It-Aliena Sconfini
Scritto da Segreteria il 13 Aprile 2022
Il concetto di identità rimanda a un io fisso, che si potrebbe anche spezzare. Meglio pensare in termini di soggettività, come suggerisce Traudel Sattler (della Libreria delle Donne di Milano), fedele a sé in uno scambio attivo con l’altra e l’altro, che dà vita a un dialogo tra generazioni e modi di vita diversi. Storie di donne lontane e vicine che attraversano il dipanarsi di vite in movimento, eppure solide, in cerca di uno spazio autentico dove esprimere la propria differenza. Per potersi, sconfinando, reinventare.
IT-ALIENA, IDENTITÀ IN BILICO
di Chiamaka Sandra Madu [Nigeria]
Mi chiamo Chiamaka Sandra Madu e vivo una doppia estraneità: non sono né carne né pesce. A volte mi piace fare dell’autoironia per sanare le mie ferite. Come se il ridere per lo stesso motivo potesse avvicinare le persone e renderle uguali. Probabilmente, oggi, piuttosto che creare legami sociali basandosi sulle similitudini fra i condividui si è prediletto l’individuo e i suoi tornaconti personali che permettono di accelerare il mercato.
Sono nata in un paese che non ho mai visto, col sole radiante che risplendeva, il calore ardente che mi riscaldava come per dare l’avvio alla fotosintesi clorofilliana. A pochi mesi da quando mi fu donata la vita, fui strappata via dalle mie radici e portata in Italia dai miei genitori che avevano deciso di immigrarci. Ora qui i miei piedi non smettono mai di sanguinare, ho una ferita che a volte si cicatrizza ma poi ogni tanto si riapre e questo mi impedisce di germogliare.
«Amore mio come va all’università? Che lavoro vorresti fare dopo?» mi domandarono i miei genitori con gli occhi tristi di coloro che hanno dato via la vita, ma felici perché lo hanno fatto per donarne una a me.
«Non lo so mami e papi, un lavoro che mi permetta di aiutarvi».
È come se il dono che ho ricevuto debba essere ricambiato, mi sento come responsabile di tutto ciò che hanno passato quei due, con un cuore grande, gli occhi lungimiranti e la felicità che qui non hanno mai trovato. Sono nata in Nigeria e cresciuta in Italia, paese in cui vivo, dove ho frequentato le scuole primarie, secondarie fino all’attuale università. Nonostante la mia prima lingua sia l’italiano e condivida pienamente tutti i costumi e le abitudini dei miei coetanei, le persone in generale mi identificano solo come un’africana/nigeriana, inoltre anche i miei documenti sono africani, quindi anche per lo Stato non sono italiana.
«A proposito amore, ti vuole salutare la nonna, ti passo il cellulare?»
«Certo mami, è da un po’ che non sento la sua voce». Le risposi afferrando il cellulare già passato di moda.
«Ciao nonna come stai?» le chiesi in inglese.
«Sto bene e tu “italianella” mia?» mi rispose in Igbo, la sua lingua madre.
«Non c’è male».
Il paradosso più bizzarro è che neanche i connazionali della Nigeria mi considerano nigeriana nonostante i miei documenti lo dimostrino, perché io non parlo la loro lingua, non conosco bene le loro tradizioni, la loro cultura e il loro stile di vita. Mi identificano quindi come un’italiana. Il dramma esistenziale è che sono un’estranea ovunque mi trovi, per le persone sono sempre qualcos’altro.
Non sono né carne né pesce, forse sono una verdura. A volte mi piace fare dell’autoironia per sanare le mie ferite.
Sono nata profondamente spezzata a metà. Sono come una pianta in fase di crescita che, strappata e piantata nuovamente, ricrea le sue radici. È come se con le parole della gente venissi ogni volta isolata dal mio terreno, l’Italia, causando la riapertura della ferita che dopo vari anni in questo paese si era cicatrizzata. Il malessere dell’esistere per gli altri solo a metà invade la mia sfera corporea e la mia interiorità più profonda. Non sono all’altezza di questa realtà che ho scelto ma che non mi sceglie. Forse non sono abbastanza? Sono forse sbagliata? Vorrei tanto crescere nel mio terreno senza sanguinare e abbracciare la mia identità culturale. Le mie vecchie radici nigeriane sono ancora lì, mie, nel mio paese d’origine, protette da ogni diluvio e da ogni siccità.
In realtà sono anche arrabbiata con me stessa, ho un forte senso di colpa per essere in uno stato di squilibrio. Spesso infatti mi colpevolizzo per l’estrema durata di questa mia fase liminale.
