Lingua d'elezione, lingua di relazione
Scritto da Segreteria il 27 Aprile 2009
di Cristina Bracchi
APPUNTI PER LA PRESENTAZIONE DEL VOLUME LINGUA MADRE DUEMILAOTTO
Università di Torino, 2 dicembre 2008
“Esistono quattro diverse maniere di scrivere la vita d’una donna: può scriverla la donna stessa chiamandola autobiografia, può raccontarla chiamandola narrativa; un biografo, uomo o donna, può scrivere la vita d’una donna in forma, appunto, biografica, oppure la donna può scrivere la sua vita ancor prima d’averla vissuta, inconsciamente, senza riconoscere né dare nome al processo che mette in atto.” È l’apertura del saggio sull’auto-biografia (1988) di Carolyn G. Heilbrun, Writing a Woman’s life, il cui titolo programmatico – scrivere la vita di una donna – già significa la pratica discorsiva e critica che fa riferimento ad un’ottica di genere e alle possibilità di racconto della vita, propria e altrui.
I volumi di Lingua Madre danno spazio prevalentemente alla forma autobiografica della narrativa e, in modo meno evidente e dichiarato ma altrettanto presente, a tutte e quattro le “diverse maniere di scrivere la vita d’una donna”, nell’esplicito racconto di sé, nell’idea proiettiva della propria esistenza a cominciare dall’esperienza migrante. Infine, se si apre il volume al fondo, si leggono le biografie della autrici:
Ying C. è professoressa universitaria, giornalista e traduttrice. Nasce il 20 aprile 1977 in un villaggio nel Nord della Cina. Nel 1995 inizia a frequentare la Facoltà di Lingue Straniere e nel 1999 consegue la laurea discutendo una tesi sulla letteratura italiana. Ha tradotto alcuni romanzi italiani in lingua cinese, pubblica poesie in riviste letterarie e scrive articoli per giornali cinesi. Si è trasferita in Italia nel 2005. Da allora insegna lingua e letteratura cinese presso l’Università di Macerata. Rebecca G. ha diciannove anni ed è ghanese. La sua famiglia si è trasferita in Italia quando lei aveva due anni e mezzo. Attualmente frequenta il Liceo Scientifico “Edoardo Amaldi” di Orbassano, il paese in cui vive. Nel maggio 2005, è stata una dei cinque vincitori del Premio di scrittura “Zanichelli” e il dicembre dello stesso anno ha vinto la menzione speciale del Concorso di poesia della “Festa del libro di Orbassano”. In futuro spera di poter realizzare il suo più grande sogno, che è quello di diventare una scrittrice. Milena J. è nata il 25 febbraio 1981 a Belgrado, Serbia, dove ha frequentato il liceo linguistico. Ha viaggiato a lungo, è stata a Cipro, in Nuova Zelanda, a Vienna, Roma, Londra e in Francia, dove si è laureata con lode all’Ecole De Management di Grenoble. Attualmente vive a New York. Oltre al serbo, parla correttamente cinque lingue: italiano, francese, inglese, tedesco e russo. Sandra J. è nata ventotto anni fa in Liberia. È stata detenuta al carcere di Trapani e ora, terminata la pena da alcuni mesi, vive a Palermo. È venuta in Italia per cercare lavoro. Nell’esperienza detentiva ha lavorato e ha partecipato a varie attività, anche di volontariato. Adora ballare e ascoltare la musica, ama raccontarsi, è molto vitale e aperta. Ha una figlia di nove anni e un fidanzato nigeriano che spera di sposare presto. Annunziata S. è nata a Torino l’8 marzo 1956. è in possesso di diploma di Assistente Sociale ma non ha mai svolto tale attività. Scrive poesie, favole e racconti da tempo e ha seguito corsi di scrittura creativa. Ha partecipato come volontaria all’attività dei clown ospedalieri. Lavora presso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale.
Biografie che dicono di percorsi eccentrici, mobili, duttili, necessari delle autrici, che la scelta e l’uso della lingua italiana fanno essere insieme nel volume. Qui la lingua comune più che elemento identitario è dato relazionale, perché è un volume di genere, perché si tratta di un progetto a cui le autrici partecipano, e a cui danno significato con la loro scelta, situata e provvisoria, e con la loro differenza, presentata e valorizzata dalla narrazione, confrontata e scambiata con quella delle altre, nello spazio condiviso del volume, che diventa spazio di contenuti, di desideri, di cambiamenti e di critica, in altre parole, spazio politico.
Infatti è nella relazione con l’altra – necessaria fuori e dentro il testo perché il progetto di genere si attivi – che sono resi possibili sia il superamento dell’orizzonte chiuso del ragionamento per coppie dicotomiche, quali integrazione/estraneità, inclusione/esclusione, centralità/marginalità, locale/globale, nazionale/transnazionale; sia il ritrovamento di senso e la produzione di nuovo significato, nel vuoto creato da colonialismi e imperialismi, vecchi e nuovi.
