Coronavirus: e le donne?

Covid in famiglia: cronaca dalla Lombardia Il contributo di Cecilia Venturi

Scritto da Segreteria il 21 Novembre 2020

Coronavirus: e le donne?
Continuano le risposte all’invito a riflettere sul tema lanciato nei mesi scorsi dal CLM. Ecco il contributo di Cecilia Venturi.

Covid in famiglia: cronaca dalla Lombardia

Sono una donna che si è ammalata di Covid.
Non solo, con me, o forse prima di me, si è ammalata tutta la mia famiglia.
Ho assistito sofferente e impotente all’espandersi dell’epidemia intorno a me.
Ho visto ammalarsi persone, morire amici, parenti e conoscenti, a volte senza che neppure si tentasse una cura, si procedesse a una terapia. Per mille e mille volte mi sono chiesta come sia stato possibile che questo succedesse alla nostra generazione, alla nostra collettività, a noi persone cresciute in uno stato dove la Riforma Sanitaria dal 1978 ha sempre permesso a tutti di essere curati in quanto cittadini e in quanto persone, a noi individui a cui lo stato ha sempre garantito un welfare state accettabile. Ho ripensato a quei giorni prima della malattia, alle notizie che arrivavano a noi persone comuni, ma informate, a come ci siamo esposti inconsapevolmente a rischi tra rassicurazioni pubbliche e tragedie personali. Ho deciso di raccontare la mia esperienza, intrecciando alcune notizie pubblicate dai giornali, all’incontro della mia famiglia con la malattia.

Il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi informano l’Organizzazione mondiale della Sanità che a Wuhan si è verificata una serie di casi di simil polmonite, la cui causa è però sconosciuta: il virus non corrisponde a nessun altro noto. Si comincia a indagare sull’origine della malattia.
Abbiamo cominciato a sentir parlare massicciamente della diffusione del virus sui giornali italiani dalla metà di gennaio 2020, ma i virologi interpellati e i politici competenti continuavano a rassicurare circa la possibilità di diffusione del virus in Italia e quindi sul reale pericolo di essere esposti al contagio. Arriva però una grossa tegola su tutto questo ottimismo diffuso a piene mani, a Codogno viene individuato il «caso indice», cioè il contagiato che permette di individuare la malattia.

Da quel momento si susseguono le individuazioni di nuovi casi e i provvedimenti nelle regioni più colpite: chiusura scuole, università…
Per i locali pubblici si alternano provvedimenti di chiusura e riapertura finché il 26 febbraio viene stabilito che A oggi i bar di Milano e della Lombardia potranno restare aperti anche dopo le 18. Per evitare assembramenti, il servizio bar dovrà essere gestito solo al tavolo dal personale e non direttamente al bancone… (La Repubblica, 26 Febbraio)

Inoltre venivamo inondati da appelli degli amministratori locali: «Bergamo non ti fermare!» inizia così l’appello che il Sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha lanciato ai propri concittadini dalla sua pagina Facebook […] «Come reagire al coronavirus? D’accordo con Beppe Sala: il primo segnale di reazione, positività e fiducia può venire dalla cultura. Senza abbandonare la prudenza. Riaprire i musei sarebbe un segnale importantissimo».[…] (Eco di Bergamo, 27 febbraio )

Milano, milioni di abitanti. Facciamo miracoli ogni giorno. […]Portiamo a casa risultati importanti ogni giorno perché ogni giorno non abbiamo paura. Milano non si ferma. Sono le scritte che compaiono nello spot che il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha pubblicato sulla sua pagina Facebook… (Avvenire, 27 Febbraio)

Mentre le istituzioni invitano alla responsabilità per contenere l’epidemia da coronavirus con i minori disagi possibili per la popolazione, volano parole grosse tra gli scienziati. Al centro di tutto il virologo Roberto Burioni, .[… ] Da alcune settimane lo scienziato sostiene sia in atto una sottovalutazione del rischio coronavirus.[… ]In alcuni post delle scorse settimane, Burioni ha paragonato la mortalità potenziale del Covid-19 a quella dell’influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in tutto il mondo. (La Repubblica, 23 febbraio)

A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri”. A parlare è Maria Rita Gismondo, virologa. [… ] la scienziata scrive: “Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1! (La Repubblica, 23 febbraio)

Con queste notizie e a seguito di queste informazioni mio figlio Antonio, con il nostro consenso, decide di partecipare ad una festa di laurea, a Rovato, sabato 29 febbraio. Il rischio di infettarsi sembra basso e i locali accolgono le persone con l’unico accorgimento che le ordinazioni vengano servite al tavolo. Sono una decina di ragazzi seduti intorno a 3 tavolini, mangiano una torta, ridono, scherzano.
La mattina del 5 marzo si reca in questura per il passaporto, deve aspettare all’esterno in piedi, fa freddo, è una giornata ventosa. Torna a casa e manifesta sintomi influenzali: ha la voce abbassata, mal di gola e tosse. La notte ha anche qualche linea di febbre, complessivamente è molto raffreddato ma sta bene. Un po’ di Tachipirina e la malattia sembra sotto controllo, siamo tranquilli.

