limiti, confine, spazio di desideri L'articolo di Mariangela Lando
Scritto da Segreteria il 09 Aprile 2014
limiti, confine, spazio di desideri
di Mariangela Lando, dottoranda dell’Università di Padova che ha seguito la tesi di Lediona Nano, vincitrice per il 2013 del bando Tesi in Con-corso.
[articolo pubblicato su El-Ghibli, la rivista online di letteratura della migrazione].
Il confine come limite ma che deve essere oltraggiato perché ci si senta uomini fatti per seguire virtute e conoscenza. Oltrepassare i confini i limiti ai nostri giorni sta diventando molto pericoloso, procaccia pericoli di morte. È ciò che avviene in Marocco a Melilla dove gli spagnoli hanno eretto una barriera alta sei metri per impedirne il passaggio; è ciò che avviene negli USA col muro di Tijuana o “muro della vergogna” come dicono i messicani; è ciò che avviene nel Mediterraneo anch’esso visto come linea divisoria fra l’Africa e l’Europa. Ma il confine può anche intendersi come limite morale da non oltrepassare pena la propria sconfitta o morte. La cultura greca e quella giudaica vedono nella legge l’unica possibilità di salvezza. Ma tutta la cultura occidentale è pregna di questa positività della funzione della legge e quindi del limite.
La parola confine è intrisa di un’evidente polisemia di significati: fin dai banchi scolastici i docenti insegnano a delimitare su cartine geografiche i confini regionali e nazionali, l’estensione di specifici territori che ben definiscono lo spazio in cui viviamo e determinano ambienti oltre i quali ci si trova in luoghi che sembrano non appartenerci, o comunque lontani dal nostro consueto habitat di vita.
Il rapporto di proprietà e di attribuzione, determina la dipendenza emotiva nei confronti di una comunità e l’essere legati da un rapporto di discendenza stretto con la cittadinanza e la collettività locale. L’appartenenza alla propria terra è un bisogno imprescindibile e profondo a cui difficilmente si rinuncia, se non per motivi strettamente economici (la ricerca di un impiego), affettivi e sentimentali (una relazione, convivenza o matrimonio), o amicali (la vicinanza con familiari o amici trasferiti precedentemente). Ma può verificarsi anche che il motivo di allontanamento geografico dal proprio ambiente di vita sia determinato da una spinta motivazionale a intraprendere nuovi percorsi di vita, o per celare rapporti deteriorati o, nei casi peggiori, per evitare contatti con qualcuno che si ritiene una presenza negativa per il prosieguo dell’esistenza.
I racconti raccolti nei volumi del Concorso Lingua Madre – progetto dedicato alle donne straniere che vivono in Italia – sono ricchi di testimonianze di donne che si sono allontanate dalla propria terra oltrepassando più di un confine, per stabilirsi in Italia o altrove. A queste donne basta davvero poco, un ricordo d’infanzia, un luogo somigliante al proprio ambiente natio, una stagione in particolare, a rievocare con intensità la propria radicata appartenenza culturale.
Confini tanto distanti, quanto vicini. Come quelli ad esempio citati da Jenny Elisabeth Estévez (Lingua Madre Duemilatredici. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni Seb27, Torino, pp. 113-115). La donna risiede tuttora nella zona del Piemonte che delimita l’alta pianura del Ticino e proprio in questo luogo in piena stagione autunnale ella rievoca un momento felice della propria infanzia quando in Ecuador a novembre, nel giorno della fiesta de los difuntos, secondo una tradizione secolare, era il giorno in cui si creavano le bambole di pane, oggetti che rappresentano la cultura locale e che rinviano la donna al momento conviviale infantile vissuto in famiglia all’interno del confine natio che ancora saldamente le appartiene.
Ecco come il limite geografico possa essere qualcosa di assolutamente secondario e come il tempo acquisti per la donna una dimensione atemporale. O come Duška Kovačević (Lingua Madre Duemilatredici, op. cit., pp. 148-150) che avverte tuttora la sensazione di essere una donna in migrazione costante: tanti viaggi, tanti spostamenti da un paese all’altro, da una città all’altra, a bordo di vecchi treni che la riportano spesso al primo viaggio nel quale lei ha assaporato per la prima volta una sensazione indelebile di quella libertà che pensava di avere completamente raggiunto oltrepassando per l’appunto il confine. Dalla Croazia all’Italia i treni, lenti e deteriorati dal tempo, rappresentano mezzi che lei continua ancora a prendere nell’attesa di una sistemazione più stabile, con il desiderio che un nuovo paese le possa offrire possibilità relazionali sincere.
