Le autrici di Lingua Madre

La salita

Scritto da Segreteria il 02 Dicembre 2011

Pubblichiamo di seguito un racconto inedito che Irene Barbero Beerwald, seconda classificata alla VI edizione del Concorso Lingua Madre con Strano, estraneo, straniero, ha voluto condividere con tutti e tutte noi.

LA SALITA
di Irene Barbero Beerwald

La nostra partenza era stata precipitosa. La sera precedente, in quello sperduto villaggio delle montagne cuneesi, un’anima pietosa mi aveva scovato nella chiesetta dismessa che risuonava di strumenti barocchi e quel concerto finì per me con un cellulare in mano e la voce rotta di mia madre che diceva che mio padre era in fin di vita. 
Il suono un po’ ferraglioso degli strumenti si accompagnò di colpo a un dolore sordo che occupò il mio torace e mi impedì di ragionare. Saremmo partiti all’alba e fino a sera del giorno seguente avrei dovuto pazientare. La cittadina nel Odenwald, dove i miei passavano l’estate, era lontana. Guido caricò i pochi bagagli e le nostre biciclette con la calma fermezza che è in ogni suo gesto e che arginava da trentacinque anni le mie intemperanze così poco in sintonia con le mie origini nordiche.
Già di mattino Torino era calda e il cielo informe pesava su ogni cosa come panni fradici. L’auto attraversava gli spazi irreali della periferia che silenziosa si dileguava al di là dei finestrini e lentamente il verde un po’ stanco di fine luglio invase l’abitacolo come una carezza. La Valle si apriva e le prime montagne dalle pareti nerastre mi colarono sull’anima con la slavina dei ricordi e le cascate di lacrime.
Imboccammo la salita verso il Gran San Bernardo con i suoi regolari tornanti ornati di cappelle affrescate e rigogliose borgate, troppo liete, per fare da sfondo ai miei pensieri, ma caparbiamente invadenti. Sentivo che nello stretto spazio di quell’auto stava montando una resistenza contro di me, dura e silenziosa, che si avvalse della natura complice e quel fronte partiva da Guido. Lui non mi stava seguendo nella mia piccola discesa agli inferi dei rimpianti. Lui si opponeva con forza e non dava spazio alla caduta e d’un tratto mi sentì imbragata in quella calma imposta.
A Saint-Rhemy-En-Bosses, dove la strada devia per il colle del Gran San Bernardo,mentre il grande flusso del traffico prosegue verso il tunnel, Guido fermò l’auto e mi disse di scendere, scaricò la mia bicicletta da corsa dal bagagliaio e mi disse di cambiarmi e di salire. “Ti farà bene”, disse nel suo modo laconico. Ci saremmo visti in cima e lui mi avrebbe aspettato con la macchina. Non feci resistenza, benché nulla in me aderisse a questa bizzarra idea. Lo abbracciai e partì.
Già la prima rampa fatta a muscoli freddi spostò il centro del dolore da un luogo indefinito del mio corpo alle gambe regalandomi una sensazione diconcretezza che solo i fenomeni fisici sono in grado di dare. Il respiro si fece affannoso e il cuore, da luogo di sentimento divenne con ogni pedalata più pompa i cui battiti dovevano regolare il mio movimento. I primi due chilometri passarono così, nel sopravvento del corpo grato della frescura che gelava il sudore sulla pelle, avvolta nella coltre dei boschi.
Avevo sei anni. Il giardino botanico di Rio era un luogo magico. Papà ci portava talvolta di domenica, e quella natura addomesticata, gli splendidi viali di palme, i laghetti ricoperti di ninfee, gli spiazzi orlati di siepi profumate, i colori eccessivi delle aiuole, tutto era bello e mio. A volte papà si nascondeva con mamma e Rose dietro ai fusti delle palme e le mie lacrime suscitavano l’ilarità di tutti, sicuri che in un istante mi sarei unita alle loro risate. Non conoscevo il rancore.
