Le autrici di Lingua Madre

Il corno di antilope Madri e figlie

Scritto da Segreteria il 09 Gennaio 2023

Testimoniare e ricostruire una genealogia femminile attraverso la scrittura. In questi testi le autrici tornano a riappacificarsi con le proprie origini e la propria cultura, per pensarsi e rappresentarsi al di fuori degli stereotipi. Un percorso che le porta a riconoscere il debito simbolico verso le madri (reali e non) per scoprire, in sé e nelle altre, una grandezza capace di unire.

IL CORNO DI ANTILOPE
di Marina Hu [Cina]

Secondo mia madre, mia nonna e tutte le mie zie, il corno di antilope è la migliore medicina contro la febbre. Da piccola ero abituata a diluirlo in un bicchiere d’acqua e a mandarlo giù a grandi sorsate ogni volta che la mia temperatura corporea saliva, senza farmi domande. Ma un giorno, a ventidue anni, mi sono chiesta che cosa fosse, e soprattutto per quale motivo io lo bevessi, quando nessuna delle mie amiche ne aveva neanche mai sentito parlare. Secondo mia sorella, laureata in medicina occidentale e che al mistico corno ha sempre preferito una supposta, sono solo credenze cinesi… Quello che è certo è che anche l’ultima volta sono guarita in una sola notte.

La prima volta che iniziai a distinguere le cose che si facevano a casa nostra da quelle che si facevano a casa degli altri, o in generale “fuori”, fu in mensa il primo giorno di scuola. La mensa era bianca e aveva tanti piccoli tavolini rettangolari a cui i bambini sedevano in gruppi da quattro. I maschi facevano a gara a chi fosse il più veloce a mangiare, e tenevano le teste chine sui piatti di pastasciutta. Io, per essere più veloce di loro, sollevai il piatto e lo avvicinai alla bocca. «Non si fa!» mi dissero subito i compagni, «È maleducazione!». Da quel momento capii che solo a casa mia si poteva mangiare il riso tenendo la ciotola in mano, come d’altronde faceva mio padre tutte le sere.

Poi una mattina, mentre ci lavavamo le mani in bagno, una bambina mi chiese cosa avessimo mangiato a colazione. Sapendo che loro non mangiavano ramen (spaghetti cinesi in brodo con carne e verdure) alle sette di mattina, risposi inventandomi qualcosa che speravo potesse essere normale, come un bicchiere di latte e due biscotti. La bambina stupita mi chiese come mai non fossi ancora affamata, e io mi corressi subito: forse ne avevo mangiati tre, bastavano? E quando andai a scuola con un mantou, un morbido panino bianco cinese, tutti mi chiesero che cosa ci fosse dentro. Dovetti deluderli rispondendo loro che non c’era proprio niente, dentro! «Ma è buono?» «Mmm… Non proprio».

A casa invece era sempre stato buono. Era mio padre a preparare al vapore tutti quei panini vuoti, che da piccolina adoravo e divoravo in due secondi, ma che dai primi mesi di scuola italiana cominciai a detestare perché me li propinava, appunto, vuoti. Quanto invidiavo i panini farciti al prosciutto, al salame, allo speck dei miei compagni! E le loro patatine, e le loro merendine al cioccolato! Ma secondo la medicina tradizionale cinese, ossia mia madre, tutti quegli snack facevano una brutta cosa al nostro corpo: lei usa la parola cinese shanghuo, che vuol dire soffrire di un eccessivo calore interno. Insomma, ci infiammavano gli organi e ci facevano ammalare. E poi il salame crudo faceva venire i baffi. E così in casa nostra le caramelle, i cioccolatini e in generale i dolci occidentali si dividevano in pezzi piccoli fra tutti i presenti per limitare il danno a ciascuno, e il salame veniva passato in padella prima di arrivare in tavola.

Ma c’era stato un periodo in cui i miei genitori lavoravano e noi bambine stavamo a casa, e sul mobiletto di mio padre tantissime monete da due euro aspettavano di essere usate in caso di necessità. Allora dopo la scuola noi prendevamo qualche moneta e andavamo a fare la spesa. E oltre alla carta igienica, all’olio e al sale, compravamo sempre anche una scatola di gelato. Quella scatola di gelato, che ci piaceva tanto, era ovviamente PROIBITA in casa nostra. Ci faceva male! Noi lo sapevamo benissimo, eppure sentivamo che ci poteva fare male solo se lo veniva a sapere la mamma. Allora arrivate a casa prendevamo i cucchiai più grandi che avevamo in cucina e divoravamo il gelato il più in fretta possibile, e l’ultima doveva chiudere la scatola, mettersi le scarpe e andare giù a buttarla nella pattumiera per strada. Se non la finivamo, allora la si nascondeva nel freezer, il più in fondo possibile, dietro la scorta di ravioli, bacche di goji e zenzero. Questo andò avanti per molto tempo, e alla fine avevamo provato tutti i tipi di cioccolato, tutte le merendine e tutti i gusti di gelato del supermercato sotto casa. Qualche volta noi bambine ci prendevamo il mal di gola e la tosse, altre volte la febbre, e la mamma continuava a dire shanghuo, shanghuo, senza però sospettare i nostri traffici dalla cucina alla pattumiera giù in strada. Finché un giorno in tv vedemmo un episodio di Art Attack in cui venivano usati dei bastoncini di legno dei gelati Magnum, e noi corremmo ad acquistarli. Mangiammo e pulimmo i bastoncini e, prima di utilizzarli, li lasciammo ad asciugare sul portasapone in bagno. Quella sera nostra madre scavò nel freezer e buttò i gelati incriminati.

