Il giardino dei frangipani Intervista all'autrice CLM Laila Wadia
Scritto da Segreteria il 19 Maggio 2021
La scrittrice Laila Wadia, autrice CLM, in questa intervista racconta il suo nuovo romanzo Il giardino dei frangipani (Oligo editore), un libro che vuole riflettere sulla condizione di “doppia assenza” e “doppia appartenenza” di chi vive tra mondi differenti.
Come si legge infatti nella quarta di copertina, il volume racconta la vita di Kumari, giovane orfana indiana immigrata in Italia. In un susseguirsi di traversie, la protagonista arriverà a domandarsi, sulle orme di James Joyce: «Torneresti mai a vivere nella tua città d’origine?» La risposta è una domanda aperta al lettore: «L’ho mai veramente lasciata?» Con questo romanzo post-coloniale, l’autrice scava nella “doppia assenza” e nella “doppia appartenenza” in cui vivono tanti cittadini del mondo d’oggi, sospesi tra una madrepatria lontana, e forse neanche mai vista, e una nuova identità.
Nel suo libro racconta la vita di Kumari, giovane orfana indiana immigrata in Italia. Da dove nasce questa storia e la necessità di raccontarla?
La letteratura della migrazione italiana ha raccontato molto sull’arrivo in Italia delle persone: il viaggio, l’approdo, lo spaesamento, la nuova realtà. Ma il mondo è molto cambiato e oramai, grazie alle tecnologie delle comunicazioni, il distacco non è più necessariamente netto e definitivo. Si possono vivere più luoghi contemporaneamente e quotidianamente. Questo permette una “doppia presenza” anche se solo da remoto. Io pranzo con i miei a Mumbai via Skype, ceno con i parenti in America. Tuttavia, meno si racconta del ritorno dei migranti nei Paesi d’origine, del fatto che chi migra è destinato ad una “doppia assenza”, un sentirsi diverso, strano e estraniato, ovunque si trovi. Kumari, la protagonista del mio romanzo, come tanti migranti, pensa che tornando in matria dopo una lunga assenza, troverà le cose come le ha lasciate. Ma non è così. Il paese è andato avanti – molto speditamente – senza di lei. Ha nuovi dei, nuovi diktat. Volevo parlare di questo straniamento, di questa appartenenza e non appartenenza, di come la migrazione ti cambi. Acquisti nuovi occhi per vedere un vecchio mondo, quindi metti a fuoco i suoi pregi e le sue debolezze. Credo che esista anche una specie di terra di nessuno, un terzo spazio, dove abitano tutti coloro che migrano. È uno spazio immaginario, ma anche molto reale. Io la vivo nella letteratura, dove l’unico passaporto richiesto sono le storie, i vissuti. Il “come” viene raccontato è meno importante – è un abbellimento del “cosa” viene raccontato. L’esperienza umana è translinguistica, panlinguistica, trascende i canoni linguistici.
Volevo anche raccontare una pagina poco conosciuta della storia italiana, ovvero la storia dei tanti – quasi mille – italiani sepolti nel cimitero di Sewri, a Mumbai, in seguito alla seconda guerra mondiale. Conosco tante storie degli italiani prigionieri di guerra in India, che esigono di essere raccontate, per onorare il loro ricordo. Il romanzo è costruito a spirale, perché così sono i nostri destini: intrecciati, da sempre. Non invento mai nulla, raccolgo solo storie che sento per strada e le tesso insieme.
Può approfondire i temi della doppia assenza e della doppia appartenenza, affrontati nel suo romanzo?
Io, Kumari, tante persone che hanno l’onere-onore di vivere tra mondi si rendono conto che un unico luogo, oramai, per loro, significa vivere a metà, essere monchi – nel pensiero, nei gesti, nelle parole, negli affetti, nello sguardo, nei desideri, nei sapori e nei suoni. Sono diventati bigami o poligami: hanno bisogno di entrambi le realtà che amano per sentirsi completi. Quando sono in un luogo, si rendono conto di quanto appartengano nello spirito al luogo assente, quasi come soffrissero di sindrome di arto mancante. La nostalgia del luogo che non c’è fa quasi male. In Italia, Kumari ha bisogno di asserire la sua indianità: mangiare con le mani per ricongiungersi al suo spirito profondo e non dimenticarsi chi è stata; mentre quando si trova in India le manca la quotidianità italiana, che poi non sono gesti banali, ma una seconda pelle. È continuamente in simbiosi/conflitto, paragona due mondi, due modi di essere. Questo raggiunge l’ennesima potenza per quanto riguarda i diritti – i diritti delle donne, i diritti dell’ambiente, i diritti politici – ma anche e soprattutto nel diritto di amare. L’amore viene declinato in maniera molto diversa nei due mondi che abita e non tutte le cose possono trovare la tanto auspicata via di mezzo suggerita dai saggi. Alla fine, nella vita di ogni migrante arriva il momento della scelta più dolorosa. Per vari fattori, toccherà alla fine decidere dove riposare in eterno: Kumari dovrà mettere sul piatto della bilancia il suo vissuto di qua e di là – in India e in Italia – e prendere una decisione definitiva assai difficile.
Cosa implica, per lei, il narrarsi in una lingua altra, cioè l’italiano?
Le parole, per me, sono un’arma: un’arma di emancipazione, di inclusione e di difesa. Senza, mi sono trovata spesso inerme, esposta, fragile. Nella mia cultura di origine, molta enfasi viene posta anche sulla sacralità delle parole: non vengono spese giusto così, perché sono un dono concesso soltanto a noi esseri umani. Coniugando questi due concetti, le parole sono un’arma sacra, non un attacco, ma una difesa dal male.
Nelle mie varie lingue madri sono una dervisci: ballo vorticosa, inebriandomi di suoni, significati, giochi sacri. Nella mia lingua sorella – l’italiano – all’inizio ero più contenuta. Sapevo muovere pochi passi, conoscevo a mala pena i suoi ritmi. Ma la necessità è la madre di tutte le invenzioni, e la voglia di dire e comunicare così forte, che ho provato, con quell’essenziale che avevo in tasca, a muovere i primi passi. Scrivere è un allenamento, una palestra. Ti rendi conto che praticandola rinvigorisci non solo penna e parole, ma impari ad osare di più. In una installazione poetica-artistica scrissi: “non ho il pene, ho la penna; e sono più forte”. Lo credo fermamente. La penna mi ha permesso di dialogare soprattutto per chi la pensa diversamente da me, chi mi giudica per la mia provenienza o il colore della mia pelle o per il mio essere donna. Non so ancora ballare perfettamente in italiano, mescolo passi di bhangra con la pizzica, ma mi diverto e giorno per giorno divento più forte.