Nel marsupio della storia Intervista a Maria Abbebù Viarengo
Scritto da Segreteria il 04 Giugno 2024
Vincitrice del Premio Speciale Giuria Popolare alla X edizione del Concorso, in questa intervista l’autrice Maria Abbebù Viarengo presenta il suo libro Nel marsupio della storia appena pubblicato per Funambolo.
Ambientata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è la storia di un giovane italiano, Alberto Prasso, e del suo progetto: dalla ricerca dell’oro fino alla costruzione di una miniera all’estero. Dopo aver vagato per diversi paesi e culture, il sogno diventa realtà in Etiopia e la fortuna di Alberto induce il nipote Oreste e altri famigliari a raggiungerlo così da aiutarlo nell’attività.
Quando lo stato fascista decide di conquistare il Corno d’Africa, lo scenario idilliaco per la famiglia Prasso cambia totalmente: il proprio paese d’origine chiede di combattere contro quello che li ha accolti, che ha permesso loro di realizzare ciò che sembrava impossibile, dove ormai si sono integrati.
Il libro narra quindi la violenta invasione militare italiana in Etiopia e le sue pericolose conseguenze.
Che cosa l’ha spinta a scrivere questa storia, trattando in particolare dell’invasione fascista?
Lo scenario del mio racconto riguarda gli italiani, i greci, gli armeni, gli etiopi, gli oromo e gli eritrei che vivevano in pace in terra abissina prima, durante e dopo che il regime fascista invadesse quella terra. Mio padre mi ha raccontato di sé, della sua famiglia, dell’invasione e del suo entourage parentale e amicale, che poi è diventato anche il mio. Non volevo lasciare nei cassetti queste testimonianze familiari.
Il mio intento, quindi, non è stato quello di scrivere un testo di storia sulla guerra intercorsa tra l’Etiopia e l’Italia. Ho scritto questo memoir perché quando si hanno tante storie dentro arriva il momento di volerle condividere, lasciarle andare.
Volevo dare voce a chi involontariamente da civile fu costretto a fare il servizio militare per combattere contro chi lo aveva ospitato. Volevo sapere chi fosse stato mio padre in quella circostanza, come avesse affrontato la sua esistenza: prima, durante e dopo l’invasione. Anche se non è stato facile ascoltare una guerra vissuta da lui in prima persona, accadimenti avvenuti durante la sua giovinezza quando invece avrebbe voluto vivere in pace.
Avevo nei cassetti della memoria e in quelli della scrivania tanto materiale.
Perché delegare la propria memoria alle figlie che avrebbero trovato tanti fogli, tanti dati, tanti vissuti ma non avrebbero avuto la possibilità di ricostruire, ricucire da ieri a oggi in un ordine a me in parte conosciuto?
Volevo raccontare chi fosse stato un loro prozio, il loro nonno, la loro madre prima che arrivassero in Italia. Era materiale che non mi sentivo di trattenere.
Che importanza ha, ancora oggi, raccontare dell’Etiopia, e del Corno d’Africa in generale, durante il periodo fascista?
Se mio padre avesse vissuto una guerra non in Etiopia ma in qualsiasi altro paese del mondo, avrei comunque guardato quella guerra con i suoi occhi, l’avrei fatto parlare e lo avrei ascoltato con la curiosità e la paura di scoprire avvenimenti e storie che mi avrebbero toccata nel profondo. Eppure mi ha sempre stupito che pochi sapessero del colonialismo italiano.
Ha ancora importanza dunque raccontare dell’Etiopia e del Corno d’Africa, ha importanza raccontare storie di tutte le guerre e in particolare quelle che riguardano da vicino i popoli coinvolti – in questo caso italiani, etiopi, somali, libici… – e le altre guerre che si cerca sempre di emarginare, di lasciare come argomenti di nicchia.
Come è più facile riconoscere le stragi perpetrate da altri e dimenticare quelle compiute da noi stessi.
Ecco quindi che un’altra forte spinta a scrivere questo memoir è stata proprio la poca conoscenza, da parte degli studenti, della geografia e della storia del nostro e dei nostri paesi. Per questa ragione nelle scuole di ogni ordine e grado abbiamo introdotto, dai primi anni Ottanta insieme all’associazione AlmaTerra e poi con la compagnia teatrale AlmaTeatro, l’educazione interculturale, alla pace e alla mondialità.