Il 10 marzo ho la febbre, mal di gola, tosse, dissenteria, ho dolori diffusi, non mangio, ho la nausea, penso di essere affetta da una forma influenzale, passerà. Non passa, il 13 telefono al mio medico. La febbre già al risveglio è a 38,5, quando deglutisco o ingoio qualche liquido sento bruciare la gola e il petto, la tosse è sempre più secca, più stizzosa,quando soffio il naso il muco è misto a sangue. Il medico mi prescrive via email un antibiotico. Intanto intorno a noi crescono le notizie sulla diffusione della malattia, i malati aumentano, i Pronto Soccorso sono presi d’assalto, i posti in ospedale scarseggiano e si comincia a comunicare che i posti in terapia intensiva sono esauriti. In TV nel corso di alcune trasmissioni viene detto che non tutti i pazienti possono essere curati e che, come da protocollo, si dà la precedenza a chi ha maggiori aspettative di vita questo significa che chi è già malato o è più vecchio non può essere curato; i malati di Covid che non sopravvivono aumentano ogni giorno.
Le mie giornate sono accompagnate dal costante urlo delle sirene delle ambulanze che incessantemente, giorno e notte, raccolgono i malati per accompagnarli all’ospedale di Chiari. Le sirene sono la colonna sonora che, insieme alla consapevolezza che se dovessi peggiorare probabilmente non potrò ricevere le cure necessarie, alimentano la mia ansia, la mia paura. In TV nel corso delle trasmissioni di approfondimento viene ribadito che l’unica arma è la prevenzione. Ma chi è già malato cosa può fare, a chi può chiedere aiuto?

Domenica 15 marzo sto ancora peggio, ormai sono consapevole di essere affetta da Covid: la febbre non passa e i sintomi persistono. Dopo 5 giorni di Tachipirina e dieta semiliquida comincio a sentirmi debole, i battiti cardiaci sono costantemente sopra ai 100 al minuto, decido di chiedere aiuto. Penso che dovrei essere sottoposta a tampone per avere la certezza della diagnosi.
Le immagini di ospedali occupati dai malati di Covid molto al di là della loro capienza e quelle del personale sanitario che lavora stremato per offrire un’assistenza medica ai malati più gravi, in Lombardia, resterà impresso nel vissuto collettivo: povertà di mezzi e di risorse, ricchezza di umanità.
Attraverso la TV e i giornali viene raccomandato di non recarsi direttamente in Pronto Soccorso per evitare affollamenti e contagi, ma di contattare i numeri messi a disposizione dalle Regioni per le persone con sintomi. Telefono al numero verde della Regione Lombardia, mi viene risposto che se non ho difficoltà a respirare loro non possono fare nulla, che i tamponi vengono fatti solo in ospedale e che, se avessi difficoltà a respirare, dovrei chiamare il 112.
Chiamo il 112, mi viene detto che, se non sono in crisi respiratoria, non possono intervenire e di rivolgermi alla Guardia Medica, mi danno il numero.
Chiamo la Guardia Medica, mi viene consigliato di continuare con la tachipirina e di aggiungere l’Oki per alleviare i dolori, comunico che sono così da 6 giorni, mi viene risposto di pazientare che l’infezione può durare anche settimane.

Lunedì 16 marzo mi sveglio sudatissima, ho la febbre a 39, sono dolorante e affaticata. Telefono al mio medico curante, dopo ore in cui sento il telefono squillare a vuoto (mi verrà poi spiegato che l’impiegata si è messa in ferie per paura di infettarsi), finalmente risponde. Il medico non visita a domicilio, però se voglio posso recarmi in ambulatorio.

Scoprirò poi di essere fortunata, molti medici della provincia di Brescia non visitano neppure su appuntamento e si limitano a fare una consulenza telefonica, queste sembrano essere le direttive del Ministro della Salute per evitare i contagi negli ambulatori o del personale sanitario.
Dalla visita emerge che ho i “polmoni chiusi” e una tracheite, devo fare 6 iniezioni di Rocefin, al tampone non posso essere sottoposta: non ho avuto alcun contatto diretto con persone che poi sono risultate positive al virus.