Poi mi allontanai da mia mamma dopo averle ridato il cellulare e camminando a capo chino dissi a me stessa: “Non essere arrabbiata”, con un filo di voce e con un ritmo veloce, “non essere arrabbiata” scuotendo la testa e lasciando calare delle lacrime calde piene di rabbia. “È colpa loro. Sono cattivi” mi ripetei muovendo solo il labiale, con un leggero pianto ed un singhiozzo. “Le persone intorno a me credono che resterò qui come una bambina e che non mi trasformerò mai in un lupo mannaro. Cattivi” mi dissi in un urlo psicopatico e muovendo le mani istericamente. «Cattivi». Mi misi a correre e iniziai a sentire il mio cuore che batteva forte, all’impazzata. «Dove sta il limite nella ricchezza? Italiani aiutatemi. Lucia o Marianna, aiutatemi voi. Mi sentite? Aiutatemi voi, dite qualcosa» dissi piangendo un fiume fantasma che nessuno riusciva a vedere. Mi sentivo come un vulcano estinto, inutile, insensato come il Salina che attende da migliaia di anni di eruttare. Mi sentivo vuota, povera, come d’altronde lo sono sempre stata. Alla povertà di averi si era soltanto aggiunta la povertà di identità. Ero povera di troppo, io che non vedevo l’ora di arricchirmi.
Non posso non volermi bene, non è possibile per me. La rabbia non mi porterà da nessuna parte. Continuerò a sognare la mia patria della testa, il mio angolo in questa terra. Ai miei fratelli meticciati, a quelle persone che si sono trovate nella condizione di dover oltrepassare, per scelta o per gli eventi, il confine tra geografie differenti, vorrei dire di fare del loro sogno la loro forza, di portare in alto il loro orgoglio.
Sentii dei passi fitti verso di me, per un momento credetti che fosse la mia ombra che mi inseguisse per strozzare i miei sensi di colpa. Era mia madre.
«Amore cos’hai? Ritrova te stessa. Se sei felice te, lo siamo anche noi», mi sussurrò con quel suo solito sorriso che mi riscalda il cuore. La mia anima si calmò e le mie lacrime si fecero più fredde e leggere.
«Grazie mami per avermi donato la vita. Io non vi deluderò mai. L’iddio non ci deluderà mai: il nostro rifugio e la nostra fortezza».
«Sii orgogliosa di ciò che sei, tu sei il meglio dell’Italia ed il meglio della Nigeria» mi disse.
So er mejo regà! Ho trovato cosa sono. A volte mi piace fare dell’autoironia per sanare le mie ferite.
Sono un romanzo di formazione: ho compiuto una sorta di evoluzione dalla fase iniziale di spaesamento ed estraneità fino alla quasi maturazione della mia identità. Prima di essere italiana o nigeriana, io mi chiamo Madu, un nome che sembra non aver significato per le orecchie altrui, ma che letteralmente si traduce in “essere umano”. Dopo un percorso giurassico, ho ritrovato un ordine, un’identità nel mio nome, in me stessa. Sono prima di tutto un essere umano e non farò più dipendere il mio benessere dalla capacità di accoglienza degli altri, ma accoglierò me stessa: una scelta apolitica, squisitamente etica.
«La mia appartenenza affonda le sue radici nel mio mondo interiore che, sebbene spesso inquieto e in bilico, è sufficiente» mi disse mia madre di ripetere ad alta voce.
«La mia appartenenza affonda le radici nel mio mondo interiore che, sebbene spesso inquieto e in bilico, è sufficiente» ripetei a me stessa come il Padre Nostro, sforzandomi di ricordare tutte le parole. Poi mi venne in mente la poesia che dedicai a Giovanni Pascoli, La patria di Sandra, che recita:
Caro Giovanni,
Voi, col magone,
Sognaste la vostra
Cara patria
D’infanzia, idilliaca,
Il giorno d’estate
In cui palpitava d’amore
La trebbiatrice
Come il vostro cuore,
Ed io, caro Giovanni,
In bilico, sogno
Una mia
Patria della testa,
Mia e solo mia,
A cui appartenere,
Né la patria del
Mio primo respiro,
Né la patria del
Mio arrivo.
Caro Giovanni,
Tenetemi la mano,
Se insieme capovolti
Camminiamo,
In basso vi è
L’infinito cielo
Come abisso,
Lo so, caro Giovanni,
Disincantati
Siamo spaesati,
Stranieri estranei,
Forestieri esuli,
Apolidi alienati,
I nostri sono
I pianti e
I capi chini
Di coloro che
Da ciò che li circonda
Non sono
Riconosciuti.
Il mio è un costante percorso non ancora finito. Tra molti anni rileggerò questo racconto e vedrò la mia evoluzione. Ora mi definirei figlia del tempo e dello spazio, per natura un superamento dell’identità nazionale. Io credo che sia il fattore di circostanza a definire ciò che si è. Viene automatico domandarsi quale sia il cortocircuito che bisogna mettere in discussione per facilitare il processo costruttivo delle identità dei meticciati. In questa prospettiva, l’obbiettivo comune è di creare nuovi modelli di convivenza, lavorando sulla formazione di persone, affinché possano comprendere la complessa articolazione del processo costruttivo delle identità dei migranti e delle società di accoglienza, dilatato nel tempo e declinato nello spazio.
Nonostante io sia un ottimo esempio dell’emarginazione, dell’alienazione e del disincanto, mi piace fare dell’autoironia per sanare le mie ferite e oggi i miei piedi non sanguinano; spero che la cicatrice non si riapra.
Il racconto IT-Aliena, identità in bilico di Chiamaka Sandra Madu è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventi – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)