L’auto-narrazione del sé, in quanto racconto di vita propria o altrui, anche nell’invenzione narrativa, diviene la possibilità alla condizione di “mondità”, ossia a quella esistenza duratura che deriva dall’essere riconosciuti e ricordati dagli altri e dalle altre, dalla pluralità, resi cioè tangibili. La “mondità” delle cose, secondo Hanna Arendt, dipende dalla loro minore o maggiore permanenza nel mondo stesso. Concetto a cui voglio accostare, perché ne riceva movimento, il “farsi mondo del mondo” che Gayatri C. Spivak (ma non ha letto anche Arendt?) prende da Heidegger, nell’ambito della riflessione sull’arte, per applicarlo al testo. Si tratta della “mondificazione”.
Una scelta possibile di lettura e ricezione del testo muove da questo assunto, con l’ambizione che sappia aprire variamente al (l’attivismo) politico, che sappia interrogare i testi con domande volte ad eliminare sovrastrutture e stereotipi, forti e radicati nel discorso coloniale e postcoloniale, interculturale; che si muova in uno scenario di ermeneutica in cui il significato etico e conoscitivo della letteratura sia cercato tanto quanto la magia, l’esperienza sensoriale, la valenza “sovversiva” (Audre Lorde) dell’esperienza estetica.
L’altra necessaria è dunque variabile significativa nella produzione di mondo e nelle relazioni, sia soggettive sia politiche, tra arte/testo/mondo, e naturalmente con il concetto e la fisicità dell’altro/a.
In questo contesto relazionale, la lingua madre è tanto d’origine, quanto d’adozione, quanto elettiva e l’uso e la condivisione linguistica consentono un di più simbolico che va oltre lo scenario e il discorso dell’intercultura. Si tratta di cambiare prospettiva e guardare a una cultura multipla, in dialogo e in divenire, in cui la scelta dell’italiano è circostanza per parlare insieme a, con, accanto all’altra. Prospettiva che si fa stile e pratica per parlare insieme a, con, accanto all’altro, mettendo in essere un guadagno di genere, dato proprio dalle pratiche e dalle narrazioni delle donne, in un contesto di consapevole separatismo, rivolto però alla società tutta intera.
Le pratiche di narrazione in una lingua di narrazione scelta, infatti anche chi la parla dalla nascita sceglie di usarla per partecipare al concorso-progetto Lingua Madre, sollecitano l’immaginario e la riflessione su esperienze di sradicamento, di radicamento, di relazione; su esperienze di traduzione da sé a sé e di trasferimento interpretativo da una lingua ad un’altra per le scrittrici che hanno acquisito l’italiano come lingua seconda.
In questo progetto dunque la scelta dell’italiano ha a che vedere con aspetti di interazione tra specificità nazionale e intelligenza sovranazionale e non di adesione alla lingua prevalente. Difatti la potenzialità relazionale, suscitata dalla lingua comune, in un territorio scelto o trovato, dentro un orizzonte culturale dis-orientato e dis-ordinato, risulta più significativa e più ampia della potenzialità identitaria, anzi la contiene per decostruirla. Se c’è inclinazione all’identità è quella di genere, molteplice, intergenerazionale e multiculturale.
L’esperienza di Lingua Madre coglie desideri e ambizioni di scrittura creativa e mette in movimento aspirazioni artistiche nell’ambito del racconto, della rielaborazione, della comprensione e spiegazione, infine della condivisione di vissuti, tra scrittura del sé e invenzione. C’è poi uno snodo, i cui esiti dipendono dai percorsi soggettivi delle autrici, che va dalla scrittura creativa alle letterature, intese quale insieme di tradizioni e di genealogie di riferimento.
Una questione che emerge è quanto l’esercizio elettivo di una “lingua madre” sposti il canone delle letterature nazionali e dialoghi con il postcoloniale, in termini di sguardo, ibridazioni, idealità. Un’altra riguarda la pratica separatista di cui è erede l’iniziativa di Lingua Madre. Fare la cosa giusta, immaginare il mondo come lo si vuole, costruire comunità nel rispetto delle differenze e diversità, proprio nel contesto della precarietà soggettiva e sociale contemporanea, tematizzata da Judith Butler in Vite precarie (2004) è questione di responsabilità che tanto richiama il discorso dell’etica della letteratura. Gli sguardi sulla realtà, le vite, i vissuti, nelle narrazioni di tante e differenti provenienze, confluite tutte nella lingua italiana, sono in relazione e in dialogo con i femminismi di appartenenza o di acquisizione nella peculiarità delle forme italiane o comunque occidentali, di derivazione novecentesca. Sono prefigurate, più o meno progettualmente, pratiche di nuove cittadinanze, tra scrittura migrante e lingua madre, che possono suggerire modi e forme di ripensamento del vivere associato, per decostruirne i principi di guerra, di violenza, di esclusione.