Linguaggi

Bulbus Linguaggi

Scritto da Segreteria il 30 Marzo 2022

Donne che decidono di raccontarsi e scoprirsi in una lingua altra, svelando la parte più schietta e vulnerabile di se stesse. Una scelta che dà origine anche a infinite possibilità di sperimentazione. Racconti che testimoniano come reinventando la lingua si reinventa il mondo. Il desiderio di comunicare opera la trasformazione e risveglia le coscienze.

BULBUS
di Eda Özbakay [Turchia-Germania]

Io sono la mia religione
Fanciulla nelle processioni delle Sante di Marzo
Donna nell`amplesso carminio
Spirito nell`essenza dei fior d`arancio

La lingua madre mi fu data in lutto, oggetto di istantanee sbagliate.
Capita che le donne, in prossimità dell’ancestrale apatia, sappiano congiungere le vene deformate e racchiudere nel pugno il resta vicino ti prego.
Ogni donna dovrebbe camminare con un pezzo di madre cucito addosso. Edificante, strutturante. Con una sessualità ispida. Goccia madre, scorri. Predica e benedici i miei passi.
Non si può nemmeno dire che la direzione presa fu quella errata. Volli respirarla, la tua Francia.
Ma non è vero, madre, che sul ponte di Avignone si danza. Non è vero che si vede meglio col senno di poi. Sui ponti l’aria si fa più fine. Solo detto questo potei, di sera, inventarmi due braccia.
Lasciai la mia terra natia, come mio padre aveva lasciato la sua e mia madre la nostra. Andai a soffiare sulla polvere sporgendomi dal nuovo pianeta.
Presi in prestito una lingua né madre né padre. Fu la mia lingua figlia, di padri e madri diversi, lingua di tube e di maschi innamorati. Arrivai in Aprile, quando la città mi offrì il suo grembo brulicante di stormi di storni e mi strapazzò i capelli con il magma d’una primavera fremente. Fu la terra ad accogliermi e io a donarle la mia adolescenza, perdendomi nei vicoli imperiali, intrisi dall’aria del Levante. Imparai a dare un nuovo nome al mondo, inerpicandomi per i gironi dell’infinito con suoni forti dal sapore pregnante e gesti avvolgenti di chissà quale parte del mio essere. Fino a diventare un trittico, fatto di corpo e ali.
Ogni Mercoledì chiamavo a casa per dare notizie di quel pezzo di nuovo mondo che a loro spettava. Sbagliai dei verbi, appartenenti al vecchio mondo, e mia madre mi correggeva ridendo. Era stata lei a insegnarmi a scrivere, sotto il dettame di un’altra fede. Sottolineava le parole rispettando le consonanti e le loro escrescenze pendenti verso il basso. Si fermava prima di una “g” per riprendere la linea poco dopo, dando il dovuto respiro glorioso alla nostra tanto amata lingua. Io fissavo ciò che rimaneva al di sotto di quella linea tracciata alla perfezione: divideva l’organo castrato dalle mammelle in meditazione.
Come in un gioco di scale di vetro, camminare in terra straniera rende prudenti, piccoli, simbolici. Si diventa simbolo di vita trascorsa, vita lontana, come un fanale nella notte.
Portavo con me il ritratto spatolato di mio fratello, immortalato a quattro anni. Lo avevano appeso al muro, accanto a me, e proprio così avevamo trascorso la nostra infanzia, su quella parete, uno accanto all’altro. Da quel muro riuscii a staccare solo lui, mentre a me toccò portare la perla al collo. Appesa al chiodo, sorridendo come la Madonna.
Continuai a camminare, a portare quel ritratto per campi di terra bruciata e rugiade leali, a mostrare i paesaggi all’occhio fisso di mio fratello, un globo sporgente dalla tela. Quando si faceva sera, le ombre sul suo viso seguivano il corso del sole, come un orologio radiante che lascia il proprio segno sul volto di chi guarda il passare del tempo.
«Cosa ci facciamo qui, in terra straniera?»
«Viviamo.»
«Ma non mi avevano appeso altrove?»
«È così. Ma d’ora in poi sarò io la tua parete.»
