Le autrici di Lingua Madre

Contributo alle teorie della performance

Scritto da Segreteria il 12 Ottobre 2009

Esercizio in ottica di genere
di Anna Maria Civico

Costruire la propria genealogia artistica.
Voglio organizzare un punto di arrivo/partenza sul concetto di performance utilizzando la mia esperienza artistica, da praticante e da osservatrice. Ci sono alcune fasi parallele in cui sto procedendo da tempo e che a volte tendono a convergere: dalla esperienza in campo teatrale e musicale, alle letture, alla risonanza che esercita su di me il lavoro di performer che riconosco come significanti, fino ad artiste/i sconosciute/i di altre etnie e tradizioni culturali e performer incontrate/i agli angoli delle strade o persone di campagna colte nell’istante magico in cui avviene che raccontano di sé. Determinante per me è l’esperienza condotta in prima persona con musicisti e performer su ciò che viene veicolato dalle dinamiche del suono e dell’immagine, sulla relazione drammaturgica in spazi naturali e l’ascolto sugli elementali che da esso scaturisce, su ciò che si manifesta di profondo attraverso azioni fisiche che coinvolgono la corporeità in modo totale e integrato in sé e tra i partner e lo spazio scenico.
Sono impegnata in una ricerca artistica da circa 20 anni, fondata su una storia di incontri con maestre/i e approdi verso una poetica ed estetica indipendente, in cui strumenti del teatro e della musica contemporanei e tradizionali si fondono nell’inabissarsi alla radice comune oltre il genere estetico.
Appare un’altra estetica. La sperimentazione vocale e la ricerca e prassi di repertori di tradizione orale sono i due estremi ed opposti ambiti musicali su cui agisco simultaneamente per fusione e/o collisione. L’ambito dell’azione fisica si fonda sulle dinamiche che conferiscono conoscenze e consapevolezza alla presenza scenica. Procedo in modo da innescare dinamiche processuali e di sollecitare la relazione tra stati interiori profondi cercando di portarli in superficie, ciò che si manifesta ha in sé una forma che dipende dalla competenza artigianale. Dipende dal tempo che si ha a disposizione e dai soldi. Dipende dallo status sociale tra colleghe/i di lavoro, diversa è la motivazione e la consapevolezza di questo lavoro tra chi è benestante e può permettersi il “lusso” di lavorare gratis e chi deve fare i conti con se stessa/o e far coincidere e aderire ogni proprio impegno sempre con un dare/avere. Questa riflessione è molto importante se si considera che soprattutto in Italia vige ancora una idea romantica e sentimentale delle arti a discapito proprio del concetto di lavoro artistico e che in alcuni casi lo mitizza rendendolo unico e “inimitabile” con la creazione del divismo e dell’illusione del successo, ed a sfavore del concetto stesso di lavoro di cui cercherò con le mie argomentazioni di far emergere verso una modalità di approccio alla vita vista in modo unico e non separata in scomparti.

