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Il Tempo delle Donne La lingua rende libere?

Scritto da Segreteria il 08 Settembre 2023

Quest’anno i racconti delle autrici del Concorso Lingua Madre sono stati protagonisti della festa-festival del Corriere della Sera Il tempo delle donne (8-10 settembre) che celebrava i dieci anni. La manifestazione è nata da un’idea de La27esimaOra – blog tutto al femminile del quotidiano – che si svolge alla Triennale Milano con eventi diffusi sul territorio e che coinvolgono l’intera città.

Ecco quindi il workshop La lingua rende libere? che si è svolto all’Università Statale di Milano nella giornata del 7 settembre, per riflettere sulla lingua come strumento di libertà, perché «la libertà – hanno spiegato le organizzatrici – è la parola che abbiamo scelto per questa edizione. In un periodo affaticato di crisi multipla, di uscita dalla pandemia e dai lockdown, di guerra nel cuore dell’Europa e di destabilizzazione economica, di alluvioni, terremoti e siccità, sappiamo che non ne usciremo se non allargando lo sguardo oltre muri e confini, costruendo un dialogo con tutte e tutti, insieme».

A curare e condurre l’incontro il professore Giuseppe Sergio che ha spiegato come, proprio partendo dalle antologie Lingua Madre (Edizioni Seb27), l’intenzione era quella di indagare se e in che modo l’appropriazione di una lingua potesse diventare sinonimo di libertà e al contempo di interrogarsi su come il linguaggio potesse giungere a derive sessiste e razziste.

La professoressa Beatrice Del Bo ha coordinato le e gli studenti del Dipartimento degli Studi Storici dell’UNIMI che hanno garantito un’ampia copertura del workshop soprattutto attraverso Instagram, social che utilizza il linguaggio delle immagini. Probabilmente il mezzo più antico di trasmissione materiale di cultura tra gli uomini, le immagini esercitano potere, fascino, persino paura ma è sbagliato – ha sottolineato Del Bo – lasciare il dominio di questa espressione della contemporaneità a chi la utilizza per aggredire, odiare, diffondere messaggi superficiali o volgari. Occorre, al contrario, appropriarsi di tutti i mezzi di comunicazione che ci offre la tecnologia per invertire la rotta, proporre idee, creare possibilità e comunità.

Jacopo Ferrari, autore del recente volume Parole migranti in italiano (Milano University Press), ha quindi indagato il viaggio migratorio e il riconoscimento di appartenenza che passa anche attraverso le parole, i verbi, le possibilità di riscatto o indipendenza che offre la lingua. Le nuove generazioni, e in particolar modo le donne, che questa lingua la dominano, si sentono quindi libere? Quelle donne “non più” straniere, tanto da aver indotto ad aggiungere la proposizione nel sottotitolo dell’antologia Lingua Madre Duemilaventitré? Forse non ancora ma sono “future”, come titola il recente libro di Igiaba Scego, quindi di là da venire, con fiducia e determinazione.

Lo hanno confermato gli interventi delle giovani autrici CLM, Sabrine Gourani (anche vincitrice della sezione fotografica di quest’anno con l’immagine Il deserto di Agafay) e Sisi Luo. Entrambe sono studenti di Scienze della Mediazione Linguistica e di Studi Interculturali, dove hanno conosciuto il Concorso che da anni collabora con il dipartimento realizzando incontri, presentazioni, saggi e coinvolgendo le universitarie grazie al lavoro e all’impegno dei docenti Gabriella Cartago e Giuseppe Sergio.
Per loro l’italiano ha rappresentato molto ma, come ha raccontato Gourani, «anche se mi sono sentita libera imparandolo, questo non ti salva dal sentirti straniera». Tuttavia si tratta di una lingua che accoglie, ha spiegato Luo, al contrario dell’inglese che per lei è «come una cornice vuota, senza dipinto». Un rapporto in continua evoluzione, che fa della loro scrittura una risorsa per ampliare l’immaginario espressivo di tutte e tutti.