Mentre un tornante mi costrinse ad alzarmi in piedi sui pedali, e le mie pulsazioni aumentavano, sentii il suono rassicurante del motore diesel della nostra auto e mi bastò quel esile conforto per infilare la prossima rampa con maggior calma. Guido mi superò, però sapevo che non si sarebbe allontanato troppo. Questa era la cifra della sua presenza: mai incombere, mai abbandonare!
Era luglio, il luglio del 1970 e anche allora viaggiando in direzione opposta da Francoforte verso Torino, l’angoscia mi ronzava sulla testa come un nero grifone. Gli ultimi giorni erano stati difficili. Il mio corpo di ventenne rifiutava la partenza decisa ormai da molti mesi e con la partenza, il cibo. Tutti i minuziosi preparativi, i documenti, i libri da scegliere, i dischi, i pochi vestiti, tutto sembrava allearsi contro di me. Mio padre quella mattina andò in fabbrica come sempre. Prima di uscire di casa, con il solito asciutto saluto mi disse di non dimenticare di essere tedesca, ma io già sapevo che non avrei dato ascolto a quel monito, sapevo che sarei diventata italiana, che quello sarebbe diventato il mio paese e l’italiano la lingua che avrei parlato, scritto e sognato. Non conoscevo ancora il prezzo degli abbandoni. Confidavo, che una volta seduta nella mia cinquecento bianca accanto a quel ragazzo che era diventato attraverso centinaia di lettere l’amore della mia acerba vita, tutto si sarebbe chetato.
Piansi invece fino a Basilea, mentre mi chiedevo chi fosse quell’estraneo accanto a me. Anche allora Guido fermò l’auto e mi portò a fare una camminata in un bosco. E mentre camminavamo, passo dopo passo, mi divenne chiaro che di quell’uomo conoscevo tutto, ogni pensiero, ogni sentimento recondito che le tante lettere mi avevano disvelato e che non correvo verso un baratro, ma verso la mia vita.
Le ruote della mia bicicletta solcavano l’asfalto lucido dall’umido della notte e mi attirava con la sua perversa promessa di una vicina meta, nascosta chi sa dietro a quale tornante. Ad un tratto la fatica allentò il morso, il respiro si fece più regolare e la mente formulò un sommesso grazie, per essere lì, attaccata ai pedali della mia bicicletta a combattere con quella salita, concreta ed aspra.
Ipanema non mi piaceva. Il sole mi scottava la pelle e le onde di quell’oceano mi sembravano mostri giganti a caccia di prede. Mio padre ci portava in spiaggia e si divertiva a tuffarsi con mia sorella nei cavalloni. Loro non avevano paura. Quando mi veniva concesso, rimanevo a casa con Isaura che mi raccontava della sua lontana infanzia in Portogallo e mi insegnava le sue malinconiche canzoni mentre preparava il pranzo domenicale per la famiglia. Mi piacevano le storie e le canzoni, anche quelle di Pedro dalla bella faccia color corteccia, che custodiva il garage sotto casa nostra e mi era amico. Papà aveva poco tempo, la costruzione dello stabilimento chimico fuori Rio lo assorbiva, come prima, a Colonia, l’avviamento dell’impianto di silicone. A lungo avevo creduto che silicone fosse l’amica di papà come mia madre diceva scherzando, e il tono malizioso di queste parole mi aveva inquietato. Senonché talvolta, tornando a casa di sera, papà mi prendeva con le sue grandi mani per la vita e con uno slancio durante il quale mi coglieva una piccola vertigine, mi faceva fare una capriola per aria e mi sedeva sulla sua spalla. Quello era un luogo di delizie ed era solo per me.
I pedali giravano sotto la pressione costante dei miei piedi come inseriti in un ingranaggio dove leve metalliche e umane si integrano. Mi sentivo come una sorta di cyborg e l’aria tersa delle montagne, l’altitudine e la fatica accrescevano quel piccolo delirio che ogni ciclista conosce e coltiva. Pure il variopinto abbigliamento dei ciclisti vi trova una ragione in più nel disegnare un’entità inscindibile tra mezzo e umano. I ciclisti non scendono volentieri dalla bicicletta, si sentono monchi e anche un po’ ridicoli come antichi cavalieri privati della loro cavalcatura. Lungo una rampa più lieve ad un tratto la natura verdeggiante si inquina con le strutture esterne del tunnel che per un poco corre in parallelo con l’antica strada del colle e da un varco laterale si sente il frastuono incoerente dei camion e delle auto che attraversano la montagna in stato di incoscienza. E la mente ringrazia ancora del privilegio di poterne stare fuori per un poco.