La performance è un momento senza ritorno, si colloca in due dimensioni temporali: quella strutturale e ritmica propria all’azione e che le dà unicità e irripetibilità, quella del tempo reale e fluida propria dello spazio degli spettatori e quella del tempo vitale fisiologico, emotivo, psichico di colei/coloro che agiscono: i/le performer. Lungo questa cortina invisibile di accadimenti multipli può verificarsi un bivio nel tempo dell’azione (e ovviamente nella percezione del tempo negli spettatori) in cui la dimensione verticale e quella orizzontale collidono o si fondono. Il bivio o incrocio è cercato. La dimensione verticale è il nucleo vitale di un’azione artistica in cui convergono le energie più sottili mobilitate dalla fibrillazione di vibrazioni che il corpo mette in atto nel suo agire, in un certo senso la dimensione verticale è l’essenza, simile alla essenza di un profumo dunque instabile, fuggevole e unica; la dimensione verticale è una chiamata, il Canto che si può fare da sole o in più persone, che dà qualità specifica al contenuto e libera il significato dalla stretta del Discorso. La dimensione verticale (nell’opera artistica) così come la vivo io, è una possibilità personale di elaborazione (azione e pensiero) a ciò che la vita ci sembra domandare e di trasformazione del reale in una direzione ecologica, poi di trasfigurazione e/o trasformazione di me stessa. Elaborazione della realtà attraverso la confermazione della propria esistenza resa ancora più urgente nel nostro tempo in cui assistiamo a dinamiche che insidiano in modo ricorrente la “presenza” e mentre in anni passati pensando alle dinamiche interne delle culture tradizionali di comunità erano molte le situazioni critiche in grado di togliere margine alla possibilità di mantenersi sul piano della storia e di precipitare nel caos il fragile equilibrio della persona, pur erano molte le forme rituali che arrivano da quell’orizzonte arcaico del mondo mediterraneo attraverso a ciò che ne è sopravvissuto, fino a tempi recenti, come relitto folklorico e che sono il risultato dello sforzo, collettivo e/o individuale, di dare risposte integratrici alle insorgenze critiche più insidiose (Placido Cherchi – Regie Culturali del Caos 2000 Cagliari). (I relitti folkorici in questione, e che mi riguardano, sono le danze, la musica, le forme di canto, di narrazione e di poesia di improvvisazione e l’iconografia della cultura di tradizione popolare.) Oggi assistiamo a procedure inedite ed altamente tecnicizzate che attraverso i media inducono modelli funzionali alla gestione del potere e alla gestione della collettività. Tutto si svolge su un piano quasi esclusivamente materiale; sul fronte artistico procedure di attraversamento/riconoscimento per riconquistare un’idea del se e del corpo si confrontano attraverso le nuove ipotesi della biotecnologia avanzata, della nuova ossessione fisica del fitness, della psicosi viratica, del nomadismo sempre più condizionante del soggetto, della incandescenza con cui la tecnocrazia multinazionale riformula consumismi e cannibalismi, con la velocità con cui i media ricatturano nella loro rete pseudo-informativa l’immaginario collettivo, con la dissequazione con cui conflitti etnici e di conquista rapinano le comunità di loro stesse, con la incessante pressione con cui la seduzione per nuove forme di status sociale cattura strati sempre più disparati di potenziali acquirenti. (Il corpo postorganico di Teresa Macrì, Costa & Nolan 2006, p.50)
La dimensione orizzontale è lo stare con gli altri, sono le strategie politiche che si possono mettere in atto nel Discorso che parla chiaramente a tutti; sono i propri strumenti che vengono continuamente verificati e aggiornati.
Altra fase è materia di scavo oltre il mio tempo di nascita e riguarda in primis l’essere donna e con ciò il mio sguardo, passivo e attivo, filtro oscillante sul mondo e sulla vita. La ricerca continua di testi e di buone pratiche che possano parlare direttamente a me è una parte della mia azione di costruzione/creazione della mia specifica genealogia artistica che è un punto di vista femminile e femminista.

Delimitare il mio arco di azione.
Dal mio permanere e operare nella città di Terni, da circa 7 anni, trovo quell’ancoraggio ad un primo sguardo comodo perché stabile, in cui si mettono in fila disponendosi in superficie, le dinamiche che impongono alla nostra vita soluzioni di sopravvivenza che nella instabilità del viaggio rimangono in periferia. Avere una dimora ed una tana sicura fa’ si che si accumulino fascicoli e cartelle che periodicamente devono essere messe in ordine. Si accumulano (si aprono e si chiudono) relazioni con il territorio e con le persone. Il corso di studi di genere e delle pari opportunità che sto frequentando a Perugia presso la facoltà di Lettere e Filosofia organizzato dal Dipartimento Uomo e Territorio sez. Antropologia, mi suggerisce di distogliere per un po’ l’attenzione esclusiva sulle mie solite occupazioni e preoccupazioni, guardarle da altra angolazione; mi dà la possibilità di ascoltare le altre, la complessità e la rigorosità delle loro ricerche (pensando alle docenti), le criticità espresse (pensando alla platea). L’urgenza di organizzare il pensiero mi dà anche, e non inoltre, la possibilità di sviluppare e osare innesti del pensiero dal confronto con tante esperienze ascoltate durante le varie sessioni del corso. […]