Nell’ambiente sociale e culturale in cui viviamo le occasioni per ampliare il cerchio delle conoscenze è genericamente ampio, differenziato, spesso sostenuto e forse troppo esaltato: dalla scuola all’Università, ai centri ricreativi, alle associazioni che operano in campo sociale, fino ad arrivare alle grandi possibilità che offrono la rete e i social network, le occasioni per interagire sono davvero tante. Le prime informazioni che vengono richieste sono il paese di provenienza e alcuni dati anagrafici. Ed è qui che viene messo in gioco un circuito di valori o disvalori a seconda della propria appartenenza culturale.
Il confine, inteso geograficamente e come parte identitaria fondante, è già portatore di discriminazioni che necessitano di una risoluzione sociale. Anche a questo riguardo i racconti del Concorso Lingua Madre sono esplicativi. L’esperienza vissuta da ragazze che presentano alla propria famiglia amici o fidanzati di altre nazionalità e religioni è generalmente quella di trovare accettazione a causa di pregiudizi ancora radicati e difficili da eliminare, mentre sembra essere più tollerata un’entrata straniera femminile in famiglia, da parte del figlio maschio.
Da un punto di vista storico similmente ad altre realtà europee, l’Italia ha vissuto nel dopoguerra una notevole emigrazione. Nell’era del boom economico molta popolazione si è spostata dal Sud al Nord d’Italia e molte famiglie hanno trovato miglior fortuna in Europa (in particolare Francia, Belgio, Svizzera, Germania), in paesi del nord America (Canada e Stati Uniti), e anche nei paesi sudamericani (Argentina). In una situazione di ricostruzione industriale ed economica l’Italia ha vissuto quindi un periodo sociale ed economico estremamente difficile che forse è al pari della situazione attuale. Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito ad un incremento della popolazione migrante; alcune nazioni compresa ad esempio la Spagna, sono diventate mete d’immigrazione dopo essere state per secoli, terre di massicce emigrazioni. Tra la fine del 2002 e gli inizi del 2003, secondo stime attendibili del centro studi della Caritas, gli immigrati in Italia sono stati 2.400.000, cioé 800.000 in più rispetto all’anno precedente. Raggiungono quindi ormai quasi il 5% della popolazione totale. (Il modello mediterraneo: Spagna e Italia in L’Islam in Europa modelli d’integrazione a cura di Enzo Pace, Roma, Carocci, 2004, pp. 108-112).
Il confine materiale può essere uno strumento di coercizione? Lo è stato per molte donne testimoni delle loro esperienze di vita nelle narrazioni biografiche del Concorso Lingua Madre, nel passaggio dalla terra natia al trapianto in terra straniera. La drammatica esperienza raccontata da Lina Alushi (Lingua Madre Duemilatredici, op. cit., pp. 26-33) ci riporta ai primi decenni del Novecento a Sarajevo, durante gli anni della Seconda guerra mondiale. La famiglia di Lina ostacola il regime fascista e ciò determinerà una serie di drammatiche vicende e di perdite familiari che la donna non vuole assolutamente che possano ricadere anche sui figli. Lotterà tenacemente per questo, finendo in carcere per «tradimento della patria, agitazione e propaganda». L’accusa prende avvio da una semplice proposta avanzata dalla donna durante un’assemblea di fabbrica. La donna cerca di difendersi da accuse assurde e ingiustificate, per cercare di garantire ai propri figli un’esistenza migliore prospettando loro una possibilità di lavoro all’estero, ma il governo, a metà Novecento, tronca i rapporti con i paesi confinanti e le possibilità di espatrio per il futuro dei suoi figli risulteranno nulle, soprattutto per gli anni di carcere che la donna è stata costretta a scontare.
