Omaggio a Marisa
Scritto da Segreteria il 23 Luglio 2009
Con profondo dolore apprendiamo la notizia che Marisa Bacani Bautista, autrice di Lingua Madre Duemilasette e Lingua Madre Duemilanove, è mancata a seguito di una lunga malattia.
La ricordiamo attraverso le parole dei suoi racconti, poetici a volte struggenti, ma sempre pieni di entusiasmo, speranza e gioia di vivere .
ANGELI MADE IN ITALY
LINGUA MADRE DUEMILASETTE
“Dovete mangiare bene per rendere bene a scuola”, diceva sempre mio padre. Lui la mattina preparava il riso e le uova fritte. Eravamo otto figli seduti sulle panchine attorno ad un lungo tavolo centrale. “Non abbiamo niente da lasciarvi in eredità tranne i vostri diplomi”. È la cosa più bella nella cultura filippina. Tutti i genitori dicono così ai loro figli. “Noi siamo poveri perciò dovete studiare.” A me, invece, non piaceva studiare e sognavo già di andare in America. “Tu non vai da nessuna parte finché non avrai il tuo diploma.” diceva sempre lui.
È andata proprio così. Mi sono diplomata in Business Administration in una buona scuola di Manila.
Mia madre mi ha conosciuta come una ragazzina lavoratrice e sognatrice.
Lavoratrice perché la nostra casa era sempre in ordine. Non uscivo mai dopo la scuola senza aver prima messo a posto la casa.
Sognatrice perché lei non sa tutt’ora che piangevo ogni volta che mio padre partiva per il lavoro. Noi vedevamo nostro padre una volta l’anno poiché lavorava mille chilometri lontano da casa. Quando tornava era più magro e nero del solito; lo vedevamo arrivare con la sua borsa piena di roba da lavare. Le sue magliette bianche, nel corso dell’anno, erano diventate nere. Le lavavo e cercavo di farle diventare di nuovo bianche prima della sua partenza.
Mia madre lavorava al mercato tutti i giorni, anche la domenica, partiva alle tre del mattino e tornava nel tardo pomeriggio. C’era la nonna che badava ai piccoli nipoti. Un pomeriggio, ero passata a trovarla al mercato e l’ho vista addormentata ricurva con la testa appoggiata sul banco dove era sistemata la carne da vendere. C’erano mosche ovunque. Si è svegliata e mi ha guardato con occhi stanchi. Aveva la febbre. Da quel momento ho sognato l’America e ho pensato fra me e me: “Ti riempio di dollari”.
Sono arrivata a Roma all’età di ventitré anni. Ho lavorato subito come domestica in una famiglia romana composta da quattro persone. Non sapevo dire una parola in italiano e la cosa più complicata era la loro …scopa. Persino le scope sono diverse nelle Filippine e così ho dovuto imparare a spazzare alla “maniera italiana”. Nemmeno con quella scopa sapevo comunicare. La prima cosa che ho comprato con il mio primo stipendio è stato un dizionario Inglese-Italiano.
Che gioia enorme quando andavo al Vaticano! Mandavo lettere e tante fotografie a casa mia. I miei genitori erano così orgogliosi di me che mandavo sempre dollari a casa.
Sono già passati ventitré anni vissuti in Italia e l’America non l’ho ancora vista.
Noi domestici di Roma uscivamo tutti i giovedì pomeriggio e tutto il giorno della domenica. Nel nostro gruppo c’era un’amica che raccontava i suoi problemi familiari. La sua era una storia più vecchia e noiosa della soap opera “Beautiful”. Basta! Preferisco la storia di Lady D. Non ero più in sintonia con loro.
Dopo quattro anni sono partita per Milano e ho continuato a seguire le vicende di Lady D. Ho lavorato in una casa milanese per dodici anni. I signori avevano tre bambini. Fra gli amici, il lavoro e le vicende di Lady D mi sono divertita.
Un giorno d’inverno ho incontrato un ragazzo che ha cambiato la mia vita. Mi sono innamorata ciecamente. Questa volta la protagonista della telenovela ero io. La nostra storia d’amore era diventata la “Beautiful” del gruppo. Ho convissuto, sono rimasta incinta e ho messo al mondo un bellissimo bambino.
Aveva solo sei mesi quando, senza altre alternative, ho deciso di mandarlo a crescere nelle Filippine. È stata dura per me, però ancora ora ritengo sia stata la scelta giusta.
