Appuntamenti

A proposito di Diritti Umani... ... Una lettera e un racconto

Scritto da Segreteria il 10 Dicembre 2012

Pubblichiamo la lettera che ci ha inviato la professoressa Lucia Bonato e il racconto di Hanan Yehia Zakaria Ali:
“Sono stata per anni docente all’Istituto Russell-Moro di Torino dove,  in collaborazione con Maria di Stefano,  ho incoraggiato le mie studentesse straniere a partecipare al concorso Lingua Madre. Da due anni vivo al Cairo dove lavoro come docente di italiano. Questo nuovo ruolo mi mette di fronte all’esperienza di ragazze che, con un carico non meno greve di disagi e incertezze, fanno il percorso inverso rispetto a quello che Lingua Madre vuole documentare: donne straniere nate e cresciute in Italia, alle prese con il ritorno ad un futuro che non hanno mai sognato. Di qui è nata l’idea della sfida che, a cavallo tra la didattica e la psicologia, ho lanciato alle mie studentesse, di raccontare la loro esperienza. Hanan ha risposto, accarezzando l’idea che quello che non riesce a far sentire vicino possa essere ascoltato lontano: ha scoperto il piacere della scrittura, ha scritto-cancellato-riscritto alla ricerca di una forma arrabbiata ma non sgarbata, ha trovato la sua voce e vuole farla sentire. Il mio scopo è raggiunto. Il suo, è appena delineato. Entrambe ovviamente speriamo in un possibile spazio che possa dare ossigeno a questa piccola catarsi.

Lucia Bonato
Lettrice del Ministero degli Esteri

Università del Cairo e Università Al Azhar
Il Cairo, Egitto

Io invece… di HananYehia Zakaria Ali

Quand’ero piccola pensavo che a diciotto anni una ragazza potesse fare ciò che vuole. Essere completamente autonoma e scegliere la propria vita, decidendo da sola senza che i genitori le negassero niente. Uscire, divertirsi e fare tutto ciò che i giovani fanno a questa età. Questo è quello che vivono le ragazze italiane. Io non posso dire di essere italiana. Sono una via di mezzo: mezza egiziana e mezza italiana. Genitori entrambi egiziani, nata e cresciuta in Italia con principi all’orientale ma con mentalità occidentale. Divisa tra due mondi completamente differenti.
Tutto è iniziato quando un giorno, nella mia Milano, i miei genitori hanno deciso di tornare “al paese”. Ovviamente senza neanche chiedermi un parere. La loro decisione era definitiva «Appena avrai preso il diploma ci trasferiamo in Egitto». Così me lo hanno comunicato.
Ho trascorso il mio ultimo anno in Italia cercando una soluzione. Ho pensato di farmi bocciare a scuola, ma a cosa sarebbe servito? Sarei rimasta un anno in più, ma non avrei risolto il problema, l’avrei solo rimandato. «Ma si può sapere cosa ci tornate a fare in Egitto?? Poi, dopo la rivoluzione!! Ma scappa di casa e vieni a stare da noi» hanno detto le mie migliori amiche.
Non ho avuto abbastanza coraggio.
L’ultimo giorno prima di partire ero fuori con le compagne di classe; siamo andate a chiedere informazioni all’università Bicocca di Milano. Avrei voluto frequentare la facoltà di psicologia. La psicologia mi ha sempre affascinata, e poi, da quando ho letto il libro “Plagiata” di Claudia V., ho deciso di studiare psicologia. E invece eccomi qui, al Cairo, iscritta al secondo anno del corso di laurea in italiano.
Non ha senso studiare italiano, io l’italiano lo parlo già bene. Saranno quattro anni della mia vita buttati, ma non so scrivere né leggere l’arabo quindi non posso frequentare altre facoltà.
Tra il Cairo e Milano non c’è molta differenza. Due città che vanno di corsa la mattina. Traffico. Smog. Con la differenza che nelle vie di Milano non c’è immondizia. Quando lavoravo all’ufficio commerciale a Sesto San Giovanni prendevo la metro. La mattina tutti vanno di fretta e dovevo per forza tenere il passo con la folla oppure rischiavo di essere calpestata. A me piace camminare veloce e qui faccio proprio fatica a prendere il ritmo cairota.
Non dimenticherò mai l’ultima volta che ho visto la mia grande Milano. Sempre bellissima. Ero in pullman, diretta all’aeroporto di Malpensa. In quei 20 minuti di tragitto mi sono tornate in mente tutte le avventure, le pazzie, le esperienze di quei 18 anni della mia vita. E tra mille promesse, con le guance rigate di lacrime, guardavo le mie amiche pensando che non avrei più trovato ragazze in gamba come loro e che sarebbe stato difficile ritornare lì; e così è stato.
A Milano crescevo, e le mie richieste crescevano. Volevo uscire al pomeriggio con gli amici e piano piano avevo ottenuto ciò che volevo. Volevo uscire con gli amici la sera, e col tempo i miei cominciavano ad abituarsi. In Italia ho conosciuto di tutto, dai santarellini e figli di papà agli snob, a quelle che chiamano brutte compagnie.
Penso che sia per questo che i miei hanno deciso di ritornare “al paese”. Paura della mia mentalità troppo aperta. Del mio modo di comportarmi troppo all’occidentale. Dei miei amici tutti occidentali. «Tu non sei una ragazza italiana e non devi essere come loro, diceva mio padre. Noi abbiamo culture e regole diverse. Non possiamo permetterci di fare tutto ciò che vogliamo. Dobbiamo tener conto di quello che la gente racconta. Non dobbiamo dare la possibilità a nessuno di raccontare cose brutte su di noi». «All’università incontrerai tanti ragazzi., rincarava mia madre. Non avere fretta, è anche per questo che ti facciamo frequentare l’università in Egitto, per trovare un buon marito egiziano, con la nostra mentalità e le nostre tradizioni» e bla bla bla. Loro non capiscono e non capiranno mai.

