"Orizzonti nuovi da paesaggi antichi" di Ettore Marcello Mafucci I racconti del laboratorio al Liceo Gobetti
Scritto da Segreteria il 26 Maggio 2010
Continuiamo a pubblicare i racconti delle ragazze e dei ragazzi del Liceo Gobetti che hanno partecipato insieme alle loro insegnanti Cristina Bracchi e Patrizia Moretti ai laboratori di narrazione e scrittura organizzati dal Concorso Lingua Madre.
Ecco l’undicesimo racconto:
Orizzonti nuovi da paesaggi antichi
Di Ettore Marcello Mafucci
(Classe I C)
Sanaubar era una ragazza normale; non particolarmente attraente ma nemmeno brutta, di media statura, era solita portare i capelli neri raccolti in una crocchia o sciolti fino alle spalle. I suoi genitori erano riusciti a garantirle un’educazione appena abbozzata; spesso Sanaubar si immaginava da grande come una donna libera, sposata, intelligente e con una bella famiglia.
Tutti questi sogni, però, erano stroncati sul nascere dal semplice fatto che lei era afghana.
Il Paese era stretto nella morse del terrorismo che mieteva vittime innocenti; non solo cittadini afghani ma anche militari occidentali che pattugliavano le strade. Sanaubar si ricorda ancora oggi le emozioni che provava nel vedere quegli uomini con la pelle bianca, la giacca verde e i mitra spianati, che sorvegliavano le strade come sentinelle divine. Provava un certo timore nel vederli ma, allo stesso tempo, ne era affascinata e non poteva fare a meno di fissarli mentre accompagnava la madre al mercato, una volta al mese. Sua madre e suo padre la rimproveravano duramente e le imponevano di non fissarli più: non volevano altri guai, loro!
Sanaubar si stupiva del comportamento dei genitori e, spesso, sognava di andare in occidente dove, si diceva, le cose andassero meglio che nel suo Paese. Il suo era un sogno destinato ad avverarsi. Tutto ebbe luogo in un solo giorno: i Talebani compirono un terrificante attentato, che danneggiò seriamente la guarnigione dell’O.N.U. e uccise molti civili; fu a quel punto che i suoi genitori decisero di mandarla in Italia. Volevano mettere in salvo la loro unica figlia; riuscirono a racimolare abbastanza denaro per un volo fino a Roma.
Così si ritrovò imbarcata su un aereo che l’avrebbe portata in una di quelle nazioni che, da piccola, aveva sempre sognato. Stranamente, però, si sentiva spaventata e con le gambe molli. Allo sbarco la venne a prendere un vecchio amico del padre che era emigrato parecchi anni prima; le avrebbe garantito un lavoro e un luogo dove vivere, almeno temporaneamente. “Muhammar” fu l’unica parola che le rivolse all’aeroporto; era il suo nome, un nome comune che faceva capire le origini libiche.
Era un uomo alto, capelli bruni, carnagione olivastra e l’alito che sapeva di caffè; sebbene pigro e chiuso in se stesso, Sanaubar imparò ad apprezzarlo sin dal primo momento. Era un uomo schietto e gentile, che sapeva quando parlare e quando tacere. Durante il tragitto Sanaubar cercò di parlare e di conoscere meglio il suo benefattore; ma i suoi discorsi le parevano sciocchi e privi di significato. Il colpo di grazia glielo diede Muhammar, scoppiando a ridere ad un suo nuovo tentativo di discorso. Tornato serio si scusò: «Mi dispiace, non volevo imbarazzarti, è che sembri me quando arrivai in Italia: ero confuso e spaesato e mi sentivo inutile; non ti devi preoccupare, questo è un bellissimo Paese che offre molte occasioni e, se non sei eccessivamente credente, riuscirai a sopportare alcuni strambi comportamenti di questo popolo».
Da quel momento l’atmosfera si distese e parlarono per il resto del tragitto, e anche dopo cena, come se si fossero sempre conosciuti. Prima di addormentarsi, coricata sul letto, Sanaubar sorrise e pensò: «Beh almeno non sono sola; è già qualcosa!». Il giorno seguente si svegliò molto presto, intenzionata a visitare Roma.
Uscì di casa e si incamminò per strada. Subito si sentì a disagio: la gente la guardava, alcuni la indicavano e bisbigliavano, altri la ignoravano. All’improvviso il senso di smarrimento tornò ancora più forte e desiderò che il velo fosse ancora più lungo e che le coprisse tutto il viso. Cercò di camminare con aria indifferente, ma si sentiva confusa e la nostalgia di casa si fece sentire per la prima volta.
Le sorprese non finirono; per le strade le donne portavano pantaloni o gonne corte e spesso indossavano capi scollati che facevano intravedere la pelle del seno; ma la cosa più scandalosa era il loro comportamento: si rivolgevano agli uomini come pari, spesso deridendoli; si scambiavano gesti di amore in strada senza il minimo pudore. Un po’ disgustata, ma anche sorpresa, Sanaubar guardò le vetrine dei negozi e, incuriosita, entrò a visitarne alcuni. A fine giornata aveva speso pochi soldi e aveva la teste piena di idee confuse e di realtà difficili da accettare.