Torno a casa e comincio la terapia, nei momenti in cui la febbre si abbassa, dato che sono un’insegnante di scuola primaria, continuo a preparare il lavoro da inviare sul registro elettronico ai miei alunni, che da troppi giorni ormai non frequentano la scuola.

Mi telefona una mia collega, anche lei è malata, ha la febbre e la diagnosi del suo medico è broncopolmonite… I malati aumentano, sono tanti, troppi, tutti a casa, tutti senza cure.
La sorella di una mia amica ha una diagnosi di polmonite bilaterale interstiziale, febbre a 40°, fatica a respirare, i figli nel corso della notte si alternano al suo capezzale, per evitare che la saturazione si abbassi troppo le fanno praticare esercizi respiratori, cercano di evitarle l’ospedalizzazione.

Il 18 marzo, la televisione ci mostra le immagini dei camion dell’esercito che hanno portato via le bare dal cimitero di Bergamo: il trionfo della morte, dell’impotenza, della sconfitta.
La mattina del 19 marzo finalmente sono sfebbrata, ho ancora la tosse, bruciori intensi al torace, affaticamento a seguito anche di piccoli sforzi, muco dal naso misto a sangue, ma la febbre è sotto i 37°. Continuerò a provarla 3 volte al giorno per altri 21 giorni, ogni volta è un supplizio, inserisco ed estraggo il termometro ogni minuto, ho paura che la febbre risalga, che l’incubo ritorni, nessuno fa diagnosi di guarigione o previsioni sul decorso della malattia.
Parlando con altri malati scoprirò che è stata una modalità comune, la misurazione della febbre che certificava inequivocabilmente la malattia è diventato un dramma condiviso. Continuerò anche a prendere la Tachipirina prima di andare a letto, mi aiuta a dormire, mi allevia i dolori, ma soprattutto non voglio abbandonare l’unica terapia che mi ha accompagnato e reso più sopportabile la malattia.

“Sole atipico di un tramonto” di Vilma Morillo Leòn (Venezuela)

Il 22 marzo mio marito, a seguito di uno sforzo, fatica a respirare, ha dolori ovunque dice di sentire come delle lame che gli trafiggono il torace, le articolazioni sono dolenti, prova la febbre: è a 37,5°. Comincia ad assumere la Tachipirina, in farmacia è esaurita, fortunatamente è disponibile il generico. Il 23 richiamo il medico curante, solita trafila, il telefono squilla a vuoto, finalmente dopo più di un’ora risponde, nel pomeriggio passerà a visitarlo.

Il rispetto per i pazienti e l’amore per la professione superano la paura e le indicazioni prudenziali del ministero finiscono in un cassetto. Alcuni medici decidono che le persone se non possono essere curate vanno almeno assistite e visitano a domicilio.

Forse dire grazie è poco, è ancora la buona volontà dei singoli ad alleggerire la situazione, a restituirle umanità.
Dalla visita sorgono dei dubbi, prescrive una radiografia al torace, visita anche me, i polmoni non sono ancora liberi, altri 6 giorni di Rocefin.
Il giorno successivo mio marito viene sottoposto a radiografia presso un centro privato: polmonite interstiziale bilaterale, non abbiamo più dubbi, siamo affetti da Covid, ma che fare?
Questo è quello che pubblicano i giornali in quei giorni.
«Leggo che alcuni pazienti di Covid-19 sono in partenza dalla Lombardia per Lipsia. [… ] Ma non sono ancora riuscito a farmi spiegare da nessuno, nonostante chieda da giorni, come sia possibile che mentre riceviamo aiuti da mezzo mondo non siamo in grado di sfruttare i letti di terapia intensiva di ospedali a mezz’ora di macchina da Brescia, come a Verona, dove per fortuna l’epidemia non è esplosa come da noi, e i posti sono ancora per una parte rilevante non utilizzati».
Lo dichiara in una nota Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia, in merito all’emergenza coronavirus e al collasso del sistema sanitario lombardo. «A Brescia e Bergamo – prosegue – si muore per la saturazione dei posti, e in Veneto sono ancora liberi due terzi dei letti di terapia intensiva. Dobbiamo mandare i pazienti in Germania, quando a due passi da qui ci sarebbe ampia disponibilità. Tutto ciò è privo di senso e inaccettabile, possibile che nessuno ne risponda, possibile che non si riesca a rompere questo muro invisibile ora, subito, in queste ore? Credo proprio che la regionalizzazione spinta della sanità andrà ripensata completamente, finita questa emergenza. (Giornale di Brescia, 24 marzo)

Chiamo il medico, telefono di nuovo al numero verde della Regione Lombardia, è il 24 marzo, questa volta vengono annotati i dati, ci viene detto che mio marito, e solo lui, verrà messo in lista per il tampone, che non si sa quando verrà effettuato.
Nessuno ci richiama, mai più. Non sapremo mai che fine ha fatto la lista alla quale l’operatore l’ha aggiunto.
Contattiamo una cugina pneumologa in pensione, lei ci consiglia di misurare la saturazione a mio marito e che, se si dovesse abbassare sotto il 92, dovrebbe essere ricoverato in ospedale; ci dice anche di non somministrare l’Oki, sembra che gli antinfiammatori siano sconsigliati.