Ecco come il confine può rappresentare uno strumento coercitivo nel momento in cui diventa impossibile ogni qualsiasi forma di libertà espressiva, quando ci si allontana dal luogo in cui si nasce.
Jennifer Steil è una donna americana che in libro La città di pan di zenzero racconta la propria intensa esperienza come capo redattrice al giornale Yemen Observer. Apprezzata giornalista a New York, Jennifer decide di fare un’esperienza lavorativa nuova approdando in un paese straniero, lo Yemen. La donna è fermamente convinta di poter diffondere il proprio «vangelo giornalistico» all’interno di una cultura professionale lavorativa assai differente da quella americana. La situazione che trova alla redazione del giornale rispecchia paradossalmente la realtà esterna: la redazione è apparentemente eterogenea, composta da uomini e donne, ma i maschi godono di una libertà d’azione assoluta rispetto alle redattrici; sono coloro che arrivano tardi al giornale, hanno una pausa pranzo che può durare alcune ore, masticano in continuazione il qat (un’erba che dà gli stessi effetti di una droga ed è legalizzata nello Yemen), privilegi incomprensibili per qualsiasi paese occidentale e che danno una resa disastrosa sul piano giornalistico: la cronaca, infatti, risulta essere assolutamente fuorviante e lontana dai reali avvenimenti quotidiani. Corruzione e copiatura sembrano essere i due elementi che più infastidiscono la giornalista. Non solo.
C’è qualcos’altro, infatti, che turba inizialmente Jennifer: ben presto la giornalista si rende conto di come sia difficile l’ambientamento nello Yemen: le donne vengono importunate di continuo e la giornalista è costretta, per poter vivere apparentemente in modo tranquillo, a mentire sul proprio status familiare: racconta infatti di essere sposata e di non aver avuto (per il momento) dei figli.
È un obiettivo arduo quello dei diritti di genere: gli uomini mantengono, per lungo tempo, le loro consuetudini e non mancano momenti di sconforto, liti ed esplosioni di rabbia verso i colleghi, e nulla sembra poter cambiare le radicate tradizioni culturali di cui continuano a “usufruire”. Si tratta di resistenze molto forti che appartengono ancora ad una cultura che non vuole accettare le regole della corretta vita sociale e culturale che stanno alla base della nostra società.
Attraverso la propria testimonianza, Jennifer desidera che l’indipendenza e l’autonomia possano diventare anche in un paese come lo Yemen, qualcosa di raggiungibile. La donna è ben consapevole che i saldi valori che rappresentano la base del lavoro in cui lei ha sempre creduto si scontrano con la realtà tuttora esistente nello Yemen: le donne sono ancora discriminate, occupano ruoli lavorativi secondari e purtroppo vengono spesso molestate.
Questa testimonianza ci rivela come la donna possa con tenacia e competenza professionale avviare una prima forma di rifiuto alla subalternità in favore di un maggior riconoscimento del ruolo delle donne. Coloro che raccontano le drammatiche esperienze attraverso il Concorso Lingua Madre e in altre forme di comunicazione, sono spesso testimoni di situazioni di costrizione e sopraffazione autocratica costante, tale da escludere ogni possibilità di reazione. Qui il confine è un obiettivo da raggiungere per poter approdare, quando è possibile, ad un’ancora di salvezza.
Ne è un esempio la prima vincitrice del Concorso Lingua Madre Ubah A. Ali Farah che ha vissuto in Somalia dal 1976 fino al 1991 quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra. E qui certamente non sono di aiuto le politiche dei governi che riescono a celare, attraverso mezzi stampa, l’impiego discrezionale di mezzi repressivi che risultano legalmente concessi. Un esempio concreto è rappresentato anche dall’India dove le contraddizioni del subcontinente, tra una crescita piuttosto fragile e una politica spesso cinica fanno in modo che il Paese sia tuttora uno dei più poveri al mondo.
Ma anche qui in Europa non mancano esempi di donne costrette ad emigrare per lo scoppio di guerre, tanto presenti, quanto raccontate differentemente da giornali e televisione, censori di tutto ciò che dovrebbe garantire una certa libertà di pensiero, donne che portano dentro ancora tutto l’orrore per uno sradicamento forzato.