Dell’infanzia di mio padre so poco. Gli anni trascorsi in Brasile e poi in Spagna mi avevano allontanato da nonni e zii, testimoni di un passato remoto in Russia, e in Lettonia. Di rado ho sentito mio padre parlare nella sua lingua madre e gli scenari della sua infanzia a San Pietroburgo e a Riga si sono materializzati davanti ai miei occhi molto più tardi leggendo i grandi russi. So solamente che mio padre, come prima di lui, suo nonno, scelse la sua patria e la sua lingua madre e non diede mai nulla per scontato. Talvolta raccontava di aver intrapreso gli studi di chimica ai tempi in cui i laureati in questa come in altre materie vendevano per strada stringhe per le scarpe. Lui, per contro, non dubitò mai che avrebbe fatto il chimico e mi insegnò la perseveranza. Negli anni del politecnico a Stoccarda e a Praga egli partiva nelle vacanze tra i semestri, zaino in spalla e scarsi quattrini in tasca e camminando viaggiò per i Balcani, da villaggio in villaggio, accettando l’ospitalità di chiunque la offrisse ad uno studente viandante. Arrivò pure in Italia navigando laghi e canali del nord su una piccola imbarcazione pieghevole.
D’un tratto il bosco finì e per quanto la pendenza mordesse, l’aria si era fatta trasparente e un sole schietto incominciò a scaldare la mia pelle. Fu un momento prezioso che illuminò le fiancate della montagna e la luce riflessa nelle lenti di neve mi fece percepire l’immensità di quello scenario e la tracotanza del mio intento che fino a poco prima il bosco aveva celato. Il mio respiro diventava più faticoso e meno efficace. Vi era una piccola maledizione per cui ogni sorso d’aria chetava la sete meno di quello precedente e ogni tornante allontanava invece di avvicinare la meta.
Mio padre confidava nella ragione e nelle capacità del intelletto. Appena uscita dall’infanzia dove la sua noncuranza mi aveva concesso grande libertà e l’affetto materno la gioia di vivere, mio padre mi divenne maestro, autorevole , ironico e severo e per diversi anni, sebbene coinvolta nelle sue riflessioni su ogni sorta di questioni, sebbene attratta da quel gioco di pensieri sempre rigorosi e apparentemente oggettivi, non avevo altro scampo se non l’assenso. Era una lotta impari, dove le mie vaghe intuizioni da adolescente si sbriciolavano a contatto con la sue granitiche certezze, con l’eleganza del suo eloquio e il virtuosismo della sua dialettica. Tuttavia trovai nella scuola e nella lettura un modo per affrancarmi, per crescere velocemente e conquistarmi la voluttà del dissenso. Furono anni faticosi e fertili. All’ombra della benevolenza materna, in un luogo della mente inaccessibile per mio padre, covavo le mie passioni, la poesia, la scrittura, i primi amori inespressi.
La lenta pedalata mi stava avvicinando ad un tratto di strada meno ripida, costeggiata da alpeggi di un verde che mostrava già i segni di sofferenza per le prime gelate notturne. Un poco scostato dalla strada una baita richiamava i turisti con la promessa di tome profumate e lì vicino scorsi la nostra auto e Guido che mi faceva cenno di interrompere. Sapevo bene che in questo invito vi era tutta la sua ansia per la mia fatica, sapevo che era lui la sirena che mi distoglieva dalla salita, ma non ebbi la forza di resistere. Prendemmo un caffè e assaggiai un pezzo di formaggio consapevole, che mi avrebbe reso il traguardo ancora più difficile. E quando Guido cercò di persuadermi, che avevo già raggiunto lo scopo, che ero di nuovo viva e forte, gli dissi, ”non basta ancora.” E un po’ esaltata dalle mie proprie parole ripresi la strada per il colle che era sempre là, sempre in alto.