Mi dà fastidio il fatto di aver cambiato tutta la mia vita. Gli amici. Le abitudini. Mi sembra di stare in un brutto sogno senza fine: le strade che percorrevo ogni giorno sono cambiate, tutte piene di immondizia, di polvere. Niente più farfalle colorate tra l’erba verde, niente rugiada, niente erba. Nella zona dove abitavo c’era un grande parco, il Parco Nord, enorme. A volte dopo una notte di pioggia, l’erba assomiglia a dei piccoli fili di ghiaccio, proprio bella da osservare. Andavo spesso a correre lì per scaricare rabbia ed energia, con l’aria fredda che mi congelava la faccia e le mani. Tutto questo mi manca.  Non capisco perché qui in Egitto le ragazze non possano fare sport. Le bici no. Correre no. L’obesità si dissimula sotto il castigo degli abiti.
Via le montagne bianche di neve, via il cielo limpido che riempiva la finestra del salotto, via l’aria fredda che faceva battere i denti la mattina, via gli uccellini che mi svegliavano la mattina presto; ora non devo più scomodarmi a fissare la sveglia prima di dormire, ci pensano i clacson delle automobili a svegliarmi. Per non parlare delle mosche: se facessi un censimento, sicuro che risulterebbe che il 50{1df0e4da29279b652725a41e73412c641212622f140d1ced20c4f4af08ef78fa} delle mosche esistenti al mondo si trovano in Egitto. L’unico panorama che posso vedere ora è il mercato con l’uomo che spinge un carretto vuoto gridando “roba vicchiaaaaaa, vicchiaaaaaa, roba vicchiaaaaa”.
Per la strada osservo la gente. Studio i movimenti. I gesti. Le parole. Quanto sono diversi gli egiziani dagli italiani! Due mondi agli antipodi. Un gruppo di ragazzini, non più di 14 anni, fermi ad un angolo, scrutano i passanti, particolarmente le ragazze e le donne. Sussurrano qualcosa e ridono. Si danno pacche sulle spalle. Non capisco cosa possa dire un ragazzino di 14 anni ad una donna mai vista prima. «Taaly hena andy ya moza? Bella ragazza perché non vieni qui?» mi hanno detto una volta. Ho alzato lo sguardo. «Deh betheb tetaakes! Oh, ma questa ci sta!». Era poco più che un bambino! Questo comportamento ormai è di moda, qui, per i ragazzini: pensano che per diventare grandi e maturi si debba fare i bulli con le ragazze. Ma questo comportamento ce l’hanno anche uomini grandi, magari sposati e con figli che hanno la mia stessa età… si comportano così con le ragazzine; in Italia la chiameremmo pedofilia. Qui nessuno si cura di queste cose. Se la ragazza non è coperta dalla testa ai piedi, allora se lo è meritato. Ma se vi dicessi che succede anche alle munakabat, alle donne che portano il niqab, come la mettiamo?!