La mia telenovela è durata solo sei anni, poi mi sono separata dal padre del mio amato bambino. Ero nuovamente libera e fiera di me stessa.
Ricordo la nostra ex presidente Cory Aquino. È venuta a Milano per ricevere un’onorificenza. Per tutti noi è stato un gran vanto che la “Donna dell’anno” provenisse dalle Filippine. Ha parlato al nostro cospetto e ha sostenuto che noi emigrati eravamo i “nuovi eroi” del nostro Paese.
Ma, aveva ragione? “C’è uno sviluppo enorme a Manila: i centri commerciali sono belli e grandissimi.” La nostra Cory parlava del benessere a cui avevamo contribuito lavorando all’estero. Io mandavo i soldi a casa ogni fine mese. Nella nostra banca in Piazza Carducci a Milano incontravo gli altri. Eravamo vestiti con jeans, maglietta e scarpe da ginnastica. Sembrava l’uniforme ufficiale delle Filippine. Risparmiavamo tanto in Italia per il bene del nostro Paese. Il giorno di Natale era il giorno più triste dell’anno. Risparmiavamo anche quel giorno. Gli altri lavoravano perché si guadagnava il doppio. Io ero a casa di amici con in testa la famosa canzone italiana: “E viene Natale. Non tengo denari”. Avevo però bei vestiti. La mia fortuna era la signora milanese che mi regalava i suoi abiti smessi.
La Signora Aquino aveva torto! Noi non eravamo e non siamo i nuovi eroi, siamo “Angeli Made in Italy”: lavoratori tanto generosi verso il nostro Paese, quanto avari con noi stessi.
Da un anno ormai non sono più un Angelo Made in Italy. Adesso il figlio filippino e il marito torinese sono la mia nuova famiglia che giustamente vuole la sua parte. Il mio contributo alle Filippine è parte del passato.
Noi siamo una vera famiglia a tavola e rispetto … alle trasmissioni televisive. Sono una vera mamma adesso. Ho anche un’altra famiglia: la mia comunità con cui mi trovo tutte le domeniche intorno ad un tavolo otto volte più grande di quello attorno al quale i miei fratelli ed io siamo cresciuti.
Ho lavorato duramente, risparmiando, per ventidue anni. Pensate quanti soldi potrei avere. Ho un grande orgoglio, ma i dollari sono solo ricordi. Dai miei genitori ho ereditato un bel diploma in Business Administration e tanta fierezza.
Una mattina mi trovavo davanti a mio figlio con un toast e un cappuccino. “Devi mangiare bene per rendere bene a scuola”. Mio figlio non mi ha nemmeno guardata, proprio come avevamo fatto noi con nostro padre. So che un giorno anche lui dirà a suo figlio le stesse cose perché lui è uno dei diciannove nipoti di mio padre.
JINGLE BELLS
LINGUA MADRE DUEMILANOVE
La prima volta che aveva visto quell’uomo vestito di rosso con la barba lunga e bianca, è stato quando sua madre Ligaya ha comprato il televisore per la nuova casa.
La madre di Luzviminda andava a lavorare al mercato tutti i giorni per far studiare lei ed i suoi sette fratelli. Suo padre Adong era un tornitore e lavorava lontano da casa. Lui poteva fare il marito e il papà solo per due settimane all’anno: tornava durante le feste natalizie, quando i film americani ed europei inducevano a sognare di lasciare la famiglia e la verde isola.
A Bataan c’è ancora l’usanza della messa che si celebra alle quattro del mattino per otto notti consecutive dal 16 al 23 dicembre. C’è anche una banda musicale che gira per le strade del paesino a svegliare la gente, giusto in tempo per sentire la messa che si celebra alle undici il giorno della Vigilia di Natale e poi segue la grande cena, ognuno a casa propria. Luzviminda, che era una vera dormigliona, non voleva neanche svegliarsi per mangiare. I suoi genitori tenevano tanto a questo rito, come tutte le altre famiglie del paese.
Il tavolo era ben apparecchiato. Sua madre preparava ricette buone, ma poco costose: menudo, rigadillo e zuppa di pollo con spaghetti di soia. Il menudo è fatto di cane di suino tagliata a pezzetti e cucinato con patate e pomodori pelati. Il rigadillo è a base di carne e fegato di maiale tagliato a dadini e cucinato con tanto aglio, cipolla, sale, zucchero, aceto, pepe, salsa di soia, alloro e pane grattugiato per addensare la salsina. C’era riso in umido e pane morbido a fette. Sua madre comprava i dolci natalizi: suman e halaya. I suman sono involtini di foglie di banana ripieni di riso con zucchero di canna e latte di cocco cucinati a vapore per più ore. Questo dolce bisognava mangiarlo con l’halaya, fatto di topinambur di color viola cucinato precedentemente a parte in umido e poi pestato bene prima di amalgamarlo di nuovo con zucchero e latte di cocco. C’era anche il formaggio kraft cheddar, ma il prosciutto cotto dolce non se lo potevano proprio permettere.
