Le autrici di Lingua Madre

Giornata Mondiale del/lla Rifugiato/a 2023 Donne artefici del proprio destino

Scritto da Segreteria il 20 Giugno 2023

Oggi 20 giugno, il Concorso ricorda la Giornata Mondiale del/lla Rifugiato/a 2023 grazie al racconto delle autrici CLM Sawera Arshad, Viola Cerquetella e Alessandra Romagnoli.

Questa ricorrenza è stata indetta dalle Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di oltre 110 milioni di richiedenti asilo e sfollati/e nel mondo.
Il principale rapporto annuale dell’UNHCR, Agenzia ONU per i rifugiati, ha riscontrato che a fine 2022 il numero di persone costrette alla fuga a causa di guerre, persecuzioni, violenza e violazioni dei diritti umani è salito al livello record di 108,4 milioni, con un aumento senza precedenti.
Per questo il filo conduttore scelto per la campagna di quest’anno è Hope away from home – Speranza lontano da casa – con cui si vuole evidenziare l’importanza di soluzioni a lungo termine e il potere dell’inclusione.

 

LA CITTÀ DEI SOGNI
di Sawera Arshad [Pakistan], Viola Cerquetella e Alessandra Romagnoli [Italia]

La città era davanti a noi, come l’avevamo sempre sognata. Dopo tanto, alla fine siamo qui, a Lampedusa. È stato un viaggio difficile, abbiamo affrontato il caldo, il freddo, la fame e soprattutto la paura, ma fortunatamente siamo arrivati tutti, sani e salvi. Spero ci diano cure; alcuni ragazzi non stanno bene ed io stessa ho visto la morte che voleva trascinarmi con sé, ma ci siamo fatti forza l’uno con l’altro e ora sono pronta a iniziare una nuova vita.
Mi chiamo Abena, sono una ragazza nigeriana di venticinque anni, scappata dalla sua famiglia e dal suo destino in cerca di una vita migliore, una vita libera. “Perché hai rischiato la vita in un gommone per venire qui?”. Me lo chiedono spesso, forse troppo: la mia risposta è sempre la stessa. Purtroppo, il mondo non è equo sotto molti punti di vista ed esistono tante ingiustizie; la comunità europea, infatti, è ben diversa da quella in cui sono cresciuta io. La mia famiglia era, ed è, a dir poco povera, e dovetti diventar donna fin dall’infanzia: una delle cose peggiori che possano succedere a un bambino. Forzarlo a crescere prematuramente, gli strappa di dosso e gli fa perdere un pezzo dell’infanzia, ma devo ammettere che in questo caso fu una fortuna che mi salvò la pelle. Mio padre era anziano, credo avesse intorno ai cinquant’anni anni, non mi disse mai la sua età ma credo che nemmeno lui la sapesse; non festeggiavamo i compleanni, non avevamo tempo e importanza da dargli. Mia mamma invece, aveva intorno ai trentatré anni quando me ne andai. La differenza di età, da noi, non è mai stata un problema o una cosa su cui discutere perché è un fatto normale, tanto che alcune mie amiche si sono dovute sposare a tredici anni con uomini di trenta, e devo ammettere che vederle andar via è stato davvero difficile. Ero preoccupata per cosa avrebbero fatto loro, mi chiedevo se le avrei mai riviste e ogni giorno avevo sempre meno speranza, ero terrorizzata. Prima che loro andassero via, vidi i loro occhi pieni di angoscia e timore. Avrei voluto aiutarle, ma come avrei potuto? Era la normalità, la tradizione, l’unica scappatoia per far riempire la pancia di altri figli a delle povere donne.
Non sono stata destinata a nessun matrimonio perché ai miei genitori serviva una mano a casa e nei campi, dato che hanno avuto più figlie femmine che maschi. Non vi dico la vergogna che provavano per ciò. Nonostante questo, hanno comunque preferito far sposare le mie due sorelle più grandi, mature e “adatte alla vita da madri”, come diceva mio padre. Ho iniziato a lavorare nei campi a sette anni, a nove a occuparmi della famiglia e della casa. Sono andata a scuola solo una volta in vita mia, poi decisero che era inutile e non mi mandarono più. Non ricordo nemmeno cosa mi dissero, so solo che non vedevo l’ora di tornarci.