Cercare nel pensiero e nelle azioni delle donne.
Nella mia esperienza lavorativa degli ultimi 4 anni ho incontrato spesso donne, che si sono affidate a me o a cui affidarmi, raramente donne con cui procedere. Una difficoltà oggettiva ed endemica del progettare insieme uomini e donne risiede nella burocrazia, nei costi iniziali che sempre bisogna assumersi, poi nella ingerenza politica che in Italia è molto forte anche sulla cultura. C’è poi nel mio modo di pensare e di agire un atteggiamento a procedere che mi richiede concentrazione e spesso isolamento.
L’applicazione artistico/artigianale richiede tempi lunghi. Cerco inoltre, per necessità, l’autenticità e l’onestà nell’agire mio e delle/degli altre/i come “metodo” personale con cui posso confrontarmi e questo diventa obiettivo inscindibile per ogni contesto tanto più se si tratta di lavoro, di progettare. L’onestà di cui parlo riguarda il non detto, ciò che è rivelato dallo sguardo, dal gesto, dal verso, dal ritmo dei movimenti, dunque l’agire “poetico” di ciascuna persona. Poi cerco che ci sia una visione, non necessariamente comune. Il risultato è che spesso opero da sola, creare percorsi su queste basi diventa essa stessa un’opera di ricerca, di stare continuamente sulle tracce. La solitudine ricercata da alcune/i artiste/i non è un mito o un atteggiamento, è una delle procedure, quasi un protocollo.
Cerco nel pensiero femminista risposte alla mia solitudine, alla mia moltitudine. Sembrerebbe possibile abbracciare in pieno le sfumature del pensiero delle altre come se da una si rimandasse all’altra con sviluppi che procedono a salti e contaminazioni. Questo sembra possibile a me che non sono specialista del pensiero femminista, quanto osservatrice di dinamiche di relazione. In realtà possiamo impiegare anni per capire che in un contesto si è esaurita per noi la possibilità di sviluppare qualcosa e di condivisione. A volte per fortuna e per fiuto questa comprensione è immediata. E’ tempo di riconoscere che oggi, anche nel cosiddetto discorso scientifico sulle donne nella storia, esistono posizioni eterogenee, i cui esponenti non sono più in grado di comunicare tra loro. Questa affermazione di Barbara Duden sull’impossibilità di comunicare, risuona alle mie orecchie come trombe dell’apocalisse. Però forse è anche una pretesa utopistica del contemporaneo legata alla velocità con cui i media ci ricatturano nella loro rete pseudo-informativa, restituendoci un’illusione di onnipresenza, quella per cui si possa/debba comunicare con tutti. La comunicazione avviene tramite cavi, fibre ottiche, rotaie, onde, stampa, linguaggio verbale logico. Per ciò che può accadere e agire tra persone io voglio parlare di comprensione, di trasmissione dei saperi anche quelli più elementari che si tramandano prima o poi attraverso il tatto, di corpo in corpo, di voce in voce, di sguardo in sguardo, di orecchio in orecchio, di non detti, senza mediazione elettronica. La conoscenza approfondita dei nostri “bio-dispositivi” per quanto concerne la mia visione e i miei desideri, è fondamentale nelle arti, il “corpo postorganico” analizzato dalla critica d’arte Teresa Macrì, è un ennesima induzione se non si attua attraverso la passione e la creatività visionaria operata nel travestimento e nello svelamento, ed è indotto da un sistema e da tecnologie funzionali ad esso, che si mostra fallimentare giorno per giorno, ora dopo ora per tutto ciò che concerne relazioni umane e sviluppo della comprensione e della compassione tra esseri umani e per tutti gli esseri viventi. Non mi sembra che allo stato attuale abbiamo superato, assimilandola, la conoscenza sulle potenzialità dei nostri corpi e della nostra mente da poterci ritenere organismi superati. Come artista performativa, attrice e cantante, come persona e come donna so che ho ancora molto da imparare dall’esplorazione delle mie dinamiche fisico/psichiche, dalla mia relazione con lo spazio e con il ritmo, dalla mia relazione fisica ed emotiva con le/i partner e questa esplorazione mi porta benessere e conoscenza al tempo stesso e non mi basterà una vita per conoscermi anche perché verifico costantemente l’indefinibilità e l’effimero, l’imprevedibilità del mio essere ed agire e questo assume a volte toni grotteschi o tragici e fanno la qualità della mia vita e delle mie relazioni.