Gli sguardi della gente, soprattutto degli uomini, mi danno fastidio. Non posso neanche andare a correre per buttare fuori la rabbia. Adesso capisco perché le donne d’Egitto non vanno in bici né corrono la mattina. «Quella me la sposerei solo per prenderla per i capelli e picchiarla» ho sentito un giorno alle mie spalle. «Che t’importa, sarà un venditore di pesce al mercato» mi dice Marina, che da Milano mi messaggia arrabbiata «Non raccogliere più i riccioli, lasciali sciolti sulle spalle, che tanto è lo stesso. Cammina sempre a testa alta che non stai facendo niente di sbagliato e non aver paura di nessuno. Ma non è che poi siete voi che, quando qualcuno vi dice queste cose, invece di difendervi vi nascondete sotto terra per la vergogna?»
Ma no, dai! Vedrai che ce la farai… è quel che mi dico quando tiro via dritta in silenzio.
Sì, certo, invece di affrontare la situazione di petto come farebbero le donne che non hanno paura, anch’io ho cominciato a pensare  che sono debole e sarò sottomessa. Ho visto donne che venivano picchiate e pestate per strada per aver alzato la voce contro uno di questi “uomini”.
Qualche settimana fa, il programma televisivo arabo “Alhayat alyoum”, ha ospitato la psichiatra Manal Omar. «È  un problema sociale grave, dice la dottoressa Omar. Il maschio dubita della sua virilità se non è in grado di creare o di mantenere una famiglia senza l’auto dei genitori. Nella congiuntura economica attuale, piuttosto negativa, la virilità si ostenta e si esercita in epoca precoce mettendo in imbarazzo una ragazza per riacquistare fiducia in se stesso, esibendo le sue parti intime o dicendole cose volgari, spaventandola e facendola piangere, per riuscire a dimostrare a se stesso di essere maschio e superiore».
Certo, l’Egitto non è tutto qui, gli egiziani sono un popolo mite, gentile, ma le donne sono relegate in un margine che per me è troppo scomodo e la rabbia mi fa ingigantire i lati negativi. Mi piaceva sentirmi turista in Egitto, ma è davvero dura vivere ogni giorno in un paese che vieta alle donne di essere libere, di essere persone con sentimenti e dignità, prima di essere donne. “Che miracolo aspetti che ti cada sulla testa?”  mi dico. “Come faccio a risolvere un problema così grande da sola?” mi chiedo. Adesso ci sono dentro e bisogna pensare a una soluzione.
Con l’auricolare all’orecchio, con Antonello Venditti che canta, d’istinto comincio a cantare pure io.
“Cairo, Cairo, Cairo, core di sta città, unico grande guaio, de tanta e tanta gente che fai sospiraaa. Cairo, Cairo bella, lasace gridaaa, da sta piazza nasce un coro son centomila voci, che hai fatto innamoraaa… Cairo Cairo mia, nun te la squagliaaa, tu sei nata nostraaa e nostra hai da restaaa..”
Libera di essere, libera di vivere, pensava una bambina piena di sogni e speranze; speranze fatali per il futuro di una ragazza orientale.