Una donna italiana Sconfini
Scritto da Segreteria il 17 Marzo 2023
Il concetto di identità rimanda a un io fisso, che si potrebbe anche spezzare. Meglio pensare in termini di soggettività, come suggerisce Traudel Sattler (della Libreria delle Donne di Milano), fedele a sé in uno scambio attivo con l’altra e l’altro, che dà vita a un dialogo tra generazioni e modi di vita diversi. Storie di donne lontane e vicine che attraversano il dipanarsi di vite in movimento, eppure solide, in cerca di uno spazio autentico dove esprimere la propria differenza. Per potersi, sconfinando, reinventare.
UNA DONNA ITALIANA
di Rosa Maria Smiles [Camerun] e Loredana De Vitis [Italia]
Se tuo marito ti chiedesse conto di tutto quello che tocchi nella vostra casa, di quel che prendi dal vostro frigorifero e che è stato pagato coi vostri soldi, di come ti siedi sul vostro divano, di tutte le volte che entri ed esci, delle persone che scegli di incontrare, come reagiresti? È un po’ quel che mi succede nel nostro paese. Qui, in Italia. La rabbia che sento non l’avrei capita se non avessi incontrato Serge. Se non l’avessi incontrato non avrei avuto coscienza di non essere considerata fino in fondo quella che sono: una donna italiana.
Rosa Maria è la donna che ha cambiato il modo in cui mi sento italiana. L’ho conosciuta che aveva due anni, ho il ricordo vivido di una bambina dalla pelle d’ebano e i capelli riccissimi in braccio a una madre dai tratti e i colori nordici. Era arrivata come un dono del cielo in una famiglia italiana, italiana da sempre, ma dal cognome che pare straniero. Una combinazione di combinazioni che, trent’anni fa, soffiò sul fuoco della mia curiosità.
Ho avuto un’infanzia felice, spensierata, trascorsa essenzialmente in famiglia, e fino a dieci, dodici anni, non ho percepito alcuna differenza. Nei disegni dei miei tre anni la mia faccia e il mio corpo erano rosa come quelli dei miei genitori e di mio fratello. Poi ho cominciato a notare i vari “sei negra” e “vucumprà”, ma non capivo quanto potessero essere offensivi. E poco dopo, da adolescente, il mio vedermi e sentirmi diversa: i vestiti nei negozi spesso non erano adatti alla mia fisicità, non trovavo mai il make-up adatto al colore della mia pelle, i capelli erano sottoposti a mille stirature chimiche purché fossero “in ordine”.
I miei ricordi sono di una giovane donna bellissima, con i denti perfetti in una risata aperta, un corpo sinuoso in abiti dai colori scintillanti: blu elettrico, bianco ghiaccio, giallo ocra. Poi è scomparsa, d’un tratto si è praticamente volatilizzata.
Volevo studiare fuori, lontano, per conoscere il mondo, per capire cosa significasse cavarmela da sola. E così, a vent’anni, eccomi a Torino, dove il mio sguardo sul mondo ha cominciato a cambiare. Mi sono accorta che gli “africani” svolgevano anche altri lavori oltre a quelli che ero abituata a vedere, non erano solo ambulanti… o badanti, gli “africani” facevano di tutto, anche i professionisti. E all’università ho conosciuto persone provenienti dai paesi più diversi, tra le quali persone originarie del Camerun: il paese dove sono nata ma del quale, fino a quel momento, non mi era mai venuto in mente di sapere di più. Fino a quel momento ero stata un’italiana come tante: cresciuta in Italia, con l’accento italiano, con una cultura classicamente italiana. E invece, improvvisamente, in modo… naturale, sono diventata un ibrido. Perché da quel momento in poi, agli occhi degli africani sono una bianca e agli occhi degli italiani sono una nera.
Ho visto Rosa Maria saltuariamente negli anni dei suoi studi universitari, quando prendeva il treno per tornare a casa per stare un po’coi suoi, per venire al mare, per rivedere gli amici d’infanzia. Era cresciuta con mio fratello, e la sua famiglia e i miei genitori a un certo punto hanno comprato due case vicine. Anche se non vivevo con loro, da quel momento tra me e lei, oltre a molti anni, hanno cominciato a esserci solo pochi metri. Frequentava Farmacia, questo lo sapevamo tutti, ma la sua vita quotidiana era un mistero.
