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Guarire mondi in crisi Una recensione di Luisa Ricaldone

Scritto da Segreteria il 13 Giugno 2023

Luisa Ricaldone – già docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino e Presidente della Società italiana delle Letterate, parte della giuria e del Gruppo di Studio CLM – recensisce la raccolta di saggi Guarire mondi in crisi (Vita Activa Nuova) curata da Marija Mitrović e Sanja Roić: l’autrice è Melita Richter Malabotta.
Deceduta nel 2019, è stata docente di Letteratura serba e croata moderna e contemporanea all’Università di Trieste; a lei anche il merito di essere stata mediatrice culturale e interprete occupata in temi di migrazione. Saggista e poeta, è stata socia SIL, nonché una delle fondatrici della Casa internazionale delle donne di Trieste.

Come riporta la quarta di copertina del volume, questi saggi testimoniano il percorso umano, intellettuale e specialistico di una donna dall’identità europea. Nel corso della sua vita e dei suoi studi Melita Richter ha creato importanti collegamenti soprattutto tra l’area dei Balcani occidentali e quella italiana.

Recensione

di Luisa Ricaldone

La raccolta è uscita nella bella collana di saggistica e femminismi Terzo paesaggio (in cui si tratta del “paesaggio variegato e multiforme, dove la diversità prolifera” – come viene specificato), diretta da Sergia Adamo dell’Università di Trieste e componente SIL.
Anni addietro, fra le sue numerose attività, Melita Richter ebbe modo di partecipare al Concorso nazionale letterario Lingua Madre, che peraltro a più riprese si è occupato di lei, non da ultimo nel 2019, in occasione della morte.
Fra i suoi scritti di studiosa di sociologia urbana e ecologia, di autrice di studi sulla pace e di molto altro, le curatrici Marija Mitrović e Sanja Roić scelgono le pagine elaborate dalla metà degli anni Novanta ai primi Duemila.
Nata nel 1947 a Zagabria, allora capitale della Repubblica socialista di Croazia, l’autrice decise nel 1980 di trasferirsi a Trieste, dato che il suo compagno, e in seguito marito e padre dei suoi due figli, era legato professionalmente a quella città.

Ma veniamo al libro, che le due curatrici introducono e Biljana Kašić chiude, le une e l’altra come in un amorevole abbraccio simbolico e affettuoso, nonché esaustivamente illustrativo della personalità dell’autrice. Compongono la pubblicazione tre blocchi, che costituiscono un percorso dai ricordi della scuola, del ’68 e dei propri spostamenti e dei propri gusti letterari e culturali in genere, alla guerra per concludersi con un ampio capitolo sulla migrazione, in particolare delle donne e la loro scrittura.

Nel modo narrativamente fluido e avvolgente che chi ha frequentato i suoi testi ben conosce, Melita Richter parte da sé e dalle proprie esperienze per ampliare l’orizzonte nella Storia. Lo “sconfinamento” è stato infatti il metodo che le ha permesso non solo una vasta visione della sua contemporaneità, ma anche quel sentirsi parte e dentro la Storia che ha caratterizzato la sua scrittura e il suo impegno politico.
Impegno che dagli anni Novanta la vede partecipe alla Campagna antibellica croata e fra le Donne in nero di Belgrado, fino alle iniziative pacifiste della Bosnia ed Erzegovina e altre ancora.
Le città divise in conseguenza delle guerre, come Nicosia, o distrutte, come tante dell’area balcanica, portano inscritte nel loro tessuto lacerazioni di cose, di persone, sofferenze nella memoria collettiva e perdita di appartenenza alla urbs.
“Perché tanto odio per la urbs?” (p. 100) – si chiede Melita, perché tanti “urbicidi”? (p. 103). “Forse la guerra è stata così terribile perché doveva distruggere quel fitto intreccio di legami tra genti e culture che per secoli si sono incontrate in queste terre” (p. 101), annientare insomma lo spirito cosmopolita, “il métissage, la dolce mescolanza di lingue e di fedi” (ibidem).

In questo quadro trovano posto riflessioni sulla migrazione, alcune superate dalla storia degli ultimi anni, altre leggibili quasi come profezie degli sviluppi successivi del fenomeno migratorio.
La ricchezza delle riflessioni sulla scrittura di migrazione delle donne, come strumento piegato al superamento di sofferenze e ferite mai rimarginate, si dispiega nella testimonianza politica quale “non-sconfitta di genere”.
Perché la scrittura delle donne, il loro “ricordare” era (ed è) progetto politico: “significava non voler cancellare la vita e l’esperienza precedenti e, allo stesso tempo, non accettare l’abbandono dell’incidenza politica” (p. 178).

Il passato, allora come ora, è centrale nella scrittura dall’esilio. Lo hanno testimoniato le donne migranti dalla ex Jugoslavia e lo testimoniano, nei recentissimi racconti delle antologie di Lingua Madre (Edizioni SEB27), le donne che ora migrano dall’Africa, dagli ex paesi dell’Est e dalle aree di guerra.