Cambiammo mondo e venerammo la nostra perla di vetro. Il globo di Josef rifletteva se stesso. Oh tesoro, arrangiamo il firmamento in maniera diversa. Guarda che qui nessuno lo porta così, il bulbo, noteranno subito che siamo stranieri. E dunque fuori quell’occhio, verso uno sguardo fresco di un paio di giorni. Sono un bulbo oculare, una visione di un altro mondo, uno sguardo. Fu così che venimmo catturati dall’immensa opalescenza dell’universo.
Trascorso il primo anno all`estero la mia lingua madre prese fuoco. Fu un fuoco vivo, che si portò via la mia identità natia. Non cercai di trattenerla, la mia raccolta di suoni materni e paterni, di proteggerla. Fu senza dubbio una morte prematura. Inghiottita da una lingua ignivoma e adamantina mi ci abbandonai, senza peso. Mi ritrovai in un corpo fluttuante alla ricerca della propria tazza calda all’ora del tè. Entrai nei salotti della gente, sentii la pertinacia del velluto verde dei loro canapè, impassibili sotto le carezze del mio indice. Diedi in pegno il ritratto di Josef, tenendomi il solo bulbo, che misi in tasca.
Passai gli anni con una visione non mia, attraverso occhi semiverdi, intrappolata in una forra a cancelli. Dalle rocce gocciava il latte materno, che seguiva la propria strada formando dei rigagnoli sulle pareti scure, come le vene sotto la pelle, sgorgando nelle biforcazioni generazionali. “Vuoi dire che si possa tracciare l’anima liquida che scorre nella venatura di tutta l’umanità?” “Non serve dare un nome al miraggio in fondo alla grotta per vederlo.”
Dopo il decimo anno notai che i colori di cui era fatto il mondo esterno, cominciarono a sbiadire. Cercai di strofinare il bulbo di Josef per evitare che le incrostazioni plagiassero la sua, la mia, la nostra realtà. Ma anziché vederci meglio, contribuii, così facendo, a offuscare il mio stesso mondo. Respiravo profondamente, ma più respiravo e più si annebbiava la mia visione. Mondo madre mimetizzami, salvami, accoglimi, non vedo né Miller né il musicista. “Qua bisogna finirla!”
Decisi, dunque, di intraprendere la via del ritorno, mia madre di sicuro avrebbe saputo trovare il panno giusto per lustrare il bulbo appannato.
La chiamai per dirle che ero di ritorno, ma lei mi rispose con parole non più appartenenti a questo mondo. Anche lei se ne stava andando, in una direzione nella quale non avrei potuto raggiungerla. E più si allontanava, più squarcianti divennero le sue parole. Troppo tardi, sarei arrivata troppo tardi. “Sei così lontana.” Lo so. Ero lontana.
Salpate le corde delle conoscenze reali e calamitose, iniziai a spogliarmi dai fili e legami diventati veste e mi incamminai in trame che conducevano a casa. Ad ogni curvatura lasciai un pezzo di filo, un segno per il primo e il secondo ritorno, e per il legame dei due regni.
Arrivai di Giovedì, quando mia madre era ormai composta da frasi idiote. La sua lingua se ne andò per conto proprio, portandosi via le ultime ciliegie cadute sull’erba. Il nostro giardino era un minuto di silenzio. Una sinfonia arancio. Con parole giovani e senza sbavature che io nascosi nel mio respiro.

G.: Qual è il tuo nome?
B.: Non ho più nessun nome da darti, ora che mi ritrovo tra giganti e mostri.
G.: La tua parola è del tutto vera?
B.: Vera quanto quella che mi rimangio.
G.: E la tua lingua di cosa sa?
B.: Di un’onda azzurra che intride un cordame antico.
G.: E come fai per leccarti le ferite?
B.: Avanzo nel bassorilievo di marmo circolare, nel teatro di Efeso.

Ci vuole metodo per dire addio.

 

Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Illustrazione tratta dalla fotografia “Senza titolo” di Praise Godwin, selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XV Edizione del Concorso Lingua Madre.