Madri e figlie

La maltese Madri e figlie

Scritto da Segreteria il 27 Aprile 2022

Testimoniare e ricostruire una genealogia femminile attraverso la scrittura. In questi testi le autrici tornano a riappacificarsi con le proprie origini e la propria cultura, per pensarsi e rappresentarsi al di fuori degli stereotipi. Un percorso che le porta a riconoscere il debito simbolico verso le madri (reali e non) per scoprire, in sé e nelle altre, una grandezza capace di unire.

LA MALTESE
di Dolores Carnemolla [Malta]

È seduta, china leggermente su un paio di bambini accanto a lei; sul tavolo da pranzo, è aperto un pentagramma: sta spiegando le note ai suoi allievi. Io sono più piccola di quei bambini, non so ancora leggere né scrivere, sto giocando con il mio gemello o con una bambola, quieta. Ogni tanto, lo sguardo si posa là, su di lei, e la vedo un po’ diversa da come è con noi. Ha un’espressione seria, anche se sempre dolce, è concentrata su quello che sta facendo, sul suo lavoro: la maestra di pianoforte. La-a-a, Mi-i-i-i, Fa-a, e la sua mano bianca, con le dita lunghe e smaltate di rosso, ondeggia dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, accompagnando la voce nell’esercizio del solfeggio. Forse solo le mie orecchie di figlia riescono a cogliere il suo inconfondibile accento d’oltremare, una cantilena arabeggiante velata dalla lettura ritmica delle note. Diversa, per me, lo è sempre stata.

«Perché tua mamma parla così?», una domanda che mi sono sentita rivolgere spesso e a cui rispondevo un po’ intimidita e un po’ compiaciuta. Perché mia madre, con la sua lingua, è stata sempre il mio privilegio. E lei si distingueva non solo da tutte le altre mamme, ma anche da tutte le altre donne e dalle altre persone che figuravano nel mio piccolo mondo.

Come era arrivata lì, in Via del Mare 2, a tenere lezioni di musica nella sala da pranzo della nostra piccola casa in affitto, a due passi dalla piazza e dalla spiaggia di Mazzarelli? Lo raccontava ridendo, quello scherzo che la sorte le aveva riservato: da Qormi, il paese al centro dell’Isola di Malta in cui era nata e cresciuta, aveva deciso di accompagnare la sorella a conoscere la famiglia del suo promesso sposo in un paesino affacciato sulla costa siciliana, dall’altra parte dell’orizzonte. Non poteva immaginare che lì, in quel posto poi non troppo lontano dalla sua piccola isola mediterranea, araba e anglosassone, ad attenderla ci sarebbero stati mio padre e il suo destino.

Dall’Isola del Miele all’Isola del Fuoco: fin dal primo momento in cui mise piede in terra siciliana, mia madre Airin, Irene, venne soprannominata a maltisa, la maltese: la sua nazionalità la identificava e marcava le differenze. Prima di tutto, era l’unica in paese a conoscere altre due lingue, oltre all’italiano: il malti e l’inglese, parlate ufficialmente nella sua isola di nascita. Il malti lo ha sempre usato, con noi, durante la nostra prima infanzia: una culla di parole in cui mi sentivo protetta e, a tratti, diversa a mia volta. Quando si arrabbiava o ci sgridava, quella lingua veniva fuori come un fiume irruente a cui cercavamo di sfuggire, mentre lei ci rincorreva per casa col cucchiaio di legno in mano. Non ci raggiungeva mai e finivamo ogni volta per scoppiare a ridere, lei per prima.

L’inglese, in frasi compiute e complesse, lo usava di rado, e in quelle occasioni mi appariva distante, un’altra donna, ed era una diversità che mi metteva a disagio. Quando parlava l’italiano, che aveva imparato da sola ascoltando gli altri, era a dir poco buffa: ci faceva ridere perché sbagliava sempre qualche articolo o qualche verbo, e lei stessa rideva di sé davanti alle nostre facce divertite. Ha sempre avuto un’aria da bambina. Ogni tanto, italianizzava qualche parola siciliana coniando dei termini che solo noi, conoscendola, potevamo comprendere; il nostro lessico familiare, quindi, era fatto di tutte queste parole messe insieme, rimescolate come foglie e mosse dal vento leggero. Così, ad esempio, le nostre favole non cominciavano con “c’era una volta”, ma con mela darba kien em; noi non “giocavamo”, ma konna nilabu; i libri diventavano il kotba, mentre “ti voglio bene” si diceva inħobbok. Non trascorrevamo i pomeriggi in “soggiorno”, ma nel living-room; non ci asciugavamo il viso con le “lavette”, ma con i face-clothes; lei non toglieva la polvere con lo “spolverino”, ma con il duster.

