Per amore Quante storie!
Scritto da Segreteria il 15 Dicembre 2021
Dai racconti delle autrici CLM più fiabeschi e fantastici, una serie di letture pensate per le/i giovani lettrici/lettori.
Eliška Gambino [Repubblica Ceca]
PER AMORE
«E tu, perché sei venuta in Italia?». Una domanda banale, trita e ritrita, quasi pro forma. Quando senti un po’ di accento o ti capita di leggere un nome esotico, viene spontanea, in automatico, tanto per parlare, perché dentro di te credi di sapere già.
Infatti, se ti rispondo «per amore», cadi subito vittima di uno schema mentale obsoleto. Come darti torto, le storie di bionde turiste straniere invaghitesi durante le vacanze estive di un bel picciotto mediterraneo dagli occhi scuri come la pece per poi finire, dopo settimane di messaggi strappalacrime e voli low cost un mese sì e l’altro pure, con i fiori d’arancio e un pupo in arrivo, sono ormai leggendarie. Così come quelle delle ragazze provenienti dalle parti del mondo meno fortunate che accettano la proposta del primo scapolo di turno, bruttino ma timidamente galante, che paga loro qualche cena, perché in fin dei conti è sempre meglio che faticare per due dollari al giorno in una fabbrica fatiscente oppure farsi picchiare da un compagno perennemente ubriaco.
Il mondo però non è bianco e nero.
La mano che stringe la mia, nonostante la pioggia gelida che continua a scendere, è calda e asciutta come sempre. Sembrano ore che camminiamo. Non ce la faccio più, ho fame, sete, sotto il poncho impermeabile e il maglione di lana si creano nuvolette di vapore dal mio stesso sudore. «Mamma, quando arriviamo? È ancora lontano?», chiedo ogni due minuti. Accigliata sotto il cappuccio del suo giubbotto pesante, nemmeno mi degna di una risposta.
È stata una bella gita, quella di oggi, una lunga passeggiata tra i boschi per vedere il famoso abisso di Macocha e poi un’escursione nelle grotte piene di bianchissime stalattiti e stalagmiti calcaree a bordo di una barca che navigava sul fiume sotterraneo! Peccato che al ritorno ci sia qualche chilometro da fare a piedi per raggiungere la stazione. E che nel frattempo si sia messo a piovere a dirotto.
Finalmente si scorge un grigio edificio a forma di scatola con un ampio parcheggio davanti. Mamma scorre con un’occhiata interrogativa il piazzale deserto. Poi si rivolge con un briciolo d’incertezza nella voce a mio padre: «Chiedi un po’ alla cassa a che ora parte il pullman, qui non vedo un’anima». Papà torna sconsolato: «È partito dieci minuti fa, il prossimo arriva alle nove e mezzo di sera». Da mettersi le mani nei capelli. Comincia a calare il buio ma la pioggiamaledetta non cede un istante. Il bar è chiuso, i bagni pure. Io e mia sorella saremo anche brave e buone ma siamo pur sempre solo due bimbe di quattro e sei anni e l’esasperazione della situazione insieme alla stanchezza cominciano a pesare facendoci piagnucolare. I grandi valutano sottovoce le soluzioni che però a vedere le loro facce tese sembrano tutte piuttosto impraticabili.
Poi, come d’incanto, due coni di luce gialla tagliano la nebbia e il rombo di un motore copre di colpo il fruscio della pioggia. Un pullman! Appostato vicino al recinto, spento e taciturno come un grosso animale dormiente, passava quasi inosservato nelle lunghe ombre serali. Corriamo. Vedo papà che parla con l’autista, gesticola… Ancora non saliamo, c’è qualche problema. Intanto mi guardo intorno. Già la targa è un po’ strana, anzi, tutto il pullman è diverso dal solito: la fiancata scintillante, il tappetino morbido steso sui gradini tondeggianti, il profumo che arriva dall’interno. Sono stranieri. Da queste parti, in Cecoslovacchia sotto il regime comunista, una specie di miraggio. Gli è concesso di venire perché portano la moneta forte e spendono tanto ma alla fine solo pochi hanno il coraggio di avventurarsi nel territorio dietro la Cortina di ferro di cui facciamo parte. Come dargli torto? Andare in vacanza in un posto dove la gente locale ti evita per non rischiare i guai con la polizia segreta non deve essere proprio piacevole.
