Giornata Internazionale della Lingua Madre La lingua come legame tra generazioni
Scritto da Segreteria il 21 Febbraio 2025
In occasione della Giornata Internazionale della Lingua Madre, il CLM vuole celebrare il legame che la lingua può instaurare tra generazioni e radici, attraverso il racconto di Imane Bou-Saboun, dimostrando come le parole possano essere un ponte tra passato e presente.
SCAMBIO LINGUISTICO
di Imane Bou-Saboun [Marocco]
La nonna non aveva badato a spese per farle giungere in quell’ubicazione ignota perfino a Google Maps. Lilia, a cui non era dato sapere quasi niente del viaggio, ne aveva dunque dedotto che fosse un luogo di rilievo. Sapeva solo di essere approdata in un paese dove il tempo era scandito dalla preghiera. In quell’istante si trovavano tra l’ultima e la prima preghiera del giorno, alla giuntura tra notte e dì.
A destra dell’automobile le case che componevano la silhouette del villaggio riflettevano con un fievole bagliore ambrato la luce dell’unico lampione acceso. A sinistra c’era un fosso oltre cui s’ergeva l’albero d’argan. Le sue fronde straripavano di nastri trasportanti le preghiere mormorate da generazioni di ragazze che gli confidavano suppliche per concepire figli miracolosi.
Nello scendere dall’auto, Lilia ricevette il benvenuto dal raglio di un asino che provocò l’immediato “a’udhubillah” sobbalzante di sua nonna. Lasciarono il parcheggio gremito e Lilia seguì la nonna fino alla magione in cima alla collina.
Una domestica le fece sedere in un salone il cui intero perimetro era costeggiato da divani con materassi rivestiti di broccato color zaffiro. Vi erano ospiti a perdita d’occhio.
«Dove siamo?» bisbigliò Lilia a sua nonna in italiano, mentre si accomodavano nei posti avanzati tra due cuscini decorativi comodi come la ghiaia.
Il volto di sua nonna si alterò in un cipiglio al kajal.
– No parla niente.
– Sì, ma da chi siamo?
– Signora – ribatté sua nonna in tono prosaico.
– Ma quale?
Lilia la fissò in attesa, ma venne ignorata. Allora lasciò vagare lo sguardo lungo la sfilza di donne sedute. Ognuna stringeva qualcosa in mano. Era una vasta gamma di oggetti che variava dal più banale – un pettine, una foto sviluppata – al più esoterico – una ciocca di capelli in un sacchetto da freezer. Pareva che le ospiti fossero invisibili le une alle altre, tanto erano assorte. La domestica, forse da contratto, si affrettava a servire caffè per far allungare la loro pazienza, così ammucchiate in quella reggia dall’aria fetida di zolfo e fieno greco.
Ma la noia fu scacciata da un mugolio insistente che si tramutò presto in un alto gemito ritmico. Proveniva da una stanza da cui nessuno era ancora entrato o uscito.
Un’esplosione improvvisa fece incurvare la porta e trafilare dei bagliori di luce rossa.
– Nonna!!! – urlò Lilia coprendole la faccia d’istinto, per proteggerla da eventuali schegge.
Il bagliore si dissipò, la porta tornò alla sua forma originaria e si schiuse facendo uscire cinque bambini identici in fila indiana. Le signore sedute sui divani seguitavano a fissare il vuoto. L’urlo di Lilia echeggiava ancora, come se i muri la stessero motteggiando per essere stata l’unica a scomporsi.
E fu allora che capì.
Non erano lì a visitare dei parenti.
Erano da una fattucchiera.
Non si ricordava neanche più come si dicesse in italiano “fattucchiera”, ma non c’era tempo. Le uscì di bocca un ibrido italo-berbero di quelli che capivano solo in famiglia.
– Siamo venute da tastregat?
– Sì.
– Ma perché?
Per tutta risposta, sua nonna le rifilò un pizzicotto invisibile al di sotto dell’addel, velo bianco che celava outfit rivelabili solo nei ginecei della regione.
– Fiss.
“Taci”.
Un brivido fece rizzare a Lilia ogni singolo bulbo pilifero mentre per la prima volta notava gli anfibi imbalsamati appesi sopra alle loro teste velate. S’immaginava di passare la notte lì, insonne, il Corano sotto il cuscino, a scongiurare djinn fino al sorgere del sole. Lilia sapeva una sola cosa sulle fattucchiere nordafricane: se vai da loro per un problema, insieme all’antidoto ti rifileranno sempre un danno nuovo che ti costringerà a ritornare. Soprattutto se non le paghi a sufficienza. Si chiese per cosa valesse la pena rischiare tanto.
– Zahra?
Una voce acuta ridestò Lilia e nonna dall’intontimento dell’attesa. Era giunto il loro turno.
Oltre la porta precedentemente esplosa e ricomposta vi era una stanza ampia con le pareti tappezzate di dorsi di istrice essiccati, mantici damascati e scaffali di legno le cui venature sembravano occhi spalancati. Spezie intere erano disposte in vasetti di vetro: esemplari di sostanze da maneggiare con reverenza. Nessuna etichetta in vista. Qui le cose si identificavano con i sensi e l’esperienza.
“Strega Varana esiste. E io sono nel suo covo”, formulò la mente di Lilia, in automatico. Nell’angolo sinistro sedeva un’anziana signora. Sul tavolo che la separava dalle due clienti erano disposti un mortaio con un pestello in pietra, una piuma con boccetta d’inchiostro e un foglio di carta. Quel tavolino formava la linea di demarcazione tra lei, l’occulto, e loro, il manifesto.