Perché nomino Barabara Duden? Perché l’ho conosciuta personalmente nel novembre 2008 e per me la conoscenza diretta è funzionale alla trasmissione e condivisione dei saperi. Lei cercava una cantante italiana con cui presentarsi con la sua relazione “Maternità, corpo e scienza. Tracce del flusso percepito dalle donne in gravidanza – il conflitto tra il tempo incarnato e il futuro predetto” per il Progetto Amazzone 2008 (www.progettoamazzone.it). Era interessata al flusso in maniera trasversale quindi anche al flusso che si può innescare nella ritmica di un cantare vissuto e radicato nel corpo e solo in un secondo tempo al significato delle canzoni. Mi interessava molto questa sua consapevolezza sui saperi incarnati che le facevano comprendere quelli delle arti, musica compresa. Così a Palermo abbiamo cercato di trasmettere una visione a due su principi, conoscenze e modalità di flussi. Per Barbara Duden, nel contesto di Palermo, volta a trasmetterci la sua ricerca sulla percezione del corpo delle donne incinte del diciassettesimo secolo in Germania: “l’autopercezione dei flussi e del loro movimento attraverso l’esperienza somatica, dunque la facoltà di percepire in modo palpabile questo particolare stato” ci istruisce sull’ “esperienza di un movimento interno e fluido abituale, qualcosa di diverso dalla “patologia degli umori” della dottrina medica, poiché la percezione dei flussi era una “verità” della carne che non poteva essere generalizzata. Ogni donna la viveva secondo la propria natura. Questa natura del proprio sé vissuto come insieme di flussi (sbagliati, regolari, fittizi) è sempre narrativa, perché di solito i flussi sono abituali: sono “consuetudini”, “inclinazioni”, che appartengono a ciascuna donna in maniera differente. Quando, nel corso del XVIII secolo, l’”umoralismo” lasciò il posto al “corpo anatomico”, si posero le premesse per concettualizzare la gravidanza come un processo lineare di sviluppo embriologico: un processo, dunque, che si svolge allo stesso modo in tutte le donne.” “Da storica, mi ci sono voluti anni per riuscire a cogliere il timbro sanguigno-umido-acquoso-denso-scarso dell’autopercezione delle donne. Il sangue ne è il filo rosso. Il sangue è la materia che scorre lungo i giorni, le settimane, i mesi, gli anni nelle storie, nelle narrationes delle donne.” “Il presagio che una donna ha di essere incinta si lega a una percezione intensa del proprio sangue.”
Il flusso, così come lo comprendo dalla prassi sul movimento e sul canto attraverso il tempo-ritmo, è un’azione che si svolge sulla sottile membrana tra percezione del proprio tempo e tempo reale, l’azione e/o il canto si sviluppano attraverso l’esplosione di piccolissime sfumature del suono e/o del movimento che trasformano e trasfigurano in modo organico chi agisce. Il tempo cronologico scompare per dare luogo all’esperienza dello sgorgare e scorrere attraverso procedimenti che inizialmente sono artificiosi. L’arte incontra una materia viva, il corpo, che si sa autoriprodurre, il tempo può essere gestito e non subito. Organico e artificio si incontrano attraverso l’attività plasmatrice fisico/chimica del ritmo. Organico infine vuol dire qualcosa che va oltre la gestione dei codici tecnico/artigianali; l’esperienza si riflette sul mio pensiero dando origine ad una meditazione in cui trova posto l’essere paziente, il saper aspettare ed agire al momento opportuno senza esitazione ed evidentemente attraverso le dinamiche tra intuizione, pensiero e pulsioni che attraversano il corpo in maniera trasversale e che affinano continuamente il carattere. L’azione artistica diventa la capacità di tenere le redini del tempo attraversandolo trasversalmente. […] Ci incontriamo ancora. Seconda tappa Bremen la città dove Barbara abita. L’incontro è nella piazza del mercato la mattina alle 11,00 ci scambiamo subito pensieri e cibi, la giornata calda limpida per il mio primo agosto in Germania Nord. Poi mi chiede di fare ancora qualcosa insieme e mi invita ad andare con lei alla Scuola estiva della differenza a Lecce nei primi giorni di settembre 09. La nostra ricerca sulla percezione dei flussi si fonde all’amicizia non si sa più cosa ci guida. […] Essere femminista per me ha da sempre significato l’appartenenza ad uno stato di consapevolezza di una condizione di disequilibrio e di essere testimone e sottomessa a ingiustizie. Nel guardare si svelano le diseguaglianze, le quali domandano costruzione/decostruzione di identità e relazioni in questo lavorio emergono le differenze. Processo che ha similitudini sorprendentemente affini ai processi del creare ad arte. Quando questo vuol dire avere strumenti, saperli usare e svilupparli anche verso la trasformazione degli strumenti stessi. Essere femminista è anche una ricerca di integrazione tra il variare dei punti di avvistamento verso il quale ti conduce la vita e il dotarsi dei mezzi per riconoscere e far crescere le procedure con cui si vuole manifestare la mia femminilità e la mia creatività dalla relazione con il mondo. Il percorso a posteriori sembrerebbe lineare. Invece bisogna guadagnarselo e tutte le donne che abbiano un frantume di visione su di sé o sul mondo apprendono se stesse a caro prezzo e non è una questione di status.

Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita, e la vita è spesso un inferno…per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara. (Alda Merini)

 Strano come queste affermazioni io non le senta separate da me soprattutto per forma e modo di pensare la propria vita che vibra in ciò che non è detto e mi apre lo spazio dell’intuizione e della nostalgia in cui intravedo oltre il mio tempo di nascita. […]

Partner e collaboratrici/ori.
Inizio nei miei gruppi di ricerca artistica a proporre costantemente come prassi, l’osservazione del lavoro fra i partecipanti stessi. Ritrovo sempre la resistenza iniziale a mettersi nella posizione di osservatrice/ore e spesso nonostante le mie precauzioni il fare è vissuto come più importante dell’osservare. I partecipanti coinvolti nei laboratori sono spesso persone che lavorano in campi diversi da quello artistico. Le loro aspettative nell’avvicinarsi al mio lavoro riguardano la ricerca del sé e l’interesse per la musica tradizionale, per la ricerca vocale e le forme di relazione con gli/le altri/e. Ho sempre tenuto ai margini la mia idea riguardo alla funzione originaria di tutte le arti come complesso di codici per trasmettere conoscenza e saperi sul sé e di relazione con gli altri e con l’ambiente. Ho cercato di vedere se anche per le altre ci fosse questa possibilità e desiderio di scavo archeologico dei sensi attraverso gli strumenti delle arti e di ridefinizione delle arti stesse. 
Sia con artisti che con i non artisti si è posta la necessità della destrutturazione più o meno consapevole di abitudini posturali, di un’idea di movimento, dell’uso della voce che hanno significato una riscoperta di un modo di muoversi, di parlare e quindi di pensare al teatro, al canto, alla composizione degli spazi, a se stesse/i in relazione ad una esperienza autentica e personale con la realtà e con le arti. Lo sguardo dell’altra/o si è sempre rivelato uno specchio. […]

Lavoro e poiesis 
Parto dal basso e mi attengo ad una visione a breve raggio. Il fare vuol dire sempre avere i piedi per terra e resistere nello stesso tempo alla gravità. A volte con successo si può prendere il volo con il proprio peso. La prassi in cui mi aggiro mi dice che posso sempre arrivare ad un conoscibile, anche se all’inizio c’è il vuoto. Ho fiducia del mio situarmi con il corpo nel concreto delle relazioni in cui includo anche la mia percezione sulle altre forme di vita. Il virtuale con cui ho a che fare riguarda la tastiera su cui scrivo, la velocità che può dare alla struttura della mia sintassi e pensiero, delle informazioni a cui accedere, la rete di persone con cui comunicare fatti fondamentali e confrontarsi su informazioni non censurate, riguarda inoltre fatti che reclamano urgenze che non posso eludere dato che la luce del monitor mi acceca, e lo stare seduta troppo tempo mi crea problemi alla circolazione del sangue devo economizzare il mio rapporto con il pc. Dal mio essere storia e ricercatrice ne ricavo interessi ed un gusto arcaico in cui l’agire e il lavoro creativo emergono dai desideri latenti della fragile psiche che attraverso canto e azione performativa si mostrano con l’oggettività di forma e di estetica/poetica, con la densità di vibrazioni, e mi fa credere che sia possibile procedere verso una crescita personale da condividere o almeno annunciare in piccole comunità e che questa crescita dia un prezioso contributo al concetto ed alla considerazione che io ho del lavoro artistico.