Ecco che il confine è sì un passaggio che rappresenta una temporanea oasi di respiro, ma è lo stesso limite a rappresentare tutto ciò che l’espatriato ha dall’altra parte: il proprio passato, la terra natia, la propria gente, l’identità culturale.
Il confine nel suo significato morale è un traghettatore di quei valori culturali e sociali che formano l’identità di ognuno e che, nel radicamento in un’altra dimensione esistenziale, possono collimare con le realtà morali esistenti; il presupposto spirituale del comportamento delle persone in rapporto alle loro scelte e il criterio di giudizio (libertà, coscienza, e norma) rappresentano il complesso delle manifestazioni e delle condizioni della vita culturale e sociale di chi va a vivere in un Paese differente da quello natio. Ecco che in questi casi occorre riflettere sul significato dell’altrui differenza, intesa come propria e personale identità che deve essere tutelata a favore sia di chi oltrepassa il confine e sia di chi vive al suo interno. Le norme poi di uno Stato civile e liberale vanno rispettate in quanto tali sempre, non cercando alibi che non giustificano affatto la violenza, i soprusi, gli inganni di cui tanto si ha testimonianza, anche in fatti recenti.
La sovranità di uno Stato è un limite insopportabile quando diventa prevaricazione costante e limitazione alla libertà personale; ma al contempo può anche rappresentare un limite di convenienza nel momento in cui ci si rifugia troppo facilmente dietro barriere che sembrano intoccabili: la politica appare ad esempio uno di questi “salvagenti”. L’isolamento forzato all’interno di confini ben definiti è quello vissuto da molte delle protagoniste delle testimonianze raccolte dal Concorso Lingua Madre.
Un altro limite che non viene compreso appieno è sicuramente quello nei confronti del desiderio.
Lo afferma bene Lia Cigarini in La politica del desiderio quando mette in evidenza che le pratiche politiche rivolte alla partecipazione e le battaglie per i diritti risultano insufficienti perché non affrontano il vero desiderio femminile. Ciò parte da una grande assenza di ascolto: la ricerca appassionata della propria realizzazione personale e di quanto è sentito confacente alle proprie esigenze e ai propri interessi non solo non è trattato adeguatamente, ma quello che appare chiaro è che esiste un’incapacità latente all’ascolto di quali siano effettivamente le aspirazioni di genere.
Lo testimoniano sia i tanti racconti di donne straniere che lamentano una silenziosità che spesso si trasforma in passività obbligata da parte della donna, ma anche le numerose telefonate di donne che si rivolgono sempre più frequentemente ai centri di ascolto perché soffrono per la situazione vissuta all’interno di un oscuro rapporto relazionale, non ascoltate dai propri partner e aiutate con fatica dalle istituzioni (con differenziazioni evidenti da una regione all’altra piuttosto consistenti).
Il desiderio assume una dimensione di assenza quasi totale e di incomprensione verso una differenza di genere che deve essere intesa nella sua ricchezza interiore.
Se per gli uomini infatti la politica è convinzione etica oppure perseguimento del potere, per le donne deve essere “creazione di contesti, offrire le cose buone che si possono assaporare, perché non ci sia spreco di sofferenze, ma invece più agio e più piacere”, come ha scritto Fiorella Cagnoni.
Perché è così difficile creare le condizioni e le situazioni per un inserimento e un miglioramento sociale ad esempio dell’integrazione lavorativa femminile? Perché gli uomini sono ancora proiettati sulla loro ambizione personale? Perché prevale ancora una politica di egocentrismo maschile diffusa? Le occasioni e le possibilità ci sono quando si tracciano dei percorsi in cui è possibile intravedere il cammino, non al contrario quando si delineano grandi obiettivi e la strada non è indicata.
Le donne straniere (e italiane) che scrivono al Concorso testimoniano come la ricerca debba essere piuttosto quella “del modo per rendere possibili le cose”, che non quella di puntare a risultati concreti.
Luisa Muraro si affida alle parole di Manuela Fraire per spiegare questa differenza femminile: “La cosa importante non è il desiderio di qualcosa, ma il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio”, scrive. Del resto, continua Cagnoni, millenni di dominio maschile della vita sociale e politica, del linguaggio e dell’immaginario, hanno reso difficile per una donna che è stata sempre definita “in rapporto a” o “in negazione” del simbolico maschile, capire quale sia, a livello profondo il suo vero desiderio.
