiane. Impossibile. Chiuse con un lucchetto. Che ne sarebbe stato di me? Avevo paura, tanta paura. Dovevo liberarmi, dovevo scappare. Riuscii a forzare un lucchetto della finestra e cominciai a correre più lontano che potevo. Mi ritrovai a fare l’autostop. Una macchina si fermò.
Questa fu la mia prima volta in Italia.

 

Il racconto Muima di Nadia Kibout pubblicato in Lingua Madre Duemilaventi – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)

Illustrazione tratta dalla fotografia “Mujeres de Los Altos” di Lucia Bonato, selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XVI Edizione del Concorso Lingua Madre.