Fin da bambina
Scritto da Segreteria il 28 Maggio 2010
Continuiamo a pubblicare i racconti delle ragazze e dei ragazzi del Liceo Gobetti che hanno partecipato insieme alle loro insegnanti Cristina Bracchi e Patrizia Moretti ai laboratori di narrazione e scrittura organizzati dal Concorso Lingua Madre.
Ecco il tredicesimo racconto:
Fin da bambina
Di Arianna Moglia
(Classe III C)
Fin da bambina avevo sempre temuto che un giorno, mio padre, mi potesse dare la spiacevole notizia di dover preparare i bagagli perché avremmo dovuto traslocare; infatti, a causa del suo lavoro, c’era sempre stata l’eventualità di dover cambiare città.
Nonostante questa mia paura non avevo mai veramente compreso che cosa potesse significare per me abbandonare i familiari, gli amici e la mia amata città. Non pensavo che sarebbe stato così difficile salutare tutti, ma comunque ero certa che mi sarei ribellata, che sarei riuscita in qualche modo a non partire.
Invece, adesso che questa mia paura è diventata realtà, capisco che ero molto ingenua e superficiale ad avere questi pensieri.
Poco prima delle vacanze natalizie mio padre, da poco tornato da un viaggio di lavoro, ci aveva informato della nostra imminente partenza per Porto Alegre.
Inizialmente avevo capito che sarebbe stata un’inaspettata vacanza, un’idea originale per festeggiare il Natale: in Brasile. Invece no! Altro che vacanza, era un vero e proprio trasloco e per di più saremmo andati ad abitare a migliaia e migliaia di chilometri da Torino!
Non ricordo con precisione i miei primi pensieri, le mie prime emozioni, ricordo però il desiderio e il bisogno che mi ha pervaso di uscire di casa e di andare nel mio luogo preferito: un masso in un prato, vicino ad un rio, poco distante dal cimitero di un paesino delle colline torinesi.
E così ho fatto: ho preso il casco, il libro che stavo leggendo in quel momento, sono scesa in garage, ho acceso il motorino e ho raggiunto il mio paradiso.
Sono rimasta lì, due o forse tre ore, a leggere Ci sono bambini a zigzag, a fantasticare sull’avventura di Nono, il protagonista del libro, e a pensare che forse quella sarebbe stata l’ultima volta che sarei stata distesa su quella pietra, ad ascoltare i suoni della natura.
Ho sempre sognato di andare via dalla mia città, per vivere nuove esperienze, conoscere altre persone e culture diverse, ma non a sedici anni, non contro la mia volontà e non per sempre o comunque per un lunghissimo periodo.
Nonostante la tristezza, la rabbia, lo scoraggiamento, ho subito capito che avrei seguito la mia famiglia senza protestare, perché ero ancora troppo piccola per perderla e, per me, era ed è ancora una parte fondamentale della mia vita, molto di più di qualsiasi altro parente, amico o luogo da me amato.
Ovviamente io non ero pronta ad abbandonare tutte le certezze che avevano reso la mia vita negli ultimi anni bella e felice, avevo la consapevolezza di dover partire, ma anche la voglia di restare a Torino, perché sapevo che avrei perso tutte le amicizie.
In effetti era quella la fonte più grande della mia paura: la perdita di tutto ciò che era stato fino ad allora importante nella mia vita. Le amicizie a sedici anni sono ricche, dense di emozioni, sentimenti e avventure, ma sono molto fragili perché a quest’età si è in continuo mutamento e io sapevo che, non assistendo ai cambiamenti dei miei amici e loro ai miei, alla fine non ci saremmo più riconosciuti.
Avrei voluto organizzare una festa, come quelle dei film di Hollywood oppure come quella della canzone dei Modena City Ramblers, Il bicchiere dell’addio.
Non ho preparato però nessuna delle due feste; semplicemente, il mio ultimo giorno in Italia l’ho trascorso prima con i miei parenti e poi con i miei amici più intimi. Siamo rimasti tutta la notte sul balcone a guardare le stelle (faceva freddissimo!), siamo rimasti lì per ore e ore a ricordare come ci siamo conosciuti, le impressioni che abbiamo avuto di ciascuno di noi la prima volta che ci siamo visti, i belli e brutti momenti trascorsi insieme, abbiamo cantato e poco prima di addormentarci abbiamo promesso di non dimenticarci e di scriverci sempre, fino a quando non sarei ritornata da loro.
Il giorno dopo, il 15 Dicembre, alle 9.40 ero a Milano insieme a mio papà, mia mamma, mio fratello e mia sorella e sono salita su un aereo; quattordici ore e venticinque minuti dopo, sono scesa dallo stesso aereo, però ero a Rio de Janeiro, in Brasile.
Oltre il pensiero di aver abbandonato l’Italia, ero preoccupata per la nuova vita: avrei dovuto imparare il portoghese, adattarmi ad una nuova cultura e cercare di fare nuove amicizie, imprese tutt’altro che semplici!
Per fortuna (come dice mia nonna, “In ogni cosa c’è il lato positivo, basta volerlo trovare”), abbiamo traslocato poco prima delle vacanze natalizie, così abbiamo avuto qualche settimana per ambientarci, prima di essere catapultati nella vita reale.