In realtà a mia madre i Magnum piacciono da impazzire, molto più che a me e a mia sorella. E infatti con il passare degli anni è diventata sempre più permissiva e le dosi concesse di dolciumi sono aumentate, il limite oltre il quale qualcosa poteva shanghuo si è alzato. Ma quando ero una ragazzina delle medie lei doveva essere ancora molto severa, perché ricordo che con i soldi per l’autobus andavo al supermercato vicino alla scuola e compravo pacchetti di caramelle che poi nascondevo nello zaino, e se non riuscivo a farle fuori in pochi giorni mi prendeva la paura di venire scoperta. Così le caramelle avanzate finivano in fondo al cestino del bagno, sotto metri e metri di carta igienica pulita. Quando poi da grande ho iniziato a fare la babysitter, il modo di mia madre di vedere il cibo mi aveva influenzato così tanto che davanti ai bambini occidentali che mangiavano cioccolato per merenda – senza aver ricevuto indicazioni particolari da parte dei loro genitori – non sapevo bene se fermarli o lasciarli fare. Alla fine mi ritrovavo a nascondere gli involucri delle loro merendine in fondo al cestino della pattumiera, per sicurezza.

La sensazione che qualcosa di normale per noi non fosse normale anche per gli altri, o che qualcosa che era normale per gli altri non fosse ugualmente normale per noi, quando ero fuori in compagnia io cercavo di spingerla in fondo alla mia coscienza così come spingevo le scatole di gelato in fondo al freezer, e assumevo un’aria indifferente che speravo funzionasse in una situazione che mi era tutto fuorché familiare. Allora, se a casa di un’amichetta i tortellini e la coscia di pollo si portavano in tavola separatamente, l’idea di mangiare il secondo senza averlo potuto alternare al primo era per me così noiosa che preferivo non mangiarlo affatto, e fingevo di essere già sazia. Ancora oggi in realtà faccio fatica a finire un piatto di carne senza una ciotola di riso che lo accompagni. Oppure, al ristorante, mi veniva una gran voglia di mettere tutti i piatti in mezzo da condividere: le tagliatelle al ragù, i garganelli salsiccia e funghi, le pennette al salmone, la cotoletta, la rucola con la bresaola… In modo che ciascuno potesse assaggiare un po’ di tutto senza chiedere il permesso agli altri, ma sapevo bene che la consuetudine era che ognuno mangiasse quello che aveva ordinato.

Crescendo ovviamente capii che quello che poteva mettermi in imbarazzo da piccola era perfettamente normale dall’altra parte del mondo. E che mi bastava volare in Cina per vedere che milioni di persone bevevano il tè senza il tè (semplice acqua bollita), bagnavano l’asciugamano per pulirsi il viso (il che era poco pratico fuori casa, perché mi bagnava anche lo zaino), giocavano a poker da quando erano nati e avevano genitori che bramavano un figlio maschio. Però in Cina ci andavo poco, così poco che quando morirono i miei nonni paterni io li avevo visti solo una volta nella mia vita e non potevo provare un dolore preciso per la perdita. Piangere i nonni è qualcosa a cui ho assistito molto poco in generale: mi ricordo che solo una volta vidi qualcuno farlo, ed era la stessa bambina che mi aveva chiesto cosa mangiassi per colazione. La vidi un giorno uscire dal bagno in lacrime perché le era morto il nonno, e io le chiesi sorpresa come mai piangesse, visto che era morto anche a me ma io stavo benone. Per fortuna le era rimasta la nonna, da cui continuava ad andare a mangiare ogni domenica i tortellini, le lasagne e la parmigiana.

Da noi, invece, ogni domenica mattina nostro padre si alzava prima di tutti e preparava l’impasto per il pane, quando ci andava male, o l’impasto per i ravioli, quando ci andava bene. Dico male, perché ormai il pane vuoto non piaceva più a nessuno in casa, tranne a nostro padre, e in frigorifero era raro che ci fosse un salume o qualcosa di buono con cui farcirlo; dico bene, perché invece i ravioli erano quello che avremmo voluto mangiare tutti i giorni e a tutti i pasti del giorno, ma solo la domenica avevamo il tempo per lavorare l’impasto, preparare il ripieno di carne, verdure e zenzero, piegare e chiudere ogni dischetto di sfoglia e cuocere il tutto nella pentola a vapore. Così la domenica ci svegliavamo con il profumo di zenzero nell’aria, andavamo a lavarci le mani e ci raccoglievamo intorno al tavolo del soggiorno per preparare insieme file e file di ravioli, e ogni volta ciascuno conosceva già il proprio compito: nostro padre stendeva la sfoglia, noi bambine inventavamo le forme più strane di ravioli, e nostra madre li sistemava sui ripiani della pentola per poi portarli in cucina. Sembrava una produzione industriale! E alla fine mio padre prendeva sempre l’impasto avanzato, lo tagliava a striscioline, le tirava fino all’impossibile e si preparava un bel piatto di ramen fumanti.

Col passare del tempo niente è cambiato, se non l’aiuto aggiunto del nostro fratellino, che gioca con la farina. Ci piace ancora preparare ravioli in grandi quantità, così da averne anche per la colazione del giorno dopo.

Il racconto Il corno di antilope di Marina Hu è pubblicato in Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)

Illustrazione tratta dalla fotografia “L’importante è non mollare” di Hu Fengmei, selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XIV Edizione del Concorso Lingua Madre.