"Lingua e Lingua" Di Sonya Orfalian
Scritto da Segreteria il 05 Ottobre 2009
Di Sonya Orfalian
Il concetto di “lingua madre” accoglie e tiene insieme indistintamente tutti, uomini e donne. La lingua – quella che gira in bocca, la stessa che si usa per nutrirsi – è di tutti ed è con noi fin dal primo istante di vita fuori dalla placenta.
Lingua per il nutrimento e lingua per comunicare sono elementi decisivi per la vita sociale dell’umanità: la prima serve a mantenere in vita il nostro organismo (la masticazione è un atto istintivo, così come la deglutizione), mentre la seconda è uno strumento appreso, un mezzo duttile che contribuisce alla produzione di suoni utili ad esprimerci. Di qui il linguaggio umano, il parlare e infine il comunicare.
Il linguaggio dunque è apprendimento primario, un meccanismo umano diverso ma in fondo analogo a quello che serve a nutrirci e a tenerci in vita; e la lingua è un duplice strumento di contatto, strumento di vita, di conoscenza, di apprendimento.
Non è un caso però che in molte culture la lingua – la prima che si parla e che si apprende da bambini – venga definita “lingua madre”. E’ attraverso la figura materna che si fissano le regole primarie della comunicazione, e in gran parte del mondo è la madre il veicolo privilegiato della trasmissione culturale. Nella tradizione armena questa attitudine si è rinforzata, suo malgrado, in seguito al genocidio. Gli armeni, voglio ricordarlo, sono stati vittime di un genocidio a tutt’oggi negato dagli eredi di chi lo ha commesso, programmato e messo in atto (il governo dei Giovani Turchi, nel 1915) e portato a compimento (Mustafà Kemal, nel 1920). Da allora, sulle terre che furono armene non resterà più alcun armeno, né donna né uomo.
Come mai il ruolo delle donne avrà per gli armeni della diaspora una funzione rafforzata e particolarmente importante nel mantenimento della cultura tradizionale? Il genocidio viene organizzato nei minimi dettagli, con sapienza. Fin dalle prime fasi tutti gli uomini e i giovani maschi vengono separati dalle loro famiglie e barbaramente uccisi. Restano in vita le donne e i bambini che, condotti sulla via della deportazione, in massima parte periranno lungo le marce forzate, vinti dalla fame, dalla sete, dalla fatica, dalle malattie e dalle percosse dei gendarmi turchi. Molte di queste donne verranno rapite, e molte bambine strappate alle loro madri e ridotte in schiavitù. Alcune verranno adottate, “turchizzate” e forzate a sposare i giovani rampolli dei massacratori. Altre donne, dopo aver visto con orrore rapiti i loro figli, sgozzati i loro mariti, fratelli e padri, dopo aver subito le indicibili violenze sessuali dei soldati, si getteranno nei burroni e nei fiumi lungo le strade della deportazione, la cui destinazione finale era in ogni caso una morte atroce nel deserto. In una delle disposizioni di servizio del governo turco dell’epoca, si afferma che la destinazione (cioè, in ultima analisi, il destino) di questi deportati è il nulla.
Chi sopravvisse a tale orrore trovò rifugio nelle zone limitrofe, oppure – soccorso da volontari di diversi ordini religiosi e laici – si ritrovò proiettato in realtà culturali diverse e geograficamente lontane dall’amata terra d’origine.
Le donne, sebbene devastate dal dolore, private dei loro uomini e dei loro cari, trovarono comunque la forza di continuare a vivere. E hanno vissuto serbando – spesso nascondendo – nel cuore l’orrore vissuto, ma riuscendo comunque a dispensare amore e felicità: hanno continuato a ripetere gli stessi gesti delle loro mamme, delle loro nonne, amando i figli come si deve, incoraggiandoli a proseguire con onestà il proprio cammino perché la tradizione del loro popolo potesse continuare a vivere nel nome e nel ricordo di coloro che non c’erano più. Queste donne e i piccoli nuclei familiari sopravvissuti hanno saputo così bene integrarsi nei paesi d’accoglienza che la diaspora armena oltre a vivere in armonia con le cosiddette “culture altre” ha saputo arricchirsi – ma anche donare – in esperienza, a partire dalla cucina. Luogo eccellente di scambio, la stanza dove il fuoco è acceso diventa fucina di integrazione. Qui i conflitti hanno fine, si lascia il posto al linguaggio del nutrimento (il più elementare, il più universale, il più vitale), alla mensa che unisce e non divide. Pur nella coscienza di essere diversi, non abbiamo avuto timore di imparare una nuova “lingua madre” da sistemare accanto a quella principale. Non solo: la soglia della nostra cucina è stata ed è rimasta un luogo privilegiato dove tutti hanno potuto entrare e uscire a piacimento. Grazie alle nostre mamme e nonne e zie, oggi quella lingua – quella che tutti, maschi e femmine, abbiamo in bocca – può parlare in molti modi, può raccontare le nostre fiabe di tradizione, può intonare canti antichi, può servire a comunicare tante cose belle e brutte. Può anche servire, ad esempio, a rivendicare giustizia, a chiedere che la Turchia riconosca le proprie responsabilità e contribuisca a dare degna sepoltura a quegli armeni che ancora giacciono senza nome sulla terra del massacro. Lo chiediamo in tutte le lingue, principalmente nella nostra lingua madre.