Oltre la paura Giornata internazionale per i diritti dei migranti
Scritto da Segreteria il 18 Dicembre 2023
Oggi, lunedì 18 dicembre 2023, in occasione della Giornata internazionale per i diritti dei migranti il Concorso propone una riflessione a partire dal racconto Oltre la paura della giovane autrice Halima Mohamud Isse, inserito nell’antologia Lingua Madre Duemilaventitré. Racconti di donne non più straniere in Italia (Edizioni Seb27).
OLTRE LA PAURA
di Halima Mohamud Isse [Somalia]
Mi chiamo Halima Mohamud Isse sono nata a Mogadisho il 12 dicembre 2002. Avevo due fratelli e tre sorelle; il mio clan ha una tradizione dura perché quando le ragazze sono giovani si sposano con un uomo più anziano. La mia storia è iniziata quando avevo quattordici anni e mio padre ha deciso di farmi sposare con il mio insegnante della scuola coranica che aveva già sposato altre tre donne. Una mattina sono andata a scuola e quando sono tornata a casa mio padre mi ha detto che mi sarei dovuta sposare con lui. Sono andata a chiudermi nella mia stanza e sono scoppiata a piangere, non ho mangiato niente per la disperazione. Nel pomeriggio sono andata a casa di mia sorella, ma era uscita per fare la spesa e quando è tornata, visto che piangevo tanto, mi ha abbracciata forte e mi ha detto che avrebbe parlato lei con mio padre. Sono rimasta da lei ma dopo due giorni ho sentito bussare molto forte alla porta: era mio padre, era molto arrabbiato e urlava, io mi sono chiusa in una camera per la paura che avevo di lui. Conoscevo bene le sue reazioni, conoscevo la sua violenza. Mia sorella, intimorita a sua volta, e, vedendolo armato (come è normale che sia in Somalia), ha portato mio padre da me. Lui ha spalancato la porta e mi ha schiaffeggiata, afferrata e buttata in auto. Durante il viaggio verso casa avevo paura, sapevo cosa mi avrebbe fatto e, infatti, una volta arrivati, mi ha presa a cinghiate. In Somalia è fonte di grande vergogna per la famiglia e per la ragazza stessa, se questa scappa di casa. La gente parla male di questo tipo di giovani, perché una brava ragazza obbedisce ai propri genitori. Mio padre mi ha chiusa in casa, ha detto che non sarei più potuta uscire e che l’indomani uno shikh (sceicco) sarebbe venuto per la promessa di matrimonio. Questa notizia mi ha sconvolto, ero terrorizzata! Mia madre ha provato a difendermi e per questo ha litigato con mio padre. Mia sorella è venuta a casa e mi ha tranquillizzata dicendomi che mi avrebbe portata in Arabia Saudita, dove lei aveva già vissuto, quando, come me, era scappata da un matrimonio imposto. La sera mi ha detto che il mattino dopo sarebbe passata a prendermi, e così ha fatto. Ha portato i suoi due figli a dormire da mia madre e, di nascosto, mi sono alzata alle cinque e l’ho raggiunta. Abbiamo preso un taxi e siamo andate alla stazione degli autobus. Abbiamo raggiunto Bosaso con un viaggio di un paio di giorni, da qui abbiamo raggiunto lo Yemen via mare su una barca di clandestini poiché io non avevo documenti. Ci sono voluti tre giorni e il viaggio è stato durissimo perché eravamo tanti su una piccola imbarcazione, il mare era agitato, c’era vento, la pelle era coperta di sale. Per la prima volta ho pensato che sarei potuta morire. In Yemen siamo arrivati con il buio, non so a che ora, ci hanno fatto scendere in acqua e abbiamo raggiunto la riva di nascosto perché la polizia avrebbe potuto catturarci e arrestarci. Ci siamo bagnati tutti. Gli scafisti sono scappati e ci hanno abbandonati lì. Abbiamo camminato per ore, attraversato montagne e percorso strade pericolose. Molta gente lungo la strada ci ha aiutati, dato da mangiare e bere e regalato delle scarpe per chi come me che era scalzo. Faceva caldissimo. Abbiamo dormito per strada. Ci siamo recati a San’a e lì mia sorella ha preso contatti con alcune persone per andare in Arabia Saudita in cambio di denaro. Abbiamo dormito in un hotel un paio di notti e poi ha preso accordi per