Il libro rappresenta sia il senso d’accoglienza sia quello di smarrimento che si provano quando si cerca di unire le proprie origini con una seconda patria. Quanto pesa l’appartenenza a un luogo nella definizione della propria identità? Come si giunge a un compromesso?
Non ho mai sentito l’Italia come una seconda patria, è la terra di mio padre e in quanto tale da quando ero ragazzina ho cominciato a sentirne parlare. L’ho vissuta come “l’altra casa” di mio padre e quindi anche la mia. Sono gli italiani che non mi hanno sentita parte di loro.
L’identità – dopo averci fatto tante “baruffe” – è qualcosa di cui non ho più necessità, me ne sono sbarazzata. L’identità è un peso che gli/le altri/e ti vogliono cucire addosso come un cartellino, “made in”, “taglia n°”, “composizione”, “proveniente da” e se non sanno dove collocarti sono smarriti (e ti fanno smarrire, mandandoti in confusione quando ti incalzano con domande insulse). Allora che la mia identità resti un loro problema.
Per mio padre – un italiano vissuto circa sessanta anni in Etiopia – e per me – una italo-etiope arrivata in Italia all’età di venti anni – l’identità è stata sempre un argomento di discussione: ci siamo domandati se fosse possibile, ancora oggi, che ci chiedano se ci sentiamo più italiani o più etiopi, come se una linea di demarcazione potesse tracciare un unico “sentirsi”.
Non amo le identità tanto meno le appartenenze. Ripeto: me ne sono sbarazzata, ma con fatica perché il contesto nel quale vivo ha bisogno di classificare, catalogare, e poiché parte di noi risiede negli altri (Levi). È stata una fatica. E una grossa perdita di tempo occuparsene. Nessun compromesso, ma la presa d’atto di ogni persona di “essere” se stessa con il proprio bagaglio culturale, da giocarsi come si vuole. Infatti nel memoir non si parla di identità, a parte alcuni accenni. (Sono le identità, le appartenenze, che scatenano le guerre).
Cosa differenzia gli obiettivi e il comportamento della famiglia Prasso – che rincorre il sogno dell’oro avviando un progetto in Etiopia – dall’Italia fascista – che ricerca invece la conquista territoriale?
Trovare il diario dello zio Prasso ha fatto scattare tante meraviglie, tante rabbie, e ha affamato la mia curiosità. All’inizio non ne avevo accettato tanti aspetti e per molto tempo lo avevo tenuto nel fondo di uno di quei cassetti.
Lo zio Prasso è stato un pioniere, un coraggioso. Certo un colono nel senso che è andato in altri paesi con l’obbiettivo di sfruttare le risorse territoriali. Ha realizzato il suo sogno in Etiopia, è vero, ma non gli interessava la politica, sebbene sapesse che qualsiasi cosa avesse voluto la poteva ottenere o perdere solo dai governanti.
Tutti i territori in cui cercò l’oro, infatti, erano frutto di permessi e concessioni rilasciate dai re, prima Menelik e poi sua maestà l’Imperatore Hailé Selassié. Prasso ha sfruttato i territori, ma con contratti firmati da loro ai quali doveva lasciare una parte del suo ricavato. Infine è andato in pace.
Invece il regime fascista, senza una dichiarazione di guerra, ha invaso, conquistato e si è insediato in Etiopia. Oltre alla conquista territoriale, attuata con violenza, l’Italia fascista voleva quella terra come terra di insediamento per il proprio popolo. Quello italiano. Il regime si è impossessato poi anche di tutto quello che era stato di Prasso.
Mi sembra, in definitiva, che i due progetti partano da presupposti e desideri molto diversi.
Com’è il suo rapporto con la scrittura?
Scrivo per il piacere di farlo, anche se costa tanta fatica.
Una cosa che ci tengo a sottolineare è che nel mio libro non parlo solo di guerra – non era il mio intento. Testimonio come un uomo, mio padre, arrivato in Etiopia nel 1928 quando aveva solo quindici anni, ha vissuto, costruito relazioni, imprese, coltivato amicizie, come si è sposato e ha realizzato insieme a mia madre la nostra famiglia e come abbiamo vissuto nel villaggio dove io sono nata e tornata: Ghidami!
La storia invece non parla della mia vita, vissuta poi a Torino.