Appartenere a me stessa Sconfini
Scritto da Segreteria il 23 Gennaio 2024
Il concetto di identità rimanda a un io fisso, che si potrebbe anche spezzare. Meglio pensare in termini di soggettività, come suggerisce Traudel Sattler (della Libreria delle Donne di Milano), fedele a sé in uno scambio attivo con l’altra e l’altro, che dà vita a un dialogo tra generazioni e modi di vita diversi. Storie di donne lontane e vicine che attraversano il dipanarsi di vite in movimento, eppure solide, in cerca di uno spazio autentico dove esprimere la propria differenza. Per potersi, sconfinando, reinventare.
APPARTENERE A ME STESSA
di Laura Andrés Serpi [Spagna]
Sono nata nel settembre del 1994 a Cagliari da padre spagnolo e madre italiana. Il problema della mia identità si presentò fin dalla nascita, in particolare nel momento in cui i miei genitori dovettero registrare il mio nome in Comune. Seguendo la legge italiana di quel periodo mi venne dato il doppio cognome di mio padre. In Spagna, infatti, le persone normalmente hanno due cognomi, il primo cognome del padre e il primo cognome della madre. Avere solo il cognome di mio padre però mi rendeva di fatto, agli occhi della burocrazia spagnola, sua sorella. Questo rappresentava una complicazione non da poco nel caso avessi voluto mantenere la doppia nazionalità.
Fu finalmente durante il periodo delle elementari che i miei genitori riuscirono a risolvere la questione e cambiare il mio cognome seguendo l’usanza spagnola. Potei così finalmente essere in regola e appropriarmi legalmente delle mie due metà. Allora ero troppo giovane per capire cosa volesse dire essere formata da queste due diverse parti di me. Nella mia saggezza infantile sapevo con certezza che io ero io ovunque andassi e qualunque lingua parlassi. La parola “straniera” e ciò che essa racchiudeva mi erano ancora sconosciuti.
Nonostante la risoluzione di questo iniziale intoppo burocratico, appartenere di base a due mondi diversi significò con il tempo dover fare i conti con un’identità sfumata che poco aveva a che fare con i confini delineati dall’uomo. Alle mie origini dettate dai miei due paesi di appartenenza si aggiunse inoltre l’esperienza dei vari trasferimenti in altri paesi. Subito dopo la mia nascita andammo infatti a vivere in Argentina, dove frequentai una delle scuole italiane a Buenos Aires. Lì erano molti i bambini come me, figli di immigrati italiani, figli di coppie miste, figli di un ambiente in cui si passava con velocità e naturalezza dall’italiano allo spagnolo fino a creare una lingua e una cultura tutte nostre. La mia infanzia a Buenos Aires fu felice nonostante le difficoltà familiari legate a un trasferimento oltreoceano e in un altro emisfero rispetto all’Italia.
Ricordo che la prima volta che mi sentii straniera fu quando dovemmo lasciare l’Argentina per andare in Spagna. Arrivata nella scuola italiana di Madrid mi stupii del fatto che i bambini non mi capissero. Parlavo spagnolo come loro, eppure la variante argentina che avevo imparato a Buenos Aires faceva sì che molto spesso mi venisse chiesto di ripetere quello che dicevo. Inoltre, i modi amorevoli delle mie maestre argentine vennero scambiati all’improvviso per il fare burbero e diretto degli spagnoli e soprattutto dei madrileni. La cosa che più mi destabilizzò fu il fatto che, anche se mio padre era spagnolo, io non riuscissi a riconoscere nessuno dei modi di fare nelle persone di quello che era alla fine anche il mio paese. Questo primo sradicamento non fu una passeggiata per quella me bambina. Mia madre mi raccontò una volta che all’inizio del periodo a Madrid mi ammalai. Coloro che non hanno mai cambiato paese non potranno mai capire quanta energia e quanti sforzi richiedano questi grandi cambiamenti, soprattutto per i bambini.
Durante gli anni seguenti mi trasferii diverse volte con la mia famiglia. Tornammo per un periodo in Italia, poi di nuovo in Spagna dove rimasi per un periodo di ben nove anni. Non ero mai vissuta così a lungo in un posto. La Spagna fece da sfondo ad alcuni degli anni più importanti della mia formazione e della mia crescita. Terminai lì le elementari e finii persino le medie e il primo anno di liceo. Mi feci diversi gruppi di amici stretti, sia dentro che fuori scuola. Mi riconciliai con la mia parte spagnola e Madrid divenne casa.
Madrid era tutto per me. E fu proprio perché tutta la mia vita finì per appartenere a questa città che, quando arrivò il momento di lasciarla per tornare di nuovo in Italia, dire che sentii di morire nel profondo non è sufficiente per descrivere quello che provai.
Salii sull’aereo diretto nuovamente a Cagliari come se mi stessi dirigendo verso il patibolo. La notte prima pensieri terribili sul volo di rientro affollarono la mia mente, preparando la mia anima per quello che forse è stato uno dei traumi irrisolti più importanti della mia vita e che ha dato origine alla paura di volare che ancora adesso mi accompagna. L’aereo diventò, dall’oggi al domani, il simbolo di un trasferimento forzato, del dire addio a quella che era casa mia, l’incarnazione del dolore di un lutto che è l’allontanarsi contro la propria volontà dal luogo a cui si appartiene. Avevo solo quindici anni.