Il suo essere differente rispetto alle altre persone del nostro paese rendeva diversa anche me in quanto figlia. Mentre gli altri bambini, a scuola, mangiavano merende confezionate oppure qualche fetta di pane con la nutella, mia mamma preparava per me il hobz-bi-zejt. Era delizioso, quel panino preparato all’uso di Malta, eppure lo tiravo fuori dalla carta in cui era avvolto sempre con un po’ di imbarazzo, sperando che nessuno dei miei compagni mi chiedesse cosa stessi mangiando. A volte succedeva e allora io rispondevo asciutta che a Malta la merenda si faceva così. Quelle parole straniere mi facevano sentire vicina a lei ma allo stesso tempo creavano un piccolo spazio, una distanza. Un giorno mi mandò a fare la spesa con una lista scritta di suo pugno. Entrai in bottega con quel foglietto tra le mani su cui spiccava la sua scrittura ordinata, di poco inclinata verso destra. Quando lo porsi a Don Filippo, il negoziante, mi guardò perplesso. In dialetto siciliano, disse: «Ma cosa c’è scritto, qua? Non capisco niente…».

Lanciai uno sguardo veloce alla lista e vi trovai impresse le parole del nostro lessico familiare; proprio lì, chiare, tondeggianti. Non fui capace di tradurre, e non perché non riuscissi a farlo, ma perché qualcosa – ancora una volta – mi bloccò. Mi sentii impreparata.

Don Filippo mi restituì il foglio e io lo afferrai, lo accartocciai in tasca e corsi a casa. Le chiesi, risentita: «Ma perché hai scritto così?».

Lei fece un sorriso interrogativo, ma non disse nulla. Solo oggi, solo ora, mi chiedo: in quale altro modo avrebbe dovuto scrivere? Ricordo ancora adesso quel mio senso di spaesamento. Padroneggiavo anche io quella lingua, sì, ma dentro casa. Fuori, solo con lei accanto. Vedere il malti scritto su quel foglietto, tra le mani di Don Filippo, dentro a una piccola bottega di Piazza di Mazzarelli, mi fece sentire fuori luogo. Mia madre non era al mio fianco, e io ancora non sapevo di poter essere un piccolo tramite tra due lingue, tra due mondi, tra due spazi vicini e diversi. Era stato sempre mio padre a incoraggiare quella trasmissione di parole e di culture. Lei avrebbe voluto insegnarci l’inglese – la lingua che, nella sua isola, veniva parlata nei salotti buoni – ma mio padre fu sempre contrario: lui amava il maltese. L’identità ancestrale di quel luogo era racchiusa in una lingua in cui l’Europa incontrava la parlata semitica.

Mia madre ha sempre sofferto la lontananza da casa: viveva in uno stato di nostalgia quotidiana che si tramutava in una malinconia lieve che cercava di curare tenendo vivo il legame con la sua isola, i suoi usi e le consuetudini a lei familiari. La radio in cucina era sintonizzata su Radju Malta in modo tale che lei potesse ascoltare non solo la sua lingua madre ma anche tutte le notizie di politica, cronaca e cultura. Ascoltava anche i necrologi e le preghiere, così come tutti i nomi dei familiari che partecipavano all’annuncio; erano pezzetti di vita che arrivavano fino a noi, fino a lei, fin dentro la sua solitudine straniera. Mio padre cercava di mitigare l’amarezza delicata di Airin andando alla ricerca – nella nostra provincia siciliana e barocca – di uomini che, come lui, avevano sposato delle maltesi: Pauline, Guza, Melita, Josephine, Cecilia, Moira… Erano tutte donne che, come lei, avevano lasciato Malta dopo essersi sposate. Si organizzavano così, a volte, pranzi domenicali o semplici visite in cui noi famiglie miste ci incontravamo e in cui le nostre mamme si ritrovavano. Erano ore di allegria e di divertimento che ci facevano sentire – anche se solo in parte – quegli stessi sentimenti di appartenenza e appagamento che provavamo tutte le volte che tornavamo a Malta.

Andare a trovare il nonno, gli zii e i cugini, per me bambina, era una gioia senza eguali, rafforzata dal fatto che in quei momenti mia madre era inequivocabilmente felice. Un’onda che toccava la sua sponda. O un ramo che si faceva radice. Per tutta la vita, è stata sospesa tra due isole, senza mai dimenticare neppure un soffio di quel vento maltese, i-riħ, che pure l’aveva portata da un’altra parte, verso di noi. E noi, io, mio padre e i miei fratelli, abbiamo sempre accompagnato questo suo respiro tra due mondi, con il suo alito di inquietudine per la lontananza, con il suo alito di pienezza nei ritorni.

È questo che significa, essere stranieri? Percepire la distanza grazie a radici che, dal sottosuolo, si allungano e si diramano in fronde rigogliose protese verso il cielo? Mia madre ha vissuto più anni a Mazzarelli che non a Qormi, ma straniera lo è rimasta per tutta la vita. Il giorno del suo funerale, nella piccola chiesa del paese, i nostri parenti arrivati da Malta hanno fatto risuonare un canto maltese nell’aria densa di incenso. Ancora una volta, sono stata raggiunta da quella lingua che aveva accompagnato tutta la sua vita.

“Xmara, xmara ta’ mhabba, xmara ta’ ilma frisk u haj”.

“Un fiume, un fiume di amore, un fiume di acqua fresca e viva”.

Nessuno dei presenti è stato in grado di capirne le parole. Eccetto me.

 

Il racconto La maltese di Dolores Carnemolla è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventuno – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)

Illustrazione tratta dalla fotografia “Abbracci” di Chiara Orsini, selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XIV Edizione del Concorso Lingua Madre.