I primi giorni, se non si tiene conto della nostalgia, dell’insicurezza e delle paure che mi hanno tenuto e mi tengono ancora adesso compagnia, li ho vissuti come una vacanza: dormivamo in un albergo poco distante dal centro di Porto Alegre, visitavamo la nostra nuova città e anche i luoghi limitrofi e mangiavamo nei ristoranti più lussuosi.
Con meraviglia ho subito scoperto che nonostante in Italia fossimo solo benestanti, qui in Porto Alegre siamo molto ricchi: vivere in Brasile costa molto meno!
Sono rimasta inoltre molto stupita dalla bontà del cibo, ovviamente non è paragonabile a quello italiano, se non per la colazione; il loro primo pasto è, infatti, molto simile al nostro: a base di caffè, latte, pane, burro e marmellate.
Le temperature erano molte elevate, potevamo andare al mare e fare il bagno; infatti, abbiamo festeggiato il Natale in costume da bagno in spiaggia, anche perché da soli nella nuova casa sarebbe stato molto triste!
Era tutto molto strano, diverso e molto distante dalla mia vecchia vita, infatti a stento credevo che quella fosse la realtà e non un sogno.
Nella mia famiglia credo di essere stata la persona che ha sofferto di più, i miei genitori sono adulti e a loro qualche anno lontano da casa non faceva paura e hanno vissuto, e vivono tutt’ora, quest’esperienza molto serenamente, i miei due fratelli erano ancora molto piccoli quando siamo partiti, avevano cinque e tre anni, e non hanno risentito di questo spostamento.
Invece io ero completamente spaesata, non riuscivo a trovare nessun elemento che mi accumunasse alle persone del luogo; mi sembrava impossibile riuscire a fare nuove amicizie e non pensare continuamente a tutte le persone che avevo lasciato.
Mi ricordo di aver spesso rimpianto tutto ciò che un tempo, a Torino, ritenevo rendere le mie giornate monotone; ripensavo con nostalgia a tutte le mattine che avevo odiato il pullman 61 che non arrivava mai, oppure a quando dovevo andare a prendere i miei due fratelli all’asilo e, per non fare la strada da sola, cercavo qualcuno che mi accompagnasse, ma raramente lo trovavo.
Non avrei mai creduto di essere così determinata, pensavo che non sarei mai riuscita a imparare la lingua locale e ad ambientarmi; così infatti è stato per i primi mesi, non parlavo con nessuno ed ero sempre abbattuta e demoralizzata; i pomeriggi, invece di studiare, li trascorrevo a telefonare ai miei amici in Italia. Più però parlavo con loro e più mi intristivo, piangevo spesso e non trovavo conforto in niente, mi sentivo vuota, come mi mancasse una parte di me.
I miei genitori cercavano di rassicurarmi e incentivarmi, ma io non li ascoltavo e non trovavo niente di positivo in tutti quello che mi circondava.
Le mie giornate trascorrevano lente e cupe, finché una mattina, non ho ancora capito il motivo a distanza di anni, mi sono svegliata felice e da quel giorno in poi tutto è diventato più semplice.
È stato comunque molto duro e faticoso, studiavo tutto il giorno per imparare la nuova lingua, lottavo contro la mia timidezza in continuazione e cercavo di partecipare al maggior numero possibile di attività proposte dalla scuola e dalla società.
Avevo ormai iniziato una sfida con me stessa e non la volevo perdere per nessun motivo, ho rischiato di arrendermi molto spesso anche perché non sono stati sempre tutti ospitali e gentili gli abitanti di Porto Alegre, soprattutto alcuni compagni di scuola; mi ricordo di un giorno, erano già trascorsi alcuni mesi e io pensavo di aver iniziato ad integrarmi e che le solite prese in giro fossero terminate, invece, mentre stavo parlando, secondo me normalmente, tutta la classe iniziò a deridermi.
Nonostante questi avvenimenti mi facessero star male e contribuissero a ricordare con nostalgia e malinconia la mia casa e ad aumentare in me la voglia di ritornare a Torino, il vuoto lentamente, molto lentamente stava iniziando a scomparire.
Ora che sono passati otto anni da quando vivo in Brasile, quando ripenso ai primi mesi trascorsi a Porto Alegre, ritengo di essere stata proprio infantile e non riesco a capire come io non abbia subito apprezzato quest’esperienza, come non sia riuscita a capire immediatamente quanto mi avrebbe arricchita questo trasferimento e quindi viverlo da subito positivamente.
In questi anni sono tornata spesso nella mia città, ho rivisto i miei parenti, i miei vecchi amici, mi sono sdraiata sul mio adorato masso e ho ripreso il pullman 61.
Ogni volta che ritornavo a Torino mi rendevo conto di quanto mi fossero mancate le persone, i paesaggi e la neve e di quanto mi fosse mancato parlare l’italiano al di fuori della mia famiglia, ma ogni volta mi rendevo anche conto di non ritenere più l’Italia la mia unica casa, ma di appartenere ormai anche al Brasile.
Adesso ho ventiquattro anni e ho terminato i miei studi, ho finalmente l’opportunità di ritornare a Torino ma, al contrario di quello che pensavo sette anni fa, non voglio più lasciare Porto Alegre.
Arianna Moglia
Classe III C
Liceo Scientifico Gobetti