Antonio va in ambulatorio a mostrare al medico l’esito della radiografia, vengono prescritte anche a mio marito le iniezioni di Rocefin, ma soprattutto gli presta il saturimetro per rilevare l’ossigenazione del padre. La saturazione di mio marito è a 93, come passerà la notte?
Non abbiamo un saturimetro e non riusciamo a procurarcelo, Maria, mia figlia telefona a 78 tra farmacie e parafarmacie della zona, una le dice che forse il 26 marzo le verranno consegnati quelli che hanno bloccato in dogana, ne ordiniamo anche uno anche su Amazon, la consegna è prevista il 6 aprile.

Il 25 Antonio torna dal medico che ci presta ancora il saturimetro e ci dice di tenerlo fino a che ne avremo uno a disposizione, l’ossigenazione di mio marito resta stabile tra il 93 e il 94. Il 26 mattina la parafarmacia di Brescia interpellata comunica di avere finalmente a disposizione i 100 saturimetri. Maria parte subito, si mette in coda all’esterno della parafarmacia con altre 50 persone, riesce ad acquistarlo. Siamo quasi felici, possiamo restituirlo alla dottoressa ed abbiamo a disposizione lo strumento che ci consente di tenere sotto controllo l’evoluzione della situazione di mio marito, o almeno noi pensiamo possa essere così.

Le giornate sono interminabili, non vediamo nessuno. Amici e parenti telefonano, sono quasi imbarazzati, non sanno come aiutarci, ognuno ha un parente, un amico ammalato in casa o in ospedale, i necrologi occupano lunghe pagine dei quotidiani locali.
Prego, non solo per noi, nella mia mente scorrono le immagini delle altre persone che so essere ammalate, in ospedale, in terapia intensiva, non so come raggiungerle, la preghiera sembra mettermi in comunione con loro, con chi sta soffrendo.

Maria comincia a non avvertire sapori e odori, ha dolori lancinanti, ha il fiato corto e si affatica anche a seguito di minimi sforzi, capisce di essere malata, ma non può cedere, è lei la colonna che ci sorregge e si occupa di noi debilitati e sofferenti.

Così passano i giorni, aspettando un aggravamento o un miglioramento, senza alcun sostegno medico, senza terapie, rileviamo temperatura e saturazione, ci aiutiamo tra di noi, la famiglia è stata la nostra unica terapia, il nostro unico sostegno, l’unica cellula di questa società avanzata ma malata che ha retto. È quasi Pasqua e la nostra situazione migliora, siamo tutti sfebbrati, la saturazione di mio marito si va stabilizzando. In una situazione quasi surreale ci si prepara a celebrare questa festa.
Lungo la nostra via, il Venerdì Santo, il nostro parroco, solitario, porta la Croce simbolo di sofferenza e di speranza.

Siamo guariti come nelle epidemie delle epoche più buie, qualcuno guariva, qualcuno no: il problema era suo, “la comunità” non era in grado di farsene carico. A fine aprile è cominciato il balletto dei test sierologici, dopo aver contattato ASST e ATS alla fine il 18 giugno vengo sottoposta al test con mia figlia, mio marito e mio figlio l’hanno già fatto a pagamento, siamo stati malati, abbiamo gli anticorpi il tampone è negativo: siamo guariti.

Finalmente possiamo uscire di casa, siamo sollevati, è sabato 27 giugno, armati di mascherina andiamo a passeggiare al lago, a Iseo. Sono le 20 fa caldo, la spiaggetta del paese è ancora piena le persone, sono vicine; sul lungolago tutti sono accalcati, passeggiando si sfiorano, all’esterno dei ristoranti la gente è in coda, quasi nessuno indossa la mascherina. Scappiamo via veloci, spaventati. Torniamo nella nostra casa che per tante lunghe giornate è stata, e continuerà ad essere, il nostro rifugio: ci siamo dimenticati del virus, speriamo che anche lui si sia dimenticato di noi.

 

La fotografia “Sole atipico di un tramonto” di Vilma Morillo Leòn (Venezuela) fa parte delle fotografie selezionate dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per la XIII Edizione del Concorso Lingua Madre.