Da quando lei aveva conosciuto la storia di Babbo Natale, ogni 24 dicembre pensava a lui che distribuiva i regali; dall’Australia passava alle Filippine per raggiungere l’Europa e l’America. Si immaginava che, anche se a lui piacciono i paesaggi bianchi di neve, scendesse nel suo paese così verde e caldo.
A casa sua ci fu un Natale particolarmente triste perché suo padre non era tornato fra loro. Sua madre era uscita tardi dal mercato il 24. Non aveva trovato Adong a casa. Luz ricorda con chiarezza quel momento della loro vita. Nonostante sua madre fosse forte di carattere, per la prima volta l’aveva vista con le lacrime agli occhi, seduta silenziosa nel loro salotto. La nonna paterna Imang era uscita di casa piangendo. Quel giorno, Luzviminda ha scordato completamente il passaggio di Babbo Natale.
Il loro tavolo era apparecchiato come l’anno precedente. Sua madre era seduta a capo tavola, al posto di suo padre. La tovaglia di plastica colorata era nuova. I piatti erano di porcellana decorata con l’immagine di una signora con un mazzo di fiori. C’erano poche posate perché mangiavano con le mani. Non mancavano le bottiglie di bibite gasate. Durante l’anno sua madre comprava raramente la frutta tipica del paese, ma alla Vigilia preparava un vassoio con un paio di mele e di pere da dividere in tanti pezzi per ciascuno di loro. Non c’era l’uva. Le famiglie che si potevano permettere di comprarla, ne appendevano un grappolo all’entrata di casa. Dicevano che portasse fortuna.
Quella volta, Luzviminda si era alzata dal letto da sola perché non aveva dormito pensando a sua madre che soffriva e a suo padre che avrebbe passato il Natale da solo. Com’era diverso dagli anni passati, quando lei e i suoi sette fratelli facevano tanta confusione in allegria con i genitori e i nonni.
“Domani pomeriggio preparatevi. Andiamo ugualmente a trovare la madrina”, aveva annunciato la loro madre senza guardare in faccia nessuno. Ogni anno andavano a salutare quella vecchia signore che abitava in un altro paese. Dovevano prendere i tricycle e poi un pulmino locale.
Quella notte mangiarono poco perché la tristezza arrivava sin nel profondo del cuore. Per fortuna quel triste episodio di Natale è accaduto una volta sola.
Il giorno dopo andarono a sentire messa, ma Luzviminda non volle andare a trovare i parenti.
“Quando è arrivato Adong?”, le avrebbero chiesto di sicuro, come tutti gli anni passati.
“Che regalo vi ha portato?”, sorridevano i parenti ogni volta che facevano loro questa domanda: suo padre portava loro sempre e solo “Taeng Pusa”(1) , un dolcetto piccolo, lungo ed economico. Era fatto di zucchero di canna e riso soffiato.
“Non c’è altro?”, chiedevano in coro i bambini sorridendo al loro padre, mentre gustavano il Taeng Pusa.
Quell’anno la piccola Luz non voleva ammettere con i parenti che le mancava il dolcetto del papà.
A ventitre anni Luzviminda è partita per l’Italia.
“Ci sono ragazze che partono per l’Europa. Vorrei andarci anch’io”, aveva confessato a sua madre una sera, subito dopo aver lavato i piatti. A quel tempo Luz lavorava, a tempo determinato, nell’ufficio di una scuola.
“Quanti soldi ti servono?”. Sua madre non si era nemmeno stupita perché quasi tutti loro sognavano di lavorare all’estero.
“Forse mille dollari mi basteranno”:
Per la prima volta in vita sua vide la neve, però a Babbo Natale pensava solo quando lo vedeva in televisione. I giorni prima di Natale aveva tante cose da fare a casa della signora. Badava anche ai suoi bambini. Il film che aveva visto a casa nelle Filippine, l’ha infine vissuto in quella famiglia milanese: c’erano le luci di Natale fuori e dentro casa, l’albero addobbato, il presepe e la neve. Durante la notte della Vigilia, Babbo Natale deponeva tanti regali sotto l’albero, così i bambini erano felici.