Al dolore personale e la mancanza continua che provavo della mia vita passata si aggiunsero presto le difficoltà del rientro in Italia. Mi ritrovai di nuovo in un luogo che conoscevo ma che da un certo punto di vista mi era anche estraneo. L’esistenza e l’uso delle marche da bollo fu per un lungo periodo un mistero della fede per me. Ricordo che non riuscivo a capire dove si comprassero e a cosa servissero. Non riuscivo neanche a cogliere le battute in sardo perché non parlavo la lingua. In più, presto mi resi conto che anche io ero estranea alle persone del luogo. Alcune professoresse della prima liceo che frequentai non mancarono di sottolineare con un pizzico di cattiveria il fatto che io ero diversa “perché avevo studiato in Spagna”. La maggior parte dei miei compagni non si avvicinò a me per mesi. Ero italiana, ero sarda, ma evidentemente non abbastanza. Mi sentivo di nuovo straniera.
Con il tempo la situazione migliorò. Cambiai liceo e trovai delle persone che senza neanche conoscermi mi tesero la mano. La sezione dove andai era una sezione particolare poiché si studiava la lingua, la storia e la letteratura spagnole. I miei compagni parlavano spagnolo ed erano tutti stati in Spagna. Con loro non dovetti rinnegare nessuna delle componenti della mia identità. Non dovetti spiegare niente. È in parte grazie a loro e alla mia famiglia che mi sostenne in questa decisione di cambiare scuola che trovai un luogo in cui potei semplicemente essere. Sono state la conoscenza e l’accettazione da parte degli altri che mi dimostrarono, in quel periodo così difficile, che si può appartenere più volte a più luoghi.
Le esperienze e i cambiamenti che ho vissuto crescendo hanno segnato la mia personalità e le mie scelte di vita in età adulta. Nonostante la paura dell’aereo che mi è rimasta e che a volte si accresce, ho avuto più volte bisogno di partire, di ritrovarmi altrove, di esistere senza fare il funambolo tra le mie due culture con cui ho spesso litigato e ho dovuto riappacificarmi. Ho vissuto negli Stati Uniti, in Corea del Sud, in Inghilterra, in Olanda, e di nuovo in Spagna, e da ognuno di questi posti ho portato via qualcosa di prezioso con me. Ho incontrato persone che hanno fatto un percorso di vita simile al mio e che mi hanno fatto sentire capita. Ho studiato relazioni internazionali, io che nelle relazioni internazionali ci sono praticamente nata. Non è stato facile. Ho fatto delle scelte che mi hanno spinto a scontrarmi più volte con i miei traumi, a mettere spesso in discussione la mia identità, a fare i conti con cosa vuol dire sentirsi o essere additata come l’Altro. Tra un’esperienza all’estero e l’altra ho anche avuto bisogno di tornare. Cagliari è diventata il mio punto di riferimento e il luogo dove dopo mille peripezie la notte ho potuto dormire tranquilla nonostante l’amore-odio che provo verso questa città.
Adesso ho ventisette anni e ogni giorno cerco di cullare questo mio essere che è fatto di tante parti che a volte si contraddicono, mi tirano in diverse direzioni ma, malgrado gli alti e bassi, finiscono sempre per amalgamarsi insieme rendendomi completa e incredibilmente unica. Ho fatto pace con il sentirmi straniera e non m’importa più di come mi vogliono categorizzare gli altri. Non ho bisogno di adattarmi né a convinzioni e paure subdole che scaturiscono dall’ignoranza, né alla necessità di molti di stabilire divisioni nette a livello sociale che poco hanno a che vedere con la diversità della vita reale. Ho così potuto smettere di cadere nel tranello fittizio del dover scegliere tra le diverse fette della mia anima.
Ma la cosa più importante è che finalmente ho accettato che va bene sentirmi straniera in quei momenti in cui mi manca poter stare con i miei amici internazionali, mangiare cibo coreano, o andare in bicicletta per i parchi di Amsterdam. Va bene anche quando mi innervosisco per colpa della lentezza della burocrazia italiana o non sopporto il forte senso del politicamente scorretto degli spagnoli. Mi sento fortunata tutte le volte che riesco anche a trovare nello sguardo dei miei cari, nel rumore delle onde del mare sardo, nella metropolitana di Madrid, o persino in un film o in un libro dei momenti in cui sono presente e mi sento radicata. Più di tutto sono felice di aver capito che, in fin dei conti, male che vada potrò sempre appartenere a me stessa come essere umano. In fondo tutti i luoghi e le persone importanti della mia vita, quegli stessi luoghi e quelle stesse persone che spesso mi hanno offerto accoglienza e amore quando ne avevo bisogno, saranno sempre dentro di me, ovunque io vada.
Il racconto Appartenere a me stessa è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventitré. Racconti di donne non più straniere in Italia (Edizioni SEB27).
La fotografia Angolo lettura al mare è di Manijeh Moshtagh Khorasani [Iran] ed è stata selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XVIII edizione del Concorso Lingua Madre.