Coronavirus: e le donne?

L'eroina silente Il racconto di Marcela Luque

Scritto da Segreteria il 24 Giugno 2020

Coronavirus: e le donne?
Continuano le risposte all’invito a riflettere sul tema lanciato nei giorni scorsi dal CLM. Ecco il racconto  dall’autrice CLM Marcela Luque.

L’eroina silente

“Finalmente si è capita la storia! Alla buonora,” pensava Giulia mentre il portone del palazzo in cui abitava si chiudeva dietro di sè.
E pensare che solo due giorni prima le amiche stavano organizzando una cenetta fuori. Giulia sorrideva immaginandole ora, barricate dietro la porta di casa e divenute delle vere e proprie specialiste nel lavaggio delle mani e conoscitrici per filo e per segno della sintomatologia del nuovo virus, sul quale si sapeva ancora ben poco.
Intanto alcuni striscioni pendevano già dai balconi di Torino: “Andrà tutto bene”. Sembrava si riproducessero alla stessa velocità del virus: tutti i giorni mentre percorreva la strada per andare al lavoro Giulia ne trovava sempre uno nuovo.  Nel frattempo le notizie cercavano di screditare le fake news e le fake news facevano altrettanto con le notizie riscontrando più successo delle precedenti mentre Giulia andava in ufficio tutti i giorni imbottita nel suo cappotto grigio e azzurro.
Per lei, come per tanti altri, di smart working non se ne parlava proprio: doveva organizzare il lavoro per i colleghi che lavoravano da casa, rispondere al telefono e cercare con tutti i mezzi possibili di incassare le fatture arretrate nel caso la cosa durasse più di qualche settimana.
Per fortuna quello che a Giulia mancava in termini di paranoia ce l’aveva in buon senso. Munita della sua mascherina, acquistata quando ancora si sosteneva le mascherine non serivissero a nulla e della autocertificazione di turno, Giulia si recava in ufficio tutte le mattine puntualmente. Aveva scelto di evitare i mezzi pubblici, perciò era costretta a camminare poco più di sette chilometri sia all’andata che al ritorno sotto il grigio cielo di Torino mentre gli striscioni sembravano moltiplicarsi come i pani e i pesci.
“Mi chiedo cosa sia peggio di questa crisi – pensava Giulia ogni volta che un podista gli passava accanto – se la paranoia o la stupidità”. Tutto ad un tratto tutti erano diventati runners, ciclisti oppure malati cardiopatici che non potevano fare a meno di correre. Si chiese se non fosse stata più sicura su un tram affollato vista la quantità di sportivi che popolavano parchi e piste ciclabili rendendo quasi impossibile rispettare la distanza di sicurezza.
“Metro o metro e mezzo, boh… Ogni giorno che passa ne capisco di meno,” pensava Giulia sentendosi scaraventata in un mondo capovolto in cui quelli tenuti a capire sembravano non sapere dove sbattere la testa. E i giorni passavano, e ogni volta si capiva di meno. Finchè arrivarono i giorni in cui era meglio non capire. I giorni in cui le mascherine, strumento considerato inutile fino ad allora divennero genere di prima necessità. La “semplice influenza” toccata da chissà quale bacchetta magica si trasformò in una pandemia globale che minacciava di spazzare via quello che due guerre non erano riuscite a distruggere. Dalla sera alla mattina si chiusero i parchi già presi d’assalto da podisti e ciclisti, i quali dovettero cedere il proprio impero a cuochi e musicisti amateur che popolavano i social media gli uni e i balconi gli altri.

Fotografia “Vavunettha” di Sandra Jaworowski (Polonia)

“Ma come sarò sfigata – rimuginava Giulia senza perdere il conto dei nuovi striscioni che erano comparsi quella mattina – vero che mi potevano anche toccare dei vicini che suonassero trombe, tromboni, clarinetti, sassofoni…”. Invece si doveva accontentare con delle anziane che sbattevano le pentole in piedi sui balconi, il vicino DJ che si rifiutava di rispettare gli orari dei flashmob e la famiglia del sesto piano al palazzo di fronte che tutte le sere alla stessa ora intonava la stessa canzone: “Azzurro”.
Intanto la cerimonia di caffè e briosce smise di fare parte del protocollo nazionale e persino le partite di calcio furono sospese. “Questo davvero mi preoccupa,” pensava Giulia che odiava il calcio, da lei considerato una sorta di oppiaceo delle classi operaie: “Se fermano il calcio temo sarà la fine della civilizzazione occidentale,” e sorrideva convinta di aver partorito una frase degna di un brevetto.
Le giornate in ufficio erano diventate pesantemente serene e Giulia iniziava a sentire la mancanza di quelle piccole cose che tutte insieme modellavano la sua quotidianeità: il postino, lo squillare insistente del telefono, gli sbalzi di umore del capo… Per fortuna non vi era quasi del lavoro da fare quindi Giulia poteva seguire le attività dei figli che erano a casa impegnati con quelle poche lezioni online disponibili. “Meno male che i ragazzi sono già grandi,” ribadiva Giulia  tra sè e sè. Almeno potevano rimanere da soli a casa, cucinarsi loro e seguire le lezioni online. Altrimenti con i figli piccoli sarebbe stato un vero macello, come lo era per tanti altri.
E mentre faceva i sette chilometri di ritorno a casa Giulia si meravigliava di come, ad un tratto, la realtà non esisteva più se non dentro lo schermo di un computer. E si chiedeva, mentre guardava i nuovi striscioni, cosa avrebbe sentito un familiare di una delle quasi mille persone che morivano ogni giorno. Per loro, ogni striscione era uno schiaffo, un calcio allo stomaco. Perchè le cose andavano tutt’altro che bene. Questa volta persino il capo l’aveva capito.
“Finalmente! ” pensava Giulia mentre faceva la sua ultima camminata di ritorno a casa. Finalmente il capo aveva capito che non aveva nessun senso costringere Giulia ad andare in ufficio. Sicuramente si era accorto che lo smart working aveva pure un lato attraente: i dipendenti avrebbero utilizzato  la propria connessione internet e non più consumato il caffè e la carta igienica dell’azienda. Bastava solo attivare l’inoltro chiamata al telefono – anche se ad uso personale – dei dipendenti e tutto sarebbe stato come prima.
La città era un deserto di cemento e l’inverno iniziava a scomparire. Giulia infilò le chiavi nella serratura, aprì il pesante portone del palazzo con una mano sola. Si girò per  vedere il portone tornare in dietro fino a chiudersi e si chiese quale strano mondo si sarebbe trovata quando avesse attraversato quel portone la prossima volta. Un mondo del tutto diverso? “Forse,” pensava mentre saliva in ascensore e premeva il tasto del sesto piano. Le piaceva pensare che le cose sarebbero state diverse, meglio o peggio, non c’era modo di saperlo. Ma comunque qualcosa di diverso del passato, tanto quello lo conosceva già.

 

La fotografia “Vavunettha” di Sandra Jaworowski (Polonia) fa parte delle fotografie selezionate dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per la XV Edizione del Concorso Lingua Madre.