Il resto della mia infanzia l’ho passato sotto il sole, con mio fratello piccolo appoggiato e legato sulla mia schiena dalle bande di mamma, ma avevo sempre paura di farlo cadere dato che, per quanto si possano regolare, erano sempre troppo grandi per me. Mi ricordo benissimo che la mia preferita era gialla canarino, decorata da disegni stupendi, arancioni, rossi e bianchi, e quando la indossavo mi sentivo una donna grande, importante, mi distraevo da tutto quel peso che subivo ogni giorno. Non avevo la visione della femmina che avevano tutti in quel villaggio, nella mia mente non ero più l’oggetto di papà, ero una persona. Ho imparato che quando non hai nulla, ti aggrappi alle cose più semplici, dando a quelle tutta l’importanza possibile; io l’ho fatto con me stessa e non mi pento di nulla.
Se ora sono qui è solo grazie a me e mi ringrazio ogni sera per non aver mollato e per aver continuato a lottare. La mia vita continuò così fino ai sedici anni, quando un giorno papà mi prese il braccio, mi trascinò fuori casa, mi fece spogliare davanti a quattro uomini barbuti, puliti, vestiti eleganti, e tirò in ballo dei numeri che ogni volta crescevano sempre di più. Lì capii tutto. Sarebbe toccato anche a me. “Ma perché proprio ora?” pensavo. Insomma, ero grande, troppo grande, pensavo di averla scampata e invece finii in mano a un mercante. Non ebbi il tempo nemmeno di salutare mia madre. Non riuscivo a guardare più in faccia mio padre; lui mi chiamò, forse per spiegarmi, forse per scusarsi, ma non mi voltai e andai per la mia strada, in silenzio. Il mercante era gentile e mi offrì dei frutti, tuttavia non mi disse il suo nome, ma soltanto che avrei dovuto chiamarlo ‘Signore’. Lui non voleva fare niente con me, non mi sfiorò nemmeno, perché diceva sempre di esser troppo innamorato della moglie e che nemmeno della carne fresca come me, avrebbe potuto soddisfarlo. Allah, non sai quanto te ne sono grata!
Quindi di me che voleva farne? Lo capii un giorno quando mi portò al suo mercato. Avrei preferito restare con lui anche a costo di dover lavorare nel suo sporco bancone. Mi mise in primo piano, davanti ad altre ragazzine e aspettammo. C’erano ragazze più belle di me, nessuno mi comprò. Passarono mesi e mesi, ogni giorno venivano dei signori a prendere quelle povere ragazzine e trascinarle nelle loro case. Quel senso di impotenza mi assaliva, avrei voluto liberare me e quelle povere innocenti. Alla fine ‘il Signore’ si stancò di me e abbassò il prezzo, mi propose come schiava, non più come possibile moglie, e mi comprarono subito.
Passai i successivi sei mesi come serva di un benestante. La maggior parte del tempo lavoravo nei campi e quando non c’era lavoro lì mi occupavo di cucinare. Grazie a questo ebbi l’opportunità di mangiare e di portare del cibo agli altri che lavoravano per lui. Una notte decisi di scappare, stufa di tutto quello che mi toccava subire. Feci attenzione a ogni minimo passo e rumore del pavimento cigolante, e silenziosamente, fuggii. Iniziai a correre, non sapevo dove stessi andando, camminai per giorni e giorni, affamata e assetata, finché non trovai una piccola città e restai lì circa una settimana, senza meta, a chiedere l’elemosina, e fui costretta a dormire per terra e a patire la sporcizia.
Poco dopo conobbi un ragazzo, nel giorno che io reputo il più importante della mia vita. Mentre stavo girando davanti l’ingresso di un negozio, egli mi vide e mi prese con sé, con modi gentili, promettendo di aiutarmi. Mi disse di aspettare esattamente dov’ero, di aspettarlo e di dargli piena fiducia, che sarebbe ritornato presto. Fu così. Lui tornò, mi disse di mostrargli quanti spiccioli avevo con me, li contò, mi sorrise e mi chiese di seguirlo. Feci come aveva detto perché affermava che ne sarebbe valsa la pena. Cosa avevo da perdere? Mi portò in un piccolo porto poco distante da dove mi trovavo e mi fece salire su quel gommone con altri cento fra ragazze e ragazzi. Era rischioso? Sì. Avevo paura? Tanta. Sapevo dove sarei andata? No. Ma non mi importava, poteva essere una svolta, potevo essere finalmente felice.
Ed ora sono qui. Mi sento dire ogni giorno cose orribili sul mio conto, sul colore della mia pelle, sulla mia provenienza: se chi mi dice queste cose sapesse la mia storia sono certa che non parlerebbe più. Ma mi scivola tutto addosso. Sono una donna forte, e ora posso essere me stessa e vivere con la spensieratezza che tanto merito.

Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Fotografia Mujeres de Los Alto di Lucia Bonato, selezionata per la Sezione fotografica della Fondazione Sandretto Re Rebaudento alla XVI edizione del Concorso Lingua Madre.