Sconfini

Macedonia di Tangeri, Palermo e Sondrio Sconfini

Scritto da Segreteria il 30 Maggio 2022

Il concetto di identità rimanda a un io fisso, che si potrebbe anche spezzare. Meglio pensare in termini di soggettività, come suggerisce Traudel Sattler (della Libreria delle Donne di Milano), fedele a sé in uno scambio attivo con l’altra e l’altro, che dà vita a un dialogo tra generazioni e modi di vita diversi. Storie di donne lontane e vicine che attraversano il dipanarsi di vite in movimento, eppure solide, in cerca di uno spazio autentico dove esprimere la propria differenza. Per potersi, sconfinando, reinventare.

MACEDONIA DI TANGERI, PALERMO E SONDRIO
di Fedoua El Attari [Marocco]

E come si fa ad essere etere? Quando ti senti figlia di infiniti mondi perché uno soltanto non voglio pensare che esista.
Quando sei figlia di Nord e Sud ma non conosci la bussola che i tuoi stessi avi hanno costruito. Quando essere due, in uno stomaco solo, rende radianti di luce le lucciole che ti chiedono chi sei e da dove vieni.
So che non si inizia una frase con una congiunzione, ma tu accendimi la radio che la lingua italiana è pignola ma clemente. Hai acceso la radio? Oggi ho voglia di musica araba, per sentirmi un po’ più vicina alla terra, che a volte, sai, mi perdo nel cielo.
Poi mettimi in coda “Wish you were here” che mi ricorda il suo vinile. Forse mi annoia o solo mi rattrista respirare troppo Nord e troppo Sud mentre non vediamo che le sfumature di Est ed Ovest fanno meno paura, eppure ci ostiniamo a volerci sentire più alti rispetto agli altri. Perché frontali è più difficile che paralleli. Allora ti mescoli alle spezie che la pelle aspira e provi a colorarne le emozioni, mentre il Mediterraneo canta quando mangi macedonia di Tangeri, Palermo e Sondrio. Sensazione di freschezza estiva e afa invernale dei camini solitari. È questa la sensazione di mappamondo nella pancia che mi rende un po’ mamma e un po’ bambina.
Nell’essere un po’ bambina ho sempre difficoltà a ricordarmi di chiudere la porta di casa.
Del cuore, degli sguardi, della bici, del cancello.
Il verbo cancello non vive per chi crede nelle tende aperte, a tendere sempre le mani. Le immagini da piccola che più mi tengono ancorata alla terra rossa del Marocco, sono le porte aperte delle case nei quartieri mentre i bambini corrono e gridano e giocano. Quasi ne fossero i protettori. Come se ne custodissero i cuori di chi le abita. I tappeti colorati stesi fuori a prendere il sole per coccolare i piedi nudi che ti accolgono a sorseggiare tè alla menta, e montagne di grano su stuoie colorate davanti all’uscio per arrossarsi. Perché il sole è vita esattamente come il Pane.
Mi dimentico di legare la bici, e ogni volta penso che non sia necessario, ma in modo naturale e senza grande preoccupazione.
Eppure, non imparo dal non ritrovarla più all’improvviso pensandola raggiante lì ad aspettarmi per aprirmi alle strade che scorrono e percorrono i miei sogni.
Ho un problema con le chiavi, mi incatenano il respiro prima ancora di prenderle in mano.
E a volte penso che siano lì per proteggermi, per ricordarmi la certezza di ritrovarmi.
So che la Certezza non esiste, che crea illusioni, allusioni, alluvioni.
Dicono che devo imparare a non fidarmi, ma non riesce alla mia natura creare il muro dell’ignoto.

Bici dopo bici, porta dopo porta, e respiro dopo respiro, sorrido al vento che mi sussurra di ascoltare il mio ombelico. Così piccolo e così materno mi suggerisce di fidarmi dell’umano, che nasce buono e poi si perde nelle emozioni dei giorni, ma che poi, di fronte alla morte, l’Umanità lo pervade e diventa sensibile alla bellezza sottile del mondo.
Scrivo per ricordarmi che ho mani sane e mente parlante, forse brillante o solo che brilla.
Per fissare il mio pensiero, perché nello spazio non sa stare.
Non voglio vivere di chiavi perché non ci credo. Mi rinchiudono in una cella di poesie che scrivo per ricordarmi che sto dall’altra parte delle grate.
Ma in fondo, io, da quale parte della porta sto?
Per ora sono in una città che brulica di vite a cui somigliano le mie parvenze. Cinquecentoquattro sono le ore in cui a Torino ho percepito tremolii del mio spirito, che riesco a spiegare solo se condivido.
Tu senti la corrente del fiume che scorre costeggiando i muri della Città Magica?
Quando il Po prova a cantare, stona. Vibra il terreno da renderne infertile l’acqua. I rami si incastrano alle pietre per pietà. Anzi, la pietà si mischia ai rami tra le pietre. La luce prova a dargli forza, ma neanche la Luna riesce a domarlo. Tuona la terra prima del cielo e piange la musica prima delle dita sulle corde.
Lo senti anche tu questo vento ricolmo? Lo senti questo battito senza respiro? Lo senti questo rumore senza suono? Non gioca a nascondino l’aria che ti riveste, piuttosto si diverte a vederti cadere e sentirti viscera primordiale. Senti le tegole dei tetti scricchiolare al calore del sole? Senti la musica da Piazza San Carlo di uomini e donne anziane che in gruppo ballano e ridono alla vita che ancora vedono avanti? Senti le loro risate alzarsi al cielo come richiesta di energia per continuare a stringersi forte? Senti l’aria soffocante del vento inquinato, stanco di respirare polvere di macchine frustrate? Senti la mia forza di volermi innalzare al più alto stato di Completezza?
È che le domande richiedono coraggio e le risposte richiedono pazienza.
E Torino mia, sei forte, immensa e canteranno sempre tutti per te elogiandoti, per ogni tua viuzza, per ogni tua ferita. Solo tu, Augusta Taurinorum, vestita di semi di cumino che ogni giorno annuso, conosci i segreti dei cuori che ti abitano. Solo Tu.
E grazie di accogliermi sempre nel tuo grembo.

 

Il racconto Macedonia di Tangeri, Palermo e Sondrio di Fedoua El Attari è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventi – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)

Illustrazione tratta dalla fotografia “Oltre il Colosseo” di Mariëlle Van der Marel, selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XI Edizione del Concorso Lingua Madre.