In una circolarità collettiva locale le istituzioni (in special modo il Comune e la Scuola) fanno da tramite e da indicatori importanti della ricettività a favore dell’inserimento culturale e sociale delle persone. È la scuola ad esempio, attraverso docenti di forte sensibilità didattico-pedagogica, a favorire iniziative che hanno come obiettivo il graduale abbattimento dei confini culturali ed etnici che sono in tanti casi fautori di emarginazione e di discriminazione.
Le donne scrivono della vita come esistenza vera e lo fanno da sole, a coppie o in gruppo. Ecco così che un’intera classe aiuta la nuova compagna straniera a scrivere il suo racconto, o all’interno di progetti (cooperative learning) l’insegnante predispone gruppi di pochi alunni che si scambiano vicendevolmente il ruolo dello scrittore, dell’ideatore e del lettore di narrazioni creati per l’occasione; o l’insegnante del corso d’italiano del CTP si fa tramite per l’espressione delle proprie allieve, o ancora figlie che narrano per le madri e madri che parlano alle figlie.
Le scuole ridisegnano il percorso di formazione anche per gli adulti offrendo un valido supporto all’istruzione in età più avanzata, e sono di grande aiuto a tutte quelle donne (straniere e non) madri e figlie che non hanno acquisito, ad esempio, un’adeguata competenza per la lettura e per la scrittura. Le scuole tengono corsi su molte tematiche disciplinari atte a sviluppare la creatività e per l’appunto necessari a incrementare le aspirazioni personali di ognuno.
Si tratta di una caratteristica di un’esperienza, di un percorso che si svolge in una scala ascendente e che non ha fine, perché l’apprendimento, come l’insegnamento e il desiderio di una formazione sul sapere che comprende la cultura, la divulgazione, la comunicazione, passa da soggetto a soggetto ed è indispensabile per l’abbattimento dei confini relazionali e per l’acquisizione della sicurezza e della stima in se stessi.
Del resto è lo stesso Concorso Lingua Madre a non mettere limiti, né confini: si può scrivere a qualsiasi età e in qualsiasi condizione. La scrittura dà possibilità espressive enormi che si colorano di sapori differenti a seconda degli stati d’animo e delle esperienze vissute a priori, o degli scenari immaginativi in cui ciascuna immerge la penna per offrire una propria testimonianza esistenziale passata, presente e futura, per denunciare forse con maggior coraggio le situazioni di violenza subite, o immaginare un altro mondo, un’altra dimensione prendendo anche il posto di chi non potrà più farlo, abbattendo confini e assurde limitazioni che ancora condizionano l’universo femminile.
Il confine è visto anche come strumento di liberazione più che di libertà: “strategie di libertà” di cui accenna Cristina Borderias che si innescano nei percorsi di migrazione delle donne e che portano al cambiamento soprattutto nell’ambito di società arcaiche in cui risulta determinante l’azione femminile.
La riconquista di una posizione autonoma e libera all’interno di contesti sociali differenziati può avvenire attraverso una difficile riconquista della capacità e della fiducia in se stessi:
La fiducia è legata alla natura medesima dell’esistenza umana, al fatto che non siamo mai completamente indipendenti dagli altri e autosufficienti, neanche quando abbiamo la possibilità di raggiungere un certo grado di autonomia morale.[…] La fiducia in se stessi prima di tutto, perché di fronte alle reazioni spesso imprevedibili degli altri bisogna potersi appoggiare su di sé, su un nocciolo duro, su un certo numero di risorse interiori capaci di garantire un minimo di coesione interna (Michela Marzano, Come curare le nostre ferite, Erickson, 2012, p. 24-28 )
Come possiamo contrastare l’estrema fragilità della condizione umana? L’uomo è un agente razionale ed è oggi portato a non tollerare troppo la vulnerabilità degli altri, è un individuo che può essere ferito perché si presta ad essere criticato, smentito a causa della propria fragilità interiore o attaccato per l’insufficienza dei mezzi di difesa.
