L'importanza di dire "io"
Scritto da Segreteria il 30 Gennaio 2009
APPUNTI PER LA PRESENTAZIONE DEL VOLUME LINGUA MADRE DUEMILAOTTO
Università di Torino, 2 dicembre 2008
Di Luisa Ricaldone
Nel numero di marzo-maggio 2000 della rivista “TutteStorie” dedicato a Il femminismo che verrà, trovano spazio riflessioni e testimonianze di due autrici sudafricane, Mirriam Moleleki e Nothemba Ngcwecwe, che scrivono rispettivamente:
Chi vive in campagna non ha alternative, non verrà mai a dirti: “Io vorrei scrivere la mia storia”. Ma se vedono che tu lo hai fatto e leggono la tua storia, magari scoprono che anche loro hanno una storia da raccontare […]. Le storie servono da incoraggiamento per le persone […]. Perché le donne che stanno in campagna non hanno mai un’occasione per parlare di sé, per darsi potere. Scrivere la vostra storia può cambiare molte vite.
Quando una storia viene scritta, sono tanti quelli che la possono leggere. E quando leggiamo quella storia a volte ci rendiamo conto che poi le storie delle persone si somigliano. E così se uno legge si accorge che non è solo lui quello che ha sofferto, ma come lui ci sono tante persone.
Valeria, la protagonista del romanzo di Alba De Céspedes Quaderno proibito, afferma che “quando si racconta la vita, tutto cambia”; questa è stata la sua esperienza attraverso la scrittura quotidiana del diario; e anche se il mutamento non si è concretizzato in nuove scelte di vita, esso ