Le autrici di Lingua Madre

Un racconto per ricordare la ricorrenza Giornata internazionale per i diritti dei migranti 2022

Scritto da Segreteria il 18 Dicembre 2022

Il Concorso ricorda la Giornata internazionale per i diritti dei migranti con il racconto Vulnerabile delle autrici CLM Tahmina Akter e Alice Franceschini.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 18 Dicembre Giornata Mondiale dei Migranti, con Risoluzione 55/93. La scelta della giornata fa riferimento al 18 dicembre 1990, giorno in cui l’Assemblea Generale ha approvato la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, documento nel quale si trova la definizione internazionale di “lavoratore migrante” e si stabiliscono standard internazionali per il trattamento dei migranti e delle loro famiglie. Lo scopo è quello di prevenire lo sfruttamento e mettere fine ai movimenti clandestini o illegali, stabilendo le condizioni minime di riconoscimento e accettazione del migrante a livello universale.

VULNERABILE
di Tahmina Akter e Alice Franceschini [Bangladesh e Italia]

La vita è davvero una cosa strana.
La gente si domanda: che cos’è la vita? I poeti, gli scrittori, i filosofi hanno riflettuto molto sulla sua definizione; quante parole hanno usato e inventato per descriverla. Ma le loro valutazioni non ne hanno mai trovato il senso recondito, quello vero.