La prima cosa di tastregat che colpì Lilia erano gli occhi. L’eccesso di spazio sulle palpebre le conferiva uno sguardo da soubrette di programma di varietà anni Settanta. Il resto del volto era occupato da un naso che pareva il prolungamento dello sguardo, visto che i dotti lacrimali vi confluivano come negli occhi di un’antilope. Un foulard cremisi a stampa floreale le cingeva i capelli anch’essi tinti di un rosso henné che tradiva una base canuta, tanto era vivace.
– Skkusamt, aywn-t gwwsh.
Questa fu la sequenza consonantica emessa dalla vecchia che aprì la seduta.
La nonna diede il via a uno sfogo in tashelhit, come se non avesse atteso altro. Le uniche espressioni che Lilia riuscì a decifrare furono “figlia di mia figlia” e “parola”.
Lilia bisbigliò una protesta coprendosi la bocca con un lembo dell’addel per dissimulare la sua italianità.
– Fiss, ho detto!
Lilia sospirò e si voltò a guardare la vecchia.
Una volta udita la tiritera, la veggente si accinse a tracciare un pentagramma capovolto sul foglio. In ognuna delle punte della stella segnò dei caratteri che si rivelarono essere quartetti di lettere in alfabeto amazigh. Infine, strappò il foglio di carta in cinque pezzi. Li ripose nel mortaio e vi buttò stigmi di zafferano e miele che colava da un quadrato di favo che pareva reciso al laser.
Con il pestello ridusse in poltiglia gli ingredienti. Formò una pallina e fece segno a Lilia di tirare fuori la lingua. Lilia scosse la testa voltandosi verso la nonna, sperando che le desse manforte.
– Tiratela di meno – sbottò la nonna cogliendola alla sprovvista.
La fattucchiera approfittò dell’apertura orale per spalmarle sulla lingua il pesto proibito. Le indicò di mandare giù e a Lilia furono necessarie tutte le sue forze per ingerire, oltre alla sbobba, anche un conato.
A quel punto una vibrazione crescente fece sbatacchiare la porta e tintinnare il vetrame. La fattucchiera schioccò le dita della mano destra in direzione della bocca chiusa di Lilia che si aprì. Una logorrea berberofona si attuò così dinanzi a loro.
L’italiano è conosciuto per la sua natura melodica, grazie a quelle sette vocali che fanno librare la voce di chi lo parla. Il tashelhit invece, tirchio di vocali, era sempre stato un “attorcilingua” spietato per Lilia. Eppure, in quel momento, quello che aveva sempre voluto dire a sua nonna le usciva di bocca in tashelhit con lo stesso estro con cui comunicava nella lingua di Dante. E con le parole ritrovate fluivano lacrime di sollievo ricambiate dalla nonna, che nella nipote trovava una nuova compagna di verbo.
Tastregat interruppe quel momento di inaudita armonia con uno schiocco delle dita. Gli infissi si acquietarono.
La voce della strega le riportò alla realtà dicendo che se la nonna avesse voluto che la ragazza parlasse sempre così le sarebbe costato quindicimila dirham.
La nonna guardò la nipote per un istante. Le passò una mano sulle guance umide e si rivolse a tastregat.
– Aggisnt ur tsawl – disse rialzandosi e tendendo una mano a Lilia. “Può anche non parlarlo”.
Si ritrovarono dunque fuori, sul piazzale con le automobili che davano sull’albero d’argan. Ora mano per mano.
Tentando di riprendersi, Lilia fissava sua nonna.
Lei iniziò a raccontarle di quanto avesse supplicato Allah prima della partenza per l’Italia, decenni prima. Di quanto pregasse che la nipote che sarebbe nata nella valle del Po non dimenticasse mai le sue radici in val di Souss.
– Ma nonna, io non ho mai dimenticato le nostre origini.
– Adesso so. Visto dentro, tu. Io e tu piangeva uguale.
A Lilia bastò la debole luce dell’unico lampione per scorgere un lucore liquido negli occhi di sua nonna, solitamente stoica, imperscrutabile, e le strofinò il dorso della mano. Poi il suo sguardo si fermò sulla chioma dell’argan mistico.
– Era lì che avevi pregato?
– Sì.
– Ti va di tornare insieme?
– Yallah.
Qualche ora dopo, sedute sul volo di ritorno, Lilia si lamentò del retrogusto di miele, zafferano e inchiostro ancora in gola. Per tutta risposta sua nonna sbarrò gli occhi come se avesse visto un djinn.
– Tashelhit tuo bella!
– In che senso?
– Tu parla bene.
– Ma se non sto…
Lilia si accigliò e interpellò una delle assistenti di volo. Le chiese, in italiano, se la potesse capire.
– Scusi molto, non so cos’abbia detto. Vado a chiamare la mia collega che la saprà aiutare! – rispose con accento arabo.
L’indomani, la fattucchiera affisse un annuncio sul portone principale della magione. Oltre a fatture d’amore, d’odio e sedute spiritiche, avrebbe iniziato a dare lezioni d’italiano. Almeno fino a quando non si fosse riguadagnata tutti i dirham sprecati per lo zafferano.
Il racconto è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventi. Racconti di donne non più straniere in Italia (Edizioni SEB27).
La fotografia Radici dentro e fuori dall’acqua di Maria Concetta Distefano è stata selezionata alla XIX edizione CLM per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.