I primi tempi non è stato facile: incontravo diffidenza se chiedevo in affitto una stanza, mi capitava d’essere seguita nei negozi con fare sospetto, sgradevoli fischi mi disturbavano per strada. Ma è stata anche una fase di entusiasmanti scoperte: la messa cantata della comunità camerunense, i piatti tipici che non avevo mai assaggiato, e poi un inedito interesse per i ragazzi neri. Per alcuni, almeno. È in questo contesto che ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito, in occasione delle celebrazioni studentesche per la festa nazionale del Camerun.
A quel punto Rosa Maria era di nuovo al centro dei discorsi di tutti, con quell’altra magia che era stata capace di attrarre su di sé. Aveva cominciato a frequentare un ragazzo camerunense, un ingegnere bello e bravo, tifoso dell’Inter ma soprattutto cresciuto proprio a due passi dal luogo dove lei era nata. Quante possibilità al mondo potevano esserci che capitasse una cosa del genere? Com’era stato possibile?
Non lo so, non lo so. So solo che finalmente avevo conosciuto qualcuno che era la sintesi di quel che cercavo: un ragazzo nero con una mentalità europea. Con lui potevo parlare di ciò che avevo voglia di conoscere, potevo condividere progetti e ambizioni, con lui ho capito presto che potevo vivere come volevo. Mi ha colpito subito la sua tenacia. Studiava e lavorava per aiutare i suoi genitori a tirar su i tre fratelli, mi raccontava delle loro usanze, delle difficoltà. A me, nata a una manciata di chilometri da lui ma perfettamente, completamente italiana. Mi ha appoggiata senza indugi quando sono voluta andare in Francia per l’Erasmus, a cercare un altro pezzetto di me. È stato lì che per la prima volta non ho avuto paura di mostrare i capelli.
Niente più lisciature, niente più chimica, niente più piastre, nessuno che ti dice che sembri in disordine. Rosa Maria chiama il suo ragazzo e dice: «Ho deciso per un big chop, lascerò crescere i miei capelli come sono, naturali». E comincia dalla fronte, per non cambiare idea. E comincia a imparare anche il francese, che da lì a pochi anni avrebbe usato anche in Camerun, quando va a conoscere la famiglia del suo futuro marito. Rosa Maria e Serge si sono sposati a Lecce. Lei con un abito ampio, suo padre commosso che diceva: «Tutti i figli sono speciali, ma lei è stata un dono un po’ più speciale». Lui sorridente, i suoi fratelli e sua madre vestiti di fulgida eleganza. Le foto tra gli oleandri, il ritmo della makossa, gli antipasti all’italiana e i narghilè. Io li guardavo ammirata e commossa.
Siamo andati a vivere a Milano, dove non abbiamo gli occhi addosso se prendiamo un aperitivo in un bar. E io lavoro in una multinazionale, dove i dipendenti sono formati al rispetto d’ogni razza, sesso, religione. Ma c’è ancora qualcosa che non va. C’è qualcosa che manca, non mi sento ancora tranquilla. Sono stata per così tanti anni guardata, notata, che adesso voglio essere ignorata. Lasciata in pace. Rispettata. Ho scoperto con Serge che, anche nei contesti formali, se hai la pelle nera la gente si sente autorizzata a darti del tu. C’è qualcosa che non va, che manca. Penso a come sarà avere figli. Come li tratteranno, come si sentiranno in un paese che tutti i giorni ricorderà loro che hanno qualcosa di diverso. È una battaglia interiore, ho bisogno di normalità.
Rosa Maria è la donna che ha cambiato il modo in cui mi sento italiana. Ho cominciato a pensare che, oltre all’inglese, dovrei imparare meglio il francese, e poi studiare lo swahili, lo yoruba e lo shona e magari l’arabo. E non per curiosità o solidarietà, ma per interesse e per necessità. Perché il luogo dove sono nata non dice chi sono, ma le persone con cui costruisco relazioni significative, quelle lo dicono. Quelle lo costruiscono, lo fanno evolvere, lo rendono complesso e ricco. E i miei limiti, i nostri, e il modo in cui superarli, li posso vedere solo così.
Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemilaventuno – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).