Coronavirus: e le donne? Sulla necessità di partire dalla differenza
Scritto da Segreteria il 20 Aprile 2020
di Daniela Finocchi
Le ipotesi di cambiamento, al centro di tanti dibattiti odierni sul “dopo coronavirus”, dovrebbero contemplare un passaggio di civiltà che parta dalla differenza di cui sono portatrici le donne. Cosa che non avviene.
Purtroppo le donne continuano a non essere contemplate nel disegno mondiale. Non si intravedono prospettive diverse, ma una sola prospettiva che – come scrivono le amiche dell’Enciclopedia delle donne – per quanto illuminata, non sottopone a critica nulla dei suoi presupposti.
Tutti gli sforzi sono concentrati a riportare le cose a com’erano prima, come se questo “prima” non fosse la causa di quello che “adesso” stiamo vivendo.
Le intelligenze chiamate a raccolta non mettono in discussione il modello generale (peraltro in Italia, per esempio, la Task Force per la ricostruzione voluta dal Presidente Giuseppe Conte conta solo quattro donne su diciassette nomine).
La soluzione più sostenuta e condivisa è quella del via libera all’era digitale, senza porsi troppe domande e secondo uno sviluppo inscritto nel sistema.
Nessuna visione globale che affronti la questione delle risorse a livello mondiale, del rispetto della natura, dei trasporti, delle migrazioni, dei diritti per un reale cambiamento.
Giusto affidarsi alla scienza ma quale scienza? Una scienza che risponde alle logiche di un sistema malato o una scienza che “cura” nel vero senso della parola, che cioè si prende cura delle persone, della natura, del mondo (guardare al mondo come a un ambiente domestico di cui prendersi cura, scrive Ina Praetorius). Trovare una medicina, un vaccino non sarà risolutivo, occorre scoprire ed esaminare le cause che hanno prodotto gli effetti e agire su quelle, cambiare, guardare a nuove prospettive, nuovi immaginari di convivenza.
Le donne e la loro differenza ancora una volta non hanno ascolto, eppure i Paesi che registrano la miglior risposta all’emergenza sanitaria prodotta dalla diffusione del coronavirus sono governati da donne: Islanda, Taiwan, Germania, Nuova Zelanda, Finlandia, Islanda e Danimarca. Certo – si potrebbe sottolineare – si tratta di realtà particolari, di piccoli territori o isole, alcuni con una densità media di popolazione tra le più basse d’Europa, ma la Germania non è piccola.
Da Sanna Marin – che in Finlandia ha coinvolto gli influencer di ogni età rendendoli protagonisti per diffondere sui social una comunicazione corretta, coordinata e al riparo da notizie false – a Erna Solberg che in Norvegia ha dedicato una conferenza stampa esclusivamente ai/lle bambini/e, rispondendo alle loro domande e spiegando come fosse giusto essere spaventati/e.
“L’ordine simbolico si manifesta attraverso parole dette al momento giusto – dice Luisa Muraro – e sono parole che non dicono all’altro cosa deve fare. Non prescrivono. Ma hanno il potere di dissipare il marasma emotivo e mentale di una persona. Più che un’esperienza individuale di cambiamento è una pratica di condivisione con gli altri”.
E ancora scrive Avivah Wittenberg-Cox: “In generale l’empatia e la cura che hanno comunicato tutte queste leader femminili sembrano provenire da un universo alternativo rispetto a quello a cui ci siamo abituati. È come se le loro braccia uscissero dai loro video per tenerti stretto in un abbraccio sentito e amorevole. Ora, confrontiamo queste leader e queste storie con gli uomini forti che usano la crisi per accelerare forme di autoritarismo, incolpare “altri”, rafforzare il potere giudiziario, demonizzare i giornalisti: Trump, Bolsonaro, Obrador, Modi, Duterte, Orban, Putin, Netanyahu. Anni di ricerche suggeriscono timidamente che gli stili di leadership delle donne potrebbero essere diversi e utili. Invece, troppe organizzazioni e società politiche stanno ancora lavorando per convincere le donne a comportarsi come uomini se vogliono guidare una qualsiasi di queste organizzazioni o raggiungere il successo”.
Ma non solo.
Tra le ipotesi ventilate per la ripresa (e spiace l’abbia proposta una donna), c’è quella che vorrebbe le donne (in quanto – pare – meno soggette ad ammalarsi di coronavirus) iniziare a uscire e lavorare per prime. La soluzione è inquietante e ricorda scenari distopici di cui la letteratura ci ha già narrato. Per quale motivo le donne dovrebbero mettersi a rischio per sostenere un sistema che non corrisponde loro?
Esistenze di impegno e lavoro a sostegno del pensiero della differenza per proporre nuovi immaginari, nuove prospettive di vita e condivisione che adesso dovrebbero immolarsi per salvare proprio quel tipo di mondo che hanno sempre voluto cambiare? Il discorso stride.
Luisa Muraro a proposito di un altro appello rivolto alle donne in passato, scrisse parole che restano attuali e appropriate anche in questo caso: “Ricorrere alle donne è un espediente di vecchio stampo, quando alle donne si assegnava un ruolo convenzionale, ora per la pace, ora per l’infanzia… Meglio questi ruoli, comunque, che quello che ci assegna questo appello, di truppe ausiliarie di una politica inefficace”.
Il Concorso Lingua Madre in questi giorni ha diffuso gli esiti della XV edizione con i nomi delle vincitrici: donne straniere, migranti in Italia e donne italiane che vogliono raccontare l’incontro con l’Altra.
L’attività, infatti, continua nonostante l’emergenza sanitaria. Proprio in considerazione del momento di grande difficoltà che stiamo attraversando, ci teniamo a dare un segno di fiducia e speranza (altre caratteristiche distintive di chi è nata femmina) alle tante donne – straniere e italiane – che hanno partecipato e che continuano a seguire la quotidiana attività del progetto.
Le autrici del Concorso Lingua Madre attraverso le parole e le immagini, tracciano nuovi immaginari di strutture relazionali impostate sulla mitezza, la riconoscenza, la misericordia.
Le donne suggeriscono modi e forme di ripensamento del vivere associato, per decostruirne i principi di esclusione, di guerra, di violenza, per fondare nuove cittadinanze, per affrontare equamente la già citata questione delle risorse, del rispetto della natura, dell’alimentazione, di un cibo sano e giusto.
Diffondere il loro pensiero è necessario e urgente ed è il senso politico del lavoro svolto dal progetto da quindici anni.