Il cielo è nuvoloso, sembra che stia per piovere. Forse la pioggia che tra poco scenderà andrà a bagnare il mondo intero. Il tempo così grigio mi dice che oggi vorrei proprio fare la pigra, starmene sotto le coperte e dormire tutto il giorno. Ma non posso, l’orologio mi dice: devi andare al lavoro, è ora, alzati! Anche se non ne ho voglia, devo prepararmi per uscire.
Arrivo in ufficio. Prima di entrare, vedo una lunga fila di gente fuori. Anzi, sono due file. In una stanno i migranti che sono venuti in Italia con la famiglia, con il visto per il ricongiungimento familiare, e gli studenti. Nell’altra ci sono i richiedenti asilo, che domandano la protezione internazionale.
Mi sono abituata a vedere ogni giorno queste file. Se un migrante è regolare e vuole rimanere in Italia, deve andare in questura e seguire alcune procedure, farsi prendere le impronte digitali e ottenere i documenti per farsi rilasciare il permesso di soggiorno. Chi non risponde a questi requisiti, per l’Italia è un clandestino. Secondo la legge italiana, per i migranti è così: non c’è altra scelta o soluzione.
Mentre entro, non posso parlare con nessuno di loro né fornire alcun tipo di informazione. Per questo cerco di evitarli e di non guardarli. Ma oggi, nella seconda fila, noto in particolare una donna che se ne sta schiacciata tra gli uomini. Attira la mia attenzione perché mi capita molto raramente di vedere delle donne, così pressate in mezzo alla calca, nella fila dei richiedenti asilo. Mi viene in mente che potrei invitarla ad andare avanti, ma mi trattengo ed entro in questura.
Dopo qualche minuto, esco con i colleghi poliziotti per distribuire ai richiedenti i numeri per entrare in ordine di arrivo:senza, non possono accedere agli uffici. Saranno una quarantina di persone, ma in una giornata viene distribuita in tutto solo una decina di numeri.
La ragazza è troppo indietro, è rimasta senza numero, quindi non può entrare. Se ne sta ferma lì, senza capire niente. I poliziotti le si avvicinano e le chiedono perché è venuta qui, che cosa vuole; ma lei non sa l’italiano e non comprende, non può rispondere.
Solo allora i poliziotti mi chiamano. Io ho un ruolo molto limitato: ascolto e traduco, come una semplice macchinetta.
Mi dicono: chiedile se sa l’inglese. Lei annuisce. Mi chiedono di domandarle che cosa vuole e perché si è messa in questa fila, magari ha sbagliato. Lei risponde, io traduco.
Mi dice: ho rischiato la vita, ma sono riuscita a fuggire dal mio paese, in qualche modo; voglio chiedere la protezione internazionale.
Dopo che ho tradotto, i poliziotti domandano se ha dei documenti da presentare. Risponde di no. Dicono: senza documenti, non si possono fare le richieste di asilo.
Quando le riferisco queste parole, la ragazza inizia a piangere e dice: non ho nessuno, non ho parenti qui in Italia. Non ho un posto dove dormire. Per favore, aiutatemi.
Allora i poliziotti le ordinano di entrare e aspettare. Quando sarà il momento, la chiameranno.
Porto la ragazza all’interno, la faccio accomodare su una sedia ed entro nell’ufficio. Il tempo scorre velocemente. Passano due ore, tre ore. La ragazza si stanca: si alza e viene a bussarmi alla porta, chiede quanto deve aspettare ancora. La polizia le dice che deve aspettare e basta, per legge non possiamo fare altro. Lei ricomincia a piangere.
Spiega: sono incinta di sei mesi. Sono stanca del viaggio. Non ho mangiato niente, ho fame, ho mal di testa.
La polizia mi dice di risponderle: guardi, se è una cosa urgente, può chiamare l’ambulanza e andare in ospedale. Ma in Italia, se non ha i documenti regolari e va al pronto soccorso, deve pagare, e di più, non solo il ticket. Se vuole, può andarci da sola.
Lei si spaventa e, nonostante il disagio, cerca di controllarsi e di rimanere lì ferma ad attendere.
Dopo mezz’ora, la polizia mi permette di rassicurarla dandole qualche informazione: abbiamo già avvisato la prefettura, che contatterà un centro di accoglienza. Ma comunque deve ancora aspettare, finché non si troverà una soluzione. Non c’è alternativa. È così.
Mi dicono di prepararle il foglio notizie con i suoi dati anagrafici, la data e la motivazione dell’arrivo in Italia, le condizioni del viaggio, il denaro che ha speso. Finalmente vengo a sapere il suo nome: si chiama Sayra. Ha ventidue anni, viene dalla Siria.
Racconta di essersi stancata di lottare con la vita. A un certo punto, proprio quando era arrivata al limite e stava per cedere e morire, hanno prevalso l’istinto di sopravvivenza e il desiderio di vivere. Ed è fuggita.
Dichiara poi di sapere che l’Italia è un paese dove si trova aiuto umanitario per le persone bisognose. Allora la polizia le ordina di narrare la sua storia e di spiegare la ragione per cui richiede la protezione internazionale.
Dice: davanti ai miei occhi sono stati uccisi i miei genitori e il mio unico fratello più piccolo. Li hanno sgozzati. Il mio paese, sunnita, era in conflitto con gli sciiti, i quali volevano che diventassimo come loro. Mio padre si è rifiutato, perché era innamorato del Profeta e non voleva cambiare religione. Pregava cinque volte al giorno, era molto credente e praticante. Gli sciiti hanno cercato di convincerlo sostenendo che la loro fede permette di andare prima in paradiso e che quindi gli conveniva convertirsi. Ma lui era irremovibile.
Una volta, in piena notte, loro sono arrivati, sono entrati in casa nostra sfondando la porta, armati di scimitarra. Hanno afferrato mio padre per la gola, minacciandolo: è l’ultima volta che te lo diciamo, convertiti, altrimenti ti ammazzeremo. Ma prima violenteremo tua figlia e tua moglie, le uccideremo, e poi toccherà a te.
Lui era spaventato; ha solo chiesto due giorni di tempo per poter fornire una risposta.
Ha riflettuto a lungo. Ma non voleva assolutamente convertirsi, e il secondo giorno ci ha proposto di fuggire dal nostro paese. Forse i gruppi sciiti lo hanno spiato e in qualche modo hanno scoperto le nostre intenzioni: quella notte stessa sono ritornati.
Appena sono entrati hanno trovato mia madre. Le hanno tagliato la gola. Mio padre se n’è accorto e, rapidissimo, mi ha fatto uscire dalla porta sul retro. Poi si è subito presentato a loro in modo che non comprendessero che mi aveva fatto fuggire. Lo hanno ucciso insieme a mio fratello: l’ho sentito.
Con terrore, fatica e indicibile dolore ho deciso di lasciare il mio paese.
Ho attraversato a piedi la frontiera. Poco dopo ho visto un camion carico di sabbia: ho chiesto aiuto e il camionista, nonostante la paura, mi ha fatto salire e mi ha portata al confine. Lì ho conosciuto una persona che mi ha proposto di raggiungere l’Europa per chiedere asilo, ma era necessario attraversare molti altri stati.
Sono salita su un altro camion con altri migranti. Mi sentivo felice e piena di gratitudine verso Dio: volevo vivere. Volevo vedere i colori della vita. Non solo il bianco e il nero. Nella vita ci sono tanti colori diversi. Avevo bisogno di vivere con la gioia di questi colori.
Mentre ero in viaggio – ed ero viva – ricordavo i miei genitori e la loro fine. Avevo le lacrime agli occhi. Loro erano morti per permettermi di fuggire. Eppure, erano vivi dentro di me e lo saranno sempre, saranno sempre con me. E ora dovevo vincere la mia battaglia, grazie a loro e alla vita.
Il camion si è fermato nel deserto. Il luogo era pieno di persone che aspettavano il suo arrivo. È rimasto quattro giorni lì, poi è ripartito. Al suo interno, mi trovavo schiacciata tra le persone, eravamo l’uno sopra l’altro, non riuscivo a respirare. Ero una donna, sola in mezzo a tanti uomini di diversi colori. Pensavo che sarebbe stato meglio essere statauccisa ed essere già morta. Mi sentivo stanca, non c’era da mangiare, sentivo il mio corpo di donna così diverso da quello degli altri. Gli uomini mi guardavano come fossi un boccone prelibato da assaggiare. Mi sentivo in colpa per il fatto di essere donna.
A un certo punto – era buio, il camion era fermo – il mio timore è diventato realtà. In silenzio qualcuno è salito sul mio corpo per mangiarselo.
Mi hanno violentata in tanti, uno dietro l’altro, per tanto tempo. Non sono riuscita a difendermi da sola.
Poi, col succedersi dei giorni e delle settimane, ho finito per abituarmi: il viaggio è durato sei mesi.
Sono rimasta incinta di uno sconosciuto. Di tanti sconosciuti. Di tanti colori diversi.
Non so chi sia il padre del mio bambino. Chi può contarli, i padri del mio bambino?
Non volevo più vivere né vedere il mondo. Volevo morire. Dio mi aveva lasciata sola nel mondo per farmi vedere questo? Questo colore così nero? Non voglio vederlo, non voglio vederlo… Mi mancava solo quest’angoscia, Dio mio?
Ti odio. Non ci sei. Mi hai preso la vita e mi hai lasciato così, in queste condizioni?
Ho pensato di suicidarmi.
Ma il mio inconscio mi diceva di no: tu devi vedere la vita, Dio ti ha fatto per lei, e i tuoi genitori sono morti per salvarti. Goditi la vita, vivi sino in fondo, non avere paura. E vai…
Ho ripreso coraggio e sono ripartita con la vita.
Ecco perché chiedo protezione internazionale.