viaggiare col buio perché altrimenti sarebbe stato molto pericoloso per dei clandestini. Di giorno dormivamo e di notte attraversavamo montagne altissime, muovendoci senza far rumore. Una sera una persona è precipitata e ha lanciato un urlo fortissimo che ha attirato verso di noi poliziotti armati con torce e cani. Siamo stati tutti catturati e portati in carcere. Ci siamo rimasti per otto giorni. Per fortuna mia sorella ha conosciuto uno yemenita, sposato con una somala, che è riuscito a farci scarcerare. Poi ha preso accordi per proseguire il viaggio verso la Libia. Ci siamo spostati immediatamente in taxi e siamo stati portati verso una zona periferica dello Yemen con un viaggio di circa quattro giorni. Abbiamo attraversato nuovamente il Mar Rosso, ancora una volta con un viaggio terribile passato nel dormiveglia, senza mangiare né bere, con la paura di morire, su una barca piccola e tanta gente schiacciata al suo interno. Ci hanno fatto sbarcare in Sudan e ci hanno subito caricato su diversi fuoristrada con i quali abbiamo affrontato il Sahara. La testa mi girava per il viaggio in mare e la debolezza. Ci hanno dato da mangiare succhi e dolci, la notte faceva freddissimo. È stata la parte più dura. Ma ricordo ancora quanto era bello e sorprendente il deserto: ogni mattina il paesaggio cambiava sempre a causa del vento. Dopo otto giorni siamo arrivati in Libia. Siamo stati catturati da gruppi armati che ci hanno rinchiusi. La prigione era una enorme stanza circondata da mura alte e guardie, buia e illuminata solo da fessure nel soffitto che ci permettevano di respirare e di capire se fosse giorno o notte. C’erano solo due bagni per tutti, separati solo da una tenda di stoffa. Le persone morivano in continuazione. I carcerieri prendevano le donne che volevano quando lo desideravano, per farne qualunque cosa, violentarle e maltrattarle. Ci picchiavano, cercavano di costringerci, la vita era troppo dura e ogni volta che degli uomini cercavano di costringermi ad avere rapporti sessuali, mia sorella mi salvava prendendo il mio posto perché io ero molto giovane e non ero mai stata con un uomo mentre lei si era sposata e aveva partorito due figli. Dopo un anno di prigionia in Libia, mio padre e mio fratello sono morti in un attentato con esplosivo a Soobe il 14 ottobre 2017. È stato un giorno tremendo quando l’ho saputo. Ci era permesso mandare messaggi alle famiglie e loro potevano richiamarci sui telefoni satellitari dei nostri carcerieri. Dopo altri mesi ci hanno chiesto soldi per la nostra libertà ed erano 15.000 dollari. Subito dopo mia sorella si è ammalata e dopo un anno è morta perché non è stata curata. L’hanno lasciata accanto a me per due giorni, poi hanno portato via il cadavere e io non so ancora dove sia stata messa. Ho pianto tanto. Per giorni e giorni. Rimasta sola, mi hanno picchiata più volte molto forte e torturata con il filo elettrico per farmi chiedere i soldi alla mia famiglia in cambio della mia libertà. Sono stata in Libia tre anni e nove mesi. Una sera ci sono stati scontri all’interno del carcere per problemi di soldi e così, approfittando della confusione e della sparatoria, siamo tutti scappati in diverse direzioni. Non sapevamo dove ci trovassimo. Abbiamo camminato per ore. Io ero in un gruppo di venticinque persone. Un uomo ci ha accolti a casa sua, ci ha dato da mangiare per tre giorni e proposto di attraversare il Mar Mediterraneo con una barca per 2.000 dinari. Io non avevo soldi e non potevo pagare ma gli altri mi hanno aiutato e caricato ugualmente sulla barca. In quattro giorni circa siamo sbarcati a Lampedusa. Ero spaventata, sola e avevo perso l’unica persona che mi capiva, mia sorella, una seconda madre per me. Avevo incubi ricorrenti e soffrivo d’insonnia. Qui, in Italia, ho cominciato con molta difficoltà una nuova vita. Ora sono più serena, so che qui sono al sicuro e che ho accanto molte persone che mi aiutano, brave persone che mi vogliono bene.