Intervista a Elena Pulcini
Scritto da Segreteria il 14 Febbraio 2011
Si è concluso sabato 12 febbraio il Convegno WWW. World Wide Women – Globalizzazione, generi, linguaggi, organizzato dal Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne, che proprio quest’anno festeggia il suo ventennale. Obiettivo del Convegno, spiega Carmen Belloni, attuale Presidente del CIRSDe, è stato quello di “creare reti, stabilire contatti tra studiose e studiosi, tra centri di ricerca, nuovi legami per sodalizi di studio”. Occasione importante dunque per portare la testimonianza del blog del Concorso Lingua Madre, spazio libero di espressione e relazione tra donne, contenitore di idee, progetti e proposte, ma anche luogo di sperimentazione e contaminazione, luogo per sovvertire le gerarchie e superare l’idea di un’identità chiusa e stabile, in prospettiva di una nuova soggettività, molteplice, aperta all’alterità.
Ad aprire i lavori, l’intervento di Elena Pulcini, docente di Filosofia sociale all’Università di Firenze. La studiosa ha posto l’attenzione su alcuni punti nodali di quel processo, assai complesso e articolato, che chiamiamo globalizzazione, a partire dal concetto di differenza, centrale, ha spiegato Pulcini per affrontare la contemporaneità e per ripensare il nesso tra identità e comunità in età globale. Su questo tema, la studiosa ha rilasciato un’intervista per il sito del Concorso, che vi proponiamo di seguito.
Solo rimettendo in gioco il termine “differenza”, già parola chiave di molti movimenti nati tra gli anni sessanta e settanta – come il movimento femminista, quello omosessuale e quello di lotta di liberazione anticoloniale – afferma la studiosa, è possibile acquisire un’ottica nuova sul diverso e far saltare i meccanismi tradizionali di espulsione/omologazione dell’altro. Riconoscere la differenza significa prima di tutto mettere in gioco la propria identità, esporla alla relazione, al contagio con l’altro. L’altro che in età globale, assume i contorni dello straniero, o meglio, per dirla con Simmel dello «straniero interno», “colui che viene per restare” e che non si può né espellere né assimilare, in quanto deciso a resistere con la propria cultura e tradizione identitaria, né espellere in quell’ “altrove” separato e rassicurante tipico dello Stato nazionale e scomparso inevitabilmente in età globale proprio a causa dell’indebolimento dei confini. Da qui – spiega ancora la prof.ssa Pulcini – nasce l’urgenza di fare i conti con il fattore “perturbante” della differenza, dunque con la paura che l’altro provoca. Riattivare la paura e quindi assumere la complessità delle cose e delle emozioni, significa accedere alla consapevolezza di una condizione di vulnerabilità del soggetto all’altro, della fragilità umana e dell’interdipendenza dei destini e delle vite degli uomini. Significa esporsi consapevolmente al rischio dell’incontro con l’altro e alla contaminazione, intesa non come meticciato – prospettiva che rischia di tendere verso l’indifferenziazione – ma come co-esistenza di una pluralità di individui in relazione. Tale convivenza non può prescindere da un reciproco riconoscimento, dalla disponibilità di contagio con l’alterità, né dall’inquietudine e dal turbamento che l’altro provoca. Attraverso la valorizzazione dei fondamenti in negativo della vulnerabilità e della contaminazione – vere e proprie risorse etiche per il futuro – dunque, è possibile trovare delle alternative, delle chances per riconoscersi come soggetti interdipendenti e dunque responsabili. Di qui la necessità di ri-pensare anche il concetto stesso di responsabilità, termine che rischia di rimandare a un ideale astratto e puramente di principio. Essere responsabili dunque non solo nel senso di pre-occuparsi per qualcuno, ma soprattutto come occuparsi di qualcuno, prenderlo in cura.
Il termine “cura”, infatti, nel coniugare nella sua stessa etimologia il doppio significato di apprensione e sollecitudine, pone l’accento su un impegno attivo, concreto dell’agire. Un impegno che non può più essere demandato solo alla sfera femminile, relegato nel privato, ma farsi pratica politica. Liberare il concetto di cura da ogni dimensione sacrificale e assistenzialistica, infrangere il confine tra pubblico e privato, infatti, significa restituire un respiro universalistico al bisogno di cura che lega gli esseri umani, chiamandoci tutti ad interagire responsabilmente, non come atto prettamente altruistico – cosa che presupporrebbe l’esistenza di un soggetto libero e sovrano, dall’identità chiusa e stabile – ma come atto consapevole di soggetti che riconoscono il carattere contingente e relativo della propria identità. In questo processo, le donne assumono certamente un ruolo fondamentale, in quanto coscienti del valore della relazionalità: per questo esse devono diventare delle Cassandre, esplicitando i pericoli insiti nelle minacce globali. Solo riconoscendosi essenzialmente vincolati, co-responsabili, conclude Elena Pulcini, potremo vincere la sfida della contemporaneità e gettare le basi per il futuro, facendoci carico non solo dell’altro, ma anche del mondo. Un mondo unito ma non unico, interrelato ma non omologato, comune ma non indifferenziato. Queste le premesse indispensabili per aprire inediti orizzonti di possibilità, a salvaguardia della nostra stessa umanità.
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