Anche lei e i suoi sette fratelli, a Bataan, parecchi anni prima, quando si svegliavano il giorno di Natale, trovavano tante caramelle dentro le calze vecchie ed erano molto felici. Dormivano sulla stuoia stesa sul pavimento di bambù. Il giorno di Natale mangiavano la colazione, facevano il bagno e mettevano il loro vestiti migliori e ai piedi gli tsinelas nuovi. Andavano in chiesa prima di passare a casa dei parenti, che erano già pronti a regalare loro alcuni pesos.
Da quando Luzviminda aveva cominciato a guadagnare le lire italiane, preparava sempre un grande pacco da mandare a casa sua per Natale: faceva concorrenza al buon vecchio vestito di rosso.
Costava tanto telefonare al paese. Spediva sempre delle lettere a sua madre, però il giorno di Natale le telefonava. Voleva sentire la gioia della sua famiglia e, soprattutto, quella dei suoi piccoli nipoti.
E poi lei è diventata madre. Il suo bambino Acey aveva solo tre mesi, quando decise di mandarlo giù al paese. Aveva pagato una signora filippina per portarlo, perché il suo permesso di soggiorno era scaduto e il suo compagno non era in regola. Era dicembre. Di solito, nel mese di novembre preparava il pacco. Quell’anno non c’erano regali neanche per i piccoli nipoti. La sua famiglia aspettava con ansia l’arrivo del suo bambino.
A Milano, si sentiva l’aria di festa con le vetrine ben decorate. Dovunque lei andasse sentiva canzoni natalizie: “Jingle bells, jingle bells, jingle all the way”.
Le strade erano tutte illuminate, ma in quel momento lei era troppo triste. Non le faceva nessuno effetto neanche la presenza dei signori vestiti da Babbo Natale. Sentiva anche la tristezza del suo piccolo, appoggiato al suo petto, mentre camminava.
Aveva comprato la gallina per fare il brodo. Suo figlio era molto goloso del suo latte. Quella sera telefonò alla signora filippina per dirle che rinunciava a far partire il suo piccolo. Non poteva sopportare un Natale senza di lui.
Dopo tre mesi Acey è comunque partito per le Filippine, accompagnato da suo padre. Luzviminda ha pianto tanto quando l’aereo che le portava via suo figlio si è alzato in volo. Aveva male al seno, ma quello non era niente in confronto al male che sentiva nella sua coscienza. Non aveva scelta, loro abitavano in una casa di due locali con altre sei persone e l’inverno era tremendo perché ogni tanto il riscaldamento non funzionava.
Telefonava spesso a casa sua per sapere qualcosa di Acey. Una volta lui stava piangendo e sua madre l’ha fatto allontanare dal nonno. Ligaya pensava che le facesse dispiacere sentire quel pianto, invece era la musica più bella che potesse sentire. C’erano giorni che mangiava una volta sola per avere i soldi per telefonare: le costava tanto quella musica!
I pacchi natalizi erano sempre più grandi rispetto agli anni passati. Quando suo figlio cominciò a parlare gli chiedeva sempre che cosa desiderasse da Babbo Natale. Ha rivisto il suo bambino solo dopo tre anni, proprio nelle vacanze natalizie, quando è finalmente riuscita a tornare a Bataan. Ma non era molto felice perché suo figlio cercava il padre. Purtroppo non aveva i soldi per pagare i biglietti per due.
Ci sono tanti episodi della sua vita che sono accaduti nei giorni di Natale. La più grande lite che ha fatto con il padre del piccolo è stata proprio in questo giorno speciale. L’hanno successivo era già separata. Quel Natale Luz non ha avuto il coraggio di domandare a suo figlio che regalo volesse: temeva che le chiedesse “il suo papà”.
Adesso Luzviminda è moglie di un italiano. Alcuni anni fa, ha appeso una lettera sull’albero, con la richiesta di mandarle il regalo più grande del mondo… suo figlio.
Così Acey è tornato all’età di sedici anni e l’anno dopo ha festeggiato, in Italia, il suo più bel Natale.
Come quando era piccola, Luz pensa che Babbo Natale sia proprio buono perché rende felici tutti, anche i bambini del paese verde, dov’è sempre estate. Purtroppo ogni tanto lui non arriva perché lungo la strada trova la tempesta che gli impedisce di passare.
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(1) In italiano significa “cacca di gatto”