«Taloši», dice mia madre sottovoce in dialetto. Italiani. Non so che significa ma mi basta che ci facciano entrare al riparo dall’acqua. Ci accovacciamo sugli scalini dietro il grosso zaino di papà, finalmente sedute. Cerco di togliermi l’impermeabile ma nello spazio stretto finisco per rimanere impigliata. L’agitarsi della mia manina attira però l’attenzione dei passeggeri.
«Mario, hanno pure dei bambini, liberiamogli qualche posto, dai!», esclama una voce femminile. Prima che possa rendermi conto che succede, mi ritrovo sulle ginocchia di una signora con i boccoli castani e grossi orecchini d’oro che mi sorride. «Che bella bambina, come ti chiami, tesoro?». Non capisco una sola parola ma il tono è rassicurante, ricambio il sorriso mostrando con orgoglio lo spazio lasciato da un dentino da latte perso ieri mattina. L’anziana sul sedile di fianco tira fuori dalla borsa un sacchetto con le caramelle in carta stagnola colorata e me lo porge per offrirmele. Normalmente avrei rifiutato educatamente perché i miei mi hanno insegnato a non accettare nulla dagli estranei ma forse oggi, considerando le condizioni particolari, si può. Ne scelgo una celeste. La metto in bocca, ma invece della dolcezza zuccherina un forte sapore di menta mi brucia la gola: “Brr, sembra un dentifricio”, tossisco. Le signore scoppiano a ridere. «Dai, prendi questa rossa che è alla fragola». Intanto i miei cercano di spiegare all’autista l’accaduto. Non è facile, ma con qualche parola di tedesco e le capacità mimiche di entrambi ci si capisce. La fortuna è tornata dalla nostra parte, il pullman deve prendere l’autostrada proprio in direzione della città dove abitiamo.
E non solo: la giovane guida consulta insieme alla comitiva le carte stradali e viene deciso all’unisono che quei pochi chilometri in più non avrebbero stravolto il programma della loro giornata: ci accompagneranno fino a casa. Stentiamo a credere alla magnanimità di queste persone del tutto sconosciute. Papà che è un comico nato imita una specie di riverenza per ringraziare. Grosso, goffo e baffuto, sembra un orso che balla, il che scaturisce inevitabilmente l’ilarità tra i nostri nuovi amici. La simpatia è reciproca, nonostante la barriera linguistica si comincia a chiacchierare e scherzare. Così il viaggio passa in fretta e in un batter d’occhio arriviamo a destinazione. Tra baci e abbracci scendiamo, l’autista ci saluta con un profondo “Tuuuuu” del clacson che ricorda quello della sirena di una nave, si scorge l’ultimo luccichio della fiancata variopinta e il pullman svanisce nel buio.
Sul marciapiede sotto casa rimango a lungo ferma, come interdetta. Ho le tasche stracolme di caramelle e gli occhi pieni di meraviglia. Nelle orecchie sento ancora la melodia e il ritmo di quella lingua incomprensibile e bellissima come nessun’altra, che mai più smetterò di adorare.
Ne è passata di acqua sotto i ponti in trent’anni: oggi sicuramente più che alla bambina sbalordita assomiglio a quell’elegante signora con i boccoli. Anche se a dire il vero il tempo ha sfumato nella mia memoria i lineamenti del suo viso e non saprei riconoscerla tra la folla. Chissà, magari è addirittura mia vicina di casa oppure la incrocio ogni sabato al mercato? Già, perché anch’io da tempo vivo nel Belpaese. Però lo ammetto, mi piacerebbe molto ritrovarla, anche solo per stringerle la mano e ringraziarla, perché il nostro breve incontro ha segnato per sempre la mia vita, avendo suscitato in me un’infinita curiosità e ammirazione trasformatasi gradualmente in interesse e poi in amore.
Un amore genuino per un popolo che eccelle nella generosità, cordialità e spontaneità, che di fronte alle difficoltà altrui tende sempre una mano, che porta un raggio di sole anche nelle giornate più uggiose. Un amore per l’Italia, la mia seconda patria.
Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemilaventuno – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)