Le autrici di Lingua Madre

Voci e pratiche di una narrazione in un'altra lingua Il CLM al Convegno dell'Università degli Studi di Milano

Scritto da Segreteria il 20 Marzo 2021

“Le lingue si trasformano, si espandono, limitano la propria diffusione, talvolta fino a estinguersi, in corrispondenza dei mutamenti che coinvolgono le comunità che le parlano.”

Così si legge nei presupposti che hanno dato vita dal 17 al 19 marzo 2021 al convegno dottorale Vulnerabilità e resilienza. Voci e pratiche dai margini, dell’Università degli Studi di Milano con il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e il Dipartimento della Mediazione Linguistica.

Ecco quindi lingue estinte a causa di eventi catastrofici quali guerre, genocidi, epidemie oppure a seguito di politiche di marginalizzazione e segregazione messe in atto nei confronti di una comunità minoritaria. Nei contesti migratori, invece, la lingua nativa può essere abbandonata in favore di quella acquisita, alla quale viene attribuito un maggiore valore sia in termini pratici sia in termini simbolici. Ma quali sono le ricadute sugli scenari culturali, letterari e linguistici di questi fenomeni? E come evitare condizioni di marginalità?

Molto in questo ambito può raccontare la cosiddetta letteratura della migrazione, ed ecco quindi la tavola rotonda Voci e pratiche di una narrazione in un’altra lingua, che si è svolta il 19 marzo e che ha coinvolto il Concorso Lingua Madre e le sue autrici con la partecipazione di Daniela Finocchi, ideatrice e responsabile CLM, in dialogo con la scrittrice albanese italofona Anilda Ibrahimi e lo scrittore argentino di lingua italiana Adrián Bravi.
L’incontro è stato condotto da Jacopo Ferrari e Albana Muco dell’Università di Milano già autrice CLM e nel corso del dibattito si sono affrontati temi quali la relazione con l’italiano e la scrittura in una lingua “altra”, inoltre si è cercato di analizzare come e se possa davvero avvenire l’abbandono della lingua madre.
Resa o resilienza?

Adrián Bravi ha osservato come il concetto stesso di letteratura migrante non lo abbia mai rappresentato del tutto. «Solo dopo aver scritto due libri ho scoperto dell’esistenza di questa definizione per autori che parlano in una lingua altra, diversa dalla lingua madre. Io non mi sono mai posto questo problema, appartengo a questa categoria ma non mi ci identifico, il fatto di scrivere in italiano è stata una scelta personale. È tuttavia indubbio che i/le cosiddetti/e scrittori/trici migranti, sono portatori/trici di nuovi sguardi, nuovi mondi, nuove possibilità». Il discorso è complesso, ha spiegato lo scrittore, se da una parte si scrive in una lingua ma non si dimenticano le origini, dall’altra la stessa lingua d’adozione non è solo un corpo grammaticale ma porta con sé un’impronta, uno sguardo, un ritmo, un tempo che influiscono innegabilmente sulla narrazione.

«La definizione stessa di lingua madre è difficile, soprattutto per le donne, che sono da sempre abituate a esprimersi in una lingua che da loro viene recepita come “altra”, quella patriarcale che è loro estranea» ha detto Daniela Finocchi. Un aspetto con cui le donne convivono da sempre, cercando nuovi mezzi e modalità per esprimersi. Ha quindi ricordato Luisa Muraro che nel saggio L’allegoria della lingua materna racconta come al mutismo delle donne per via della loro incapacità di accedere alla lingua alta, si è data storicamente una trasgressione esemplare nelle opere delle scrittrici mistiche del XIII sec. , Beatrice di Nazareth, Hadewijch d’Anversa, Matilde di Magdeburgo e Margherita Porete. Esse non erano in grado di scrivere in latino, la lingua della Chiesa, ma in virtù della fiducia in Dio e dell’amore che esse avevano per Lui, hanno costretto questo Dio e questo amore a parlare la lingua volgare, o lingua materna, facendo “tremare” tutta la teologia del tempo. La scrittura si riappropria del corpo censurato delle donne, quindi, e le parole di una si legano a quelle di tutte. Le donne danno origine sempre a qualcosa di nuovo e grazie all’alterità che le abita cambiano il mondo. Infatti, “dietro a tanti racconti diversi di migranti, straniere o native – ha concluso – c’è una sola storia, più grande ed importante. Quella delle donne”.

“Lasciai il mio paese a ventitré anni – ha esordito Anilda Ibrahimi – avevo una lingua ma non un linguaggio perché le dittature impoveriscono, non lasciano spazio, annullano i pensieri, l’estetica, la fantasia, i desideri. In Italia ho ritrovato il linguaggio”. Ha quindi sottolineato come nei suoi romanzi si possa riscontrare “tantissima albanesità”, nonostante lei scriva in italiano. «Questo nasce anche dalla mia esperienza di madre, per molto tempo ho pensato che amerò i miei figli in una lingua prestata, saranno loro ad “educarmi” nella loro lingua madre, l’italiano. Neanche io mi identifico con la classificazione di “scrittrice migrante”, d’altronde non posso rimanere migrante a vita. Mi ritrovo di più nella definizione scrittrice italofona. Non credo inoltre nella scrittura militante, scrivo delle donne e questo è un fatto politico in sé».

Anche sul concetto di resilienza si è discusso, e sia Daniela Finocchi sia Anilda Ibrahimi hanno sottolineato come la parola sottintenda l’azione di assorbire e come preferiscano parlare di resistenza per quanto riguarda le donne. L’abbandono della lingua madre: resa o resilienza? è stato chiesto, infine. “Né di abbandono o di resa si può parlare per quanto riguarda le donne – ha concluso Finocchi – ma di resistenza ad essere fedeli alla propria soggettività”.

L’incontro è stato alimentato anche dalle tante domande del numeroso pubblico che ha dato origine a un vivace dibattito finale. Una preziosa occasione di confronto e approfondimento per tutte e tutti le/i partecipanti.

Ecco alcune foto dalla tavola rotonda