La sera, sul letto, Sanaubar pianse senza capirne il motivo. Sentiva, però, dentro di sé una sensazione di inutilità e la paura di essere del tutto estranea alle persone che vedeva per strada. Si chiese se fosse colpa dei suoi vestiti o del suo aspetto, ma non riusciva a capacitarsi e a tranquillizzarsi.
Le settimane trascorsero lente e penose per Sanaubar che, ogni giorno, si chiedeva se fosse ben accetta in quel Paese, ogni giorno piangeva soffocando i singhiozzi e le lacrime nel cuscino, ogni giorno si domandava se ce l’avrebbe fatta, ogni giorno si pentiva di essere partita.
Le cose migliorarono solo quando trovò lavoro in una fabbrica che produceva recipienti di plastica, il lavoro era umile e non ben pagato ma, finalmente, Sanaubar si rasserenò e capì di aver fatto le scelta giusta.
Le altre donne che lavoravano con lei, il primo giorno la guardarono di sottecchi, ma con una punta di curiosità, il secondo rimasero indifferenti e il terzo iniziarono a parlare e a confidarsi segreti. Sanaubar si trovò a ridere e a parlare a briglia sciolta e, anche se non capiva tutte le parole (aveva studiato italiano con il nonno, che era stato in Italia per molti anni), intuiva che quelle donne le erano amiche, condividevano gli stessi desideri e le stesse pene; andarono subito d’accordo e Sanaubar stava di giorno in giorno meglio.
Nonostante il miglioramento, provava ancora una profonda nostalgia della sua casa e della sua famiglia, mista ad una struggente malinconia per il paesaggio afghano: arido e indomabile; del tutto diverso da quello di Roma, domato e sofferente. A ciò si aggiungeva il continuo presentimento di essere in pericolo e Sanaubar, specialmente di sera, mentre camminava, si guardava attorno con grande attenzione, temendo di incontrare individui sospetti.
Era il timore del razzismo, la bestia nera dell’umanità, uno degli ultimi ostacoli da eliminare per poter dire veramente di essere uniti e disposti ad aiutare l’estraneo. Sanaubar pensava che esistessero due forme di razzismo: quella diretta, che sfociava in risse e quella indiretta, che si insinuava nella gente alla vista di un immigrato e che distruggeva psicologicamente la sua vittima. Sanaubar temeva di diventare o di essere già vittima di quest’ultima. Così si ritrovò triste e disperata. Il destino volle che proprio in quel periodo Muhammar si ammalasse e, dopo una lenta e lunga agonia, morì ancora sedato, in coma farmacologico.
Per Sanaubar arrivò il periodo più buio della sua vita: a soli ventotto anni si trovò isolata e senza legami con la patria, cadde in un vortice di depressione e dolore che la intrappolava e le impediva di gioire; non era più capace di pensare con ottimismo e ogni cosa le sembrava insulsa. Persino la vita.
La sua salvezza fu Marco, un ragazzo della sua età che conobbe in un bar. Fu subito chiaro ad entrambi che era scoccato il colpo di fulmine e, sebbene le culture, le religioni, le tradizioni e le idee fossero diverse, si fidanzarono; trascorrevano ore insieme a raccontarsi le rispettive esperienze e sensazioni.
Sanaubar risorse e l’ombra che aveva a lungo offuscato il suo sorriso svanì, cancellata furiosamente dall’amore. Imparò ad apprezzare Marco e la sua civiltà, comprendendone la grandezza fino al punto di rimanerne ammirata. Si tolse il velo e Marco sembrò non notare il cambiamento; Sanaubar si rese conto che in quel mondo non doveva coprirsi, seguire regole oppressive e sottostare agli uomini; in quel mondo era libera di scegliere il suo destino, intraprendere le strade che credeva giuste; poteva essere vestita bene o male, portare veli o no, ma alla fine contava ciò che eri veramente.
La cosa straordinaria fu, però, per Sanaubar la libertà assoluta e incontrollata; Marco la trattava da pari e teneva in gran conto le sue opinioni. Con grande gioia di Marco, Sanaubar decise di continuare gli studi frequentando lezioni serali, che pagava lavorando in un bar. Marco le aveva offerto di sostenerla, ma lei aveva rifiutato: voleva essere libera e non dipendere da nessuno.
Oggi Sanaubar lavora come architetto, è un buon lavoro, che le permette di condurre una vita normale con Marco. Il matrimonio è una strada improbabile da intraprendere, ma sono ugualmente felici e, pian piano, Sanaubar sta cancellando il dolore e la disperazione. L’unico sentimento che non sbiadisce è la nostalgia della sua terra; a volte piange ancora, poi, però, guarda Marco e pensa che il passato è passato ed è inutile perdersi in disperazioni quando si può essere felici. Non bisogna però dimenticarsi di chi si era prima, né delle proprie origini, perché solo così si è liberi, veramente liberi.
Ettore Marcello Mafucci
Classe I C
Liceo Scientifico Gobetti