Che cosa è per te il lavoro ?
“Il lavoro è ciò che dà un’identità alla persona, ovvero, nutre un’aspirazione personale in rapporto con la collettività. Il panettiere come il performer sono due lavoratori che hanno compiti diversi verso se stessi e verso gli altri. Lavoro significa anche artigianato può essere quindi legato alla “produzione” di mezzi di sostentamento fisico (grano, pane, scarpe etc.) o sostentamento spirituale, dunque un artista è un lavoratore.” F
“Definisco il lavoro un insieme di azioni svolte per raggiungere un obiettivo in cui si impegnano mente e corpo in un impasto di regole. Disciplina e creatività.” F
“Esperienza fondamentale che contribuisce alla mia ricerca di senso.” F
Cantare, costruire azioni, organizzare il movimento fisico nello spazio e con gli altri o per una azione solista può essere definito lavoro?
“Un lavoro e degno di essere reputato tale, perché comunque si mettono in funzione meccanismi cerebrali, organici, emotivi, istintuali che in altre azioni definite lavoro non entrano in campo o almeno, non sempre.” F
Secondo te è definibile lavoro solo ciò che è soggetto a retribuzione salariale ?
“No. Si chiama lavoro tutto ciò che ha una funzione sociale e individuale allo stesso tempo, che serve qualcosa. Non tutto ciò che viene retribuito in questo sistema invece per me è riconoscibile come lavoro.” F