La ribellione di mia sorella Rose, di sei anni maggiore di me, aveva reso mio padre guardingo nei miei confronti. Non avrebbe facilmente tollerato un’altra figlia che si opponesse alla sua autorità. Rose aveva saputo resistere. In lei vi era una forza che nulla poteva trattenere e così se ne andò lontana, agli antipodi con un marito che non amava e tra mille difficoltà trovò la sua vita. Quei suoi scopi d’ira con cui cercava di far valere la propria volontà, i violenti litigi con nostro padre, lasciavano un grigio strascico ad adombrare la nostra vita quotidiana e tuttavia mi fortificarono nell’intento di fare diversamente. Ero una ragazzina docile e solare e detestavo le voci alterate e gli sguardi torvi. Amavo i miei genitori e desideravo compiacerli, ma in un’anfratto del mio cuore nutrivo la convinzione, che nessuno mi avrebbe deviato dalla mia strada, e sebbene non sapessi ancora quale fosse questa strada, mi sarei fatta intanto le ossa per poterla scovare e percorrere. Mio padre aveva fatto questo, e così avrei fatto io.
Ora i prati che fiancheggiavano la strada erano coperti di una zuppa coltre di neve che persa il suo originale candore sfrangiava in rigagnoli scuri lungo l’asfalto eroso. Cumuli di ghiaia e ampie buche mi obbligavano ad un’andatura sghimbescia. Ogni metro era fatica impervia e il tentativo di tenere a bada il cuore pretesa vana. Mi sentivo in balìa e la tentazione di rinunciare mi faceva occhiolino dietro ad ogni grigio masso di pietra. Alzai per un’ istante lo sguardo e mi parve come se tutta la meraviglia intorno, il sole, le nuvole disegnate come nei libri dei bambini e persino il cielo azzurro mi deflagrassero nel cervello con la forza di un lampo e continuai a pedalare in uno stato di vaga ebbrezza. Una lunga rampa volle tutta la mia residua energia e la speranza di una meta vicna placò l’ansia e respirai meglio. Sarebbe finita, tra poco sarebbe finita.
Dopo che Rose era partita mi convinsi, che fosse compito mio dover mantenere la quiete nella mia famiglia. Ceravo di migliorare il mio eloquio con lo studio dei classici tedeschi e i drammi di Goethe, Schiller e Lessing mi aiutarono ad affrontare mio padre nelle conversazioni serali. Dire ogni cosa senza mai trascendere, esprimere il dissenso senza mai ferire l’altro, rimanere nel confine che il contenuto stesso delle nostre dispute poneva come in un torneo dove le regole della cavalleria facevano la differenza dalla rissa, questo era il sottile equilibrio che con fatica cercavo di raggiungere.
Poi comparve Guido e il gioco si ruppe. Avevo diciassette anni e la lotta si fece aspra e durò tre anni. Quello che mio padre visse come un tradimento, non fu altro che la vita stessa che inesorabile trascendeva i limiti dei generi, che rimaneva sorda alla ragione, che rapiva una figlia per gettarla fra le braccia di un uomo che non parlava neanche la sua stessa lingua.
Il sole bruciava le mie braccia ma non valse ad asciugare il sudore che mi colava negli occhi e lungo la schiena. Pregai che la salita di mio padre fosse più lieve, che l’arrivo, ovunque lo portasse, fosse bello per lui come ora era bella per me quel colle. Staccai i pedali dagli attacchi e barcollando raggiunsi Guido, fermo in mezzo a quel vago tramestio turistico, fermo e sorridente. Sapeva stare in mezzo ai peluche di cani San Bernardo e le sgargianti offerte di menù turistici senza alcuna contaminazione.
Caricò la bicicletta e salimmo in auto. Sapevamo entrambi che la discesa non fa conto. Sarei arrivata in tempo per porgere la borraccia a mio padre e per asciugargli il sudore.

Morì da lì a due giorni.