Nel mondo odierno prevale il mito della perfezione ed è innegabile che viviamo in un’epoca di forte, ma anche di effimero individualismo e di assolute certezze estetiche che abbondano in qualsiasi ambiente di vita. Anche il corpo rappresenta la quintessenza della riuscita sociale, del raggiungimento della felicità, del grado qualitativo della vita più alto e del trapasso di ogni limite.
Ma sono proprio queste illusorie sicurezze a dimostrare come nel corso della vita l’essere umano attraversi momenti di discontinuità e che accanto ai risultati favorevoli ce ne siano altri che possiamo definire fallimentari, e come il proprio io necessiti della stima dell’altro.
Ma è ancora possibile la fiducia nell’alterità? È importante saper accettare la propria alterità per poter accogliere quella degli altri: ogni giorno abbiamo a che fare con il giudizio altrui e non serve eludere certe categorie di persone o costruirsi un falso sé per “star bene”.
L’accettazione di se stessi, come afferma Michela Marzano, è un processo lungo ma necessario che si gestisce imparando a convivere in una società pluralista come la nostra; «senza la fiducia sarebbero impensabili le relazioni umane, la fiducia è una scommessa umana e reca in sé la possibilità di un non ritorno».
Le abitudini si possono e si debbono rompere per poter cambiare. Una delle regole importanti per sopravvivere in questa società è la capacità di filtrare il mondo in modo da permeare le “sofferenze” della vita, per aprire spiragli di vita nuova. L’impegno costante nel proprio ambiente di riferimento dovrebbe riuscire a dare qualche garanzia di riuscita; non sempre accade questo perché inevitabilmente dobbiamo fare i conti con chi ci sta accanto, con coloro ai quali abbiamo affidato la nostra fiducia, in termini di amicizia, di solidità lavorativa, di sentimenti personali sul piano affettivo e relazionale.
Si deve riflettere soprattutto sull’imprevisto, sui cambiamenti inaspettati di vita, spesso troppo rapidi. Si tratta di qualcosa che ci fa paura e che scombina le nostre certezze di vita.
Sullo sfondo è necessario ritrovare l’idea dell’impegno reciproco: in un posto di lavoro, quando si opera all’interno di un team, di un’istituzione o di un’organizzazione, non ci si può limitare a pianificare le proprie azioni, bisogna lasciarsene coinvolgere nella consapevolezza che ci si espone sempre a circostanze e conseguenze che non è possibile specificare o prevedere interamente. Ciascuno ha capacità e risorse su cui fare affidamento, ma l’imprevisto esiste e non è sempre padroneggiabile.
Come trovare una via “maestra”? Ritrovando entusiasmo per i propri obiettivi, cercando di comprendere i desideri altrui e gli improvvisi o definitivi allontanamenti, accettando i propri limiti, proiettandosi nella ricerca di un miglioramento e di un’accettazione di se stessi che non vada a prevaricare gli altri magari inconsapevolmente, credendo comunque che se è impensabile una comunità senza relazioni umane, è pur vero che ci sarà sempre qualcuno che, vivendo le nostre stesse esperienze, attende di essere ascoltato. Come testimonia anche questo racconto tratto da Lingua Madre Duemilatredici di forte solidarietà al femminile:
Le avrebbe insegnato un nuovo stile di vita, un nuovo modo di vestire, di mangiare, di parlare, l’avrebbe aiutata a farsi stimare; l’avrebbe indirizzata su strade giuste, spiegandole che l’essere donna non le avrebbe mai impedito di diventare ciò che avrebbe voluto e che la sua opinione avrebbe avuto lo stesso valore di quella di chiunque altro; le avrebbe fatto da guida aiutandola a rialzarsi dopo ogni caduta; a reagire alle delusioni; a non portare rancore e perdonare i pregiudizi; a non rinnegare il proprio passato dimenticando le proprie origini, ma anzi le avrebbe insegnato ad andarne fiera, facendosi conoscere e facendo accettare la propria cultura a chiunque l’avesse guardata in modo diverso perché straniera dimostrandosi così – superiore; ma soprattutto le avrebbe insegnato a non avere più paura.
(Lingua Madre Duemilatredici, op. cit., p. 183).