Utilizzo alcune risposte ad un questionario da me indirizzato a persone che conoscono il mio modo di lavorare e quello di altre/i artiste/i nell’ambito della ricerca di teatro, canto, sperimentazione vocale e performance. Gli utenti del questionario sono soprattutto donne. Nel mio lavoro in Umbria si è verificato più che altrove una partecipazione quasi esclusiva delle donne. Una particolarità che riguarda non tanto la tendenza del territorio a cui mi riferisco, dato che conosco uomini o ragazzi che frequentano in città spazi teatrali e laboratoriali, ma riguarda me e mi induce a chiedermi da altre angolazioni: chi sono io? e come viene identificata la mia ricerca artistica e verso dove posso con più precisione orientarla. Le persone a cui rivolgo il questionario sono lavoratrici/ori in campo sociale, educativo, operatrici culturali, teatrali, studentesse. Ho scelto di somministrare il questionario solo a persone non attrici/ori in quanto spesso l’appartenenza al contesto teatrale crea l’ambiguità che qualsiasi perfomance possa essere una forma di teatro o di spettacolo accompagnato dall’equivoco di essere le/gli uniche/ci protagoniste/i del contesto performativo. 
Alcune riflessioni del questionario mi danno la possibilità di avviare più declinazioni sul vissuto della performance come strumento di conoscenza, cura di sé e dell’altra e dello spazio/ambiente. Durante i laboratori propongo esercizi come strumento e strategia di cui alcuni devono essere eseguiti con rigore altri esigono una trasformazione nell’immediato. Ci sono gruppi di esercizi connessi ad obiettivi fisici e/o di stato che si intende esplorare e gruppi di azioni che affrontano la dimensione collettiva o individuale. La scelta degli esercizi può variare a seconda della possibilità o dei bisogni della singola persona, del gruppo e a causa di me se stessa. Ci sono fattori come la potenzialità del corpo riguardo al movimento o alla voce che all’inizio non sono conosciute dalla persona/partecipante e questa sensazione di sconosciuto riguarda e rimanda alle potenzialità fisiche, psichiche ed emotive latenti. Si ha inizialmente una sensazione di perdita dell’orientamento e contemporaneamente si agisce in una dimensione ludica, si può avere l’impressione che si stia giocando, di fare cose assurde, “se qualcuno ci guardasse da fuori ci prenderebbe per matte/i”. Il disorientamento è in questi casi anche legato al godimento profondo che genera imbarazzo, un godimento che non si riconosce dato che non rientra nelle abitudini di un piacere vissuto o quotidiano. Il disorientamento è maggiore se dalla dimensione del laboratorio ci si presenta fuori in una performance con spettatori e in luoghi pubblici. Ciò che sperimentiamo nel laboratorio sono le dinamiche interiori e relazionali che restituiscono o riconducono l’altra ad una stima profonda di sé. Ciò che ricerco e mi sta a cuore perché lo ritengo uno strumento guida alla libertà, è come guidare e accompagnare le persone verso la presentazione pubblica di sé attraverso gli strumenti delle arti, cercando di arginare quell’aspettativa del consenso che viene trasmessa come fondamentale dal mondo dello spettacolo e dello show in generale. 
In questo approccio gli esercizi, il rigore, l’autodisciplina e il desiderio si alimentano in modo paradossale scatenando una forte nostalgia. Si arriva in modo dinamico alla percezione della nostalgia che diventa molla propulsiva della motivazione interiore che spinge a reagire ed agire. Perché mi interessa lavorare allo sviluppo dell’autostima? Perché questo rende le donne più coraggiose, meno spaventate del mondo pur non possedendone la vastità di conoscenza a cui oggi si può avere accesso, e un po’ più sapienti della vita che scorre in sé e intorno a noi. E per vivere ho bisogno di relazionarmi e lavorare insieme a donne coraggiose e indipendenti almeno nel pensiero, nei gesti. Le donne (e qualche uomo) partecipanti arrivano ad una performance con la possibilità di gestire la propria presenza o ne scoprono la criticità. In questa potenzialità del corpo, del lavoro collettivo creativo e della performance risiede inoltre la natura dinamica ed elastica dei vari livelli fisici, emozionali e ancora psichici che non abbiamo avvicinato ed osservato. A volte non sono sufficienti gli esercizi fisici e vocali ma bisogna lavorare direttamente sugli umori, sul tempo, sullo spazio. A volte creando a volte semplicemente sommando, sottraendo. La situazione della performance è chiara sulla disposizione dello spazio, chi agisce e chi osserva. E’ chiara anche sulla tangibilità del guardarsi attraverso un barriera invisibile, eppure densa tanto da creare una distanza anche a solo un metro. Ho cercato, ogni volta nell’arrivare alla performance con non artiste/i, di osservare il malinteso dell’aspettativa del pubblico visto come giudice, ci siamo confrontate molto su questo mettendoci più volte nel ruolo. Spesso è venuto fuori che lo stato dello spettatore è come quello di un foglio bianco in cui sono racchiusi tutti i suoi desideri, lei/lui sono lì e sperano di conoscerli, di ricordare almeno un desiderio. 
Per la parola performance e teatro all’interno del quesito indirizzato alle/i partecipanti ai laboratori ho usato la definizione di Richard Schechner* (antropologo e regista di teatro) che ha esplorato la performance come antropologo in molte etnie sia a struttura più complessa sia a struttura tribale ed ha realizzato vari spettacoli teatrali in spazi differenti tra loro. Inoltre il termine performance assume sensi nel contesto di pensiero e di prassi da cui si parla, ci sono definizioni che soprattutto a livello contemporaneo con la digitalizzazione dei saperi e della comunicazione quasi ribaltano e svincolano il concetto di performance dalla sua dimensione carnale che per alcuni è ancora l’unica performance possibile, ma non l’unica esistente. Elemento questo sconvolgente dato che fino ad ora i corpi vivi calati nella realtà creata o quotidiana sono sempre stati elementi inscindibili. (Si dice una ottima performance per il lavoro di un imprenditore, di un ministro, di un pilota di formula uno o di un’atleta, potere performativo del linguaggio, viene usato come sinonimo di esecuzione, prestazione, etc.)
*Performance: l’intera costellazione di eventi che hanno luogo sia fra gli attori che tra il pubblico dal momento in cui il primo spettatore entra nel campo della performance, al momento in cui l’ultimo spettatore va via.
*Teatro: l’evento interpretato da un gruppo particolare di attori; quello che realmente succede agli attori durante una produzione. Il teatro è concreto e immediato. Generalmente il teatro è la risposta degli attori al dramma e/o allo script; la manifestazione o rappresentazione del dramma e/o dello script.
Dramma: un testo scritto di tipo narrativo, partitura, istruzione, scenario, piano o mappa. Il dramma viaggia nel tempo e nello spazio indipendentemente dalla persona che lo trasporta. Script: tutto ciò che può venir trasmesso attraverso il tempo e lo spazio; il codice fondamentale dell’evento. Lo script si trasmette da persona a persona e chi lo trasmette non è un semplice messaggero: deve conoscere lo script ed essere in grado di insegnarlo agli altri. Un esempio di script è il codice dei movimenti nella danza balinese.
Anche se questa definizione di teatro è per me e per molti altri attualmente ri-definita in altre direzioni, ritengo che sia utile a creare coerenza per il contesto eterogeneo degli utenti del quesito che si sono rivolti alle pratiche artistiche del teatro.
Nella mia esperienza l’idea e la prassi del performare si è trasformata a partire dal teatro per passare dalla vita senza mondo al mondo: creare opere in modo più o meno strutturato rispondendo ai propri desideri ed ai contesti verso cui il proprio approccio alla vita conduce, tra scegliere ed essere scelte ci sono compromessi a volte organici, processuali, a volte immediati e violenti; a volte procedo da un desiderio estetico di superficie; fondamentalmente stare davanti agli altri, dire e agire, esserne consapevole e assumersene la profonda responsabilità.