Ha finito la sua storia. I poliziotti hanno fatto il fotosegnalamento e adesso le dicono di aspettare ancora un po’, perché le hanno trovato una struttura di accoglienza. E ci sarà qualcosa da mangiare. Un posto per dormire, un pocket-money, un telefono con la ricarica di venti euro, e vestiti. E cure mediche, sostegno psicologico, e un aiuto per orientarsi in Italia.
Verso le tre del pomeriggio, finalmente, gli operatori della cooperativa vengono a prenderla. La polizia le fissa un appuntamento per un’altra data, in cui le verrà consegnato il permesso di soggiorno: oggi c’è stata solo la registrazione della richiesta di asilo. L’invito è garanzia del suo stato legale di rifugiata in Italia.
Si allontana con gli operatori. Ora è al sicuro, avrà del cibo, un posto dove stare, i documenti.
Ma è adesso, proprio quando sembra tutto risolto, che sorge un nuovo problema che prima non percepiva, soffocatodalla fame e dal senso di disorientamento che l’attanagliavano. Ora si sente a disagio con il proprio corpo, per la presenza dentro di lei di quel bambino, di quell’essere estraneo che non voleva. Adesso sì, lo sente, adesso che ha conquistato una soluzione per gli altri problemi vitali.
E rivede il viaggio, e tutti quegli uomini che l’hanno violentata, uno dopo l’altro, tutti quei corpi di colori diversi. Pensa a tutti quei semi che non voleva. Prova schifo per se stessa.
Dopo essersi sistemata nel centro di accoglienza, tenta di suicidarsi nella sua camera, ma non ci riesce. La sua compagna di stanza avvisa subito i soccorsi e riescono a salvarla. La portano immediatamente in ospedale.
Lì le fanno incontrare una psicologa, che l’ascolta e le spiega con pazienza che abortire al sesto mese è pericoloso per la vita della madre. Dopo quest’episodio inizia un percorso psicologico.
Cambia idea.

La psicologa le ha detto: dentro di te c’è qualcosa di tuo, non è un corpo estraneo, non sono tutti quei corpi di colore diverso. Vive dentro di te, è un’altra anima tua. Accettala, accoglila, voglile bene. Hai saputo che è una bambina: pensa che potrebbe essere l’anima di tua madre che è tornata da te, potresti prendertene cura e darle tutti i colori che vuoi. Non solo il nero.
Sayra ha taciuto.
La psicologa ha capito che forse era convinta, e non ha aggiunto altro.
Terminata la seduta, Sayra torna nella struttura con gli operatori. Anche loro la vedono stranamente più tranquilla.
La notte, Sayra pensa: è vero quello che mi ha detto la psicologa, anch’io la penso così. Anch’io penso ai colori della vita: la vita non è solo bianco o nero. Io voglio giocare con i colori, e vivere con la gioia, con la mia bambina. Non importa chi ha seminato. Voglio farla crescere, permetterle di fare quello che non ho potuto fare io, e renderla felice.
Sayra guarda fuori dalla finestra, quegli alberi verdi come la speranza.
Respira profondamente, e anche lei spera.

Nota: i nomi di persona e di luogo sono di fantasia.

Fotografia La donna e il campanile di Manijeh Moshtagh Khorasani (Iran), vincitrice del Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XVI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.