Le emozioni, infatti, diventano una categoria di analisi nell’ambito della storia delle emigrazioni, come illustrato da Silvia Cassamagnaghi nel corso del suo intervento. I sentimenti, il linguaggio degli affetti raccontano la storia reale. Come nel caso delle “spose di guerra”, donne che lasciarono tutto per seguire giovani stranieri innamorati, con cui riuscivano a comprendersi a stento, alla volta di un paese lontano. Tra dramma e avventura la lingua rappresentò per loro il cambiamento, la possibilità di acquisire consapevolezza di sé ed emanciparsi.

Storie che si ritrovano anche nei miti indagati da Silvia Romani, dove le narrazioni di migrazione e movimenti, soprattutto per le donne, erano strettamente legate al tema della libertà, pagata poi spesso a caro prezzo (a cominciare da Arianna “piantata in Nasso”!). E il linguaggio può dare voce a ciò che è difficile esprimere, magari utilizzando monosillabi, locuzioni inventate e nuove, come nel caso del coro de Le troiane. Un esperimento ripreso dalle detenute afroamericane impegnate nelle attività teatrali all’interno di un carcere statunitense per trovare un linguaggio comune a tutte le donne di origini diverse presenti nella struttura, così da riuscire a esprimere la sofferenza grazie a un linguaggio ibrido e recuperando, dal punto di vista sonoro, la libertà di esprimersi.

Ma la lingua può anche essere utilizzata dai maschi per rendere ancora più schiave le donne. Ne hanno parlato Nicoletta Vallorani insieme alla neo laureata Giulia Meroni che ha condotto l’approfondita ricerca di tesi sull’associazionismo INCEL (Involuntary celibate), che riunisce giovani uomini, celibi, eterosessuali e in maggioranza bianchi che manifestano il loro odio nei confronti delle donne, in particolare se lesbiche, a cui attribuiscono la colpa dei loro insuccessi e della loro solitudine. Un movimento estremista che fonda le sue basi sulla frustrazione sessuale maschile, tra razzismo e luoghi comuni e che crea un nuovo linguaggio violento e sconvolgente, arrivando a definire le donne “NP” cioè “non persone”. Il linguaggio può quindi diventare una gabbia, anche nel caso di comunità minoritarie come questa, che però grazie al web riescono a beneficiare di una larga e veloce diffusione.

A prevalere nella scrittura delle donne è comunque l’anelito di chi non rinuncia, la fiducia, il desiderio di entrare in relazione, ha detto Daniela Finocchi. Ci sono solo buone matrigne, ci devono essere, come scrive l’autrice CLM Sei Iturriaga Sauco, perché “questa lingua italiana ci nutre, perché è questo che fanno le madri; salvano gli orfani anche se sono di altri regni, di mondi diversi”. Ha poi sottolineato come sia importante mettere in uso un linguaggio rispettoso della differenza e delle differenze ricordando il libro Donne, grammatica e media realizzato da GIULIA giornaliste e quindi la “Carta di Roma” il protocollo deontologico di giornaliste/i che fissa le regole per il trattamento delle informazioni di richiedenti asilo, rifugiate/i, vittime di tratta e migranti in Italia, stabilendo innanzitutto come questi termini non siano sinonimi ma abbiamo un significato ben preciso. Il linguaggio può diventare razzista e sessista al contempo, contribuendo a diffondere pregiudizi e luoghi comuni (basti pensare alla parola “filippina” a volte utilizzata quasi a sinonimo di “collaboratrice domestica”): molti sono i termini che possono risultare spregiativi come è stato illustrato nel corso dell’intervento.

Il ruolo di giornaliste/i è stato ripreso anche da Marilisa Palumbo che ha concluso l’incontro tracciando collegamenti e correlazioni tra i vari interventi della giornata, per sottolineare ancora una volta l’importanza di ripartire dal linguaggio, per raccontare una storia diversa, per restituire al mondo un’immagine reale, in grado di umanizzare, riparare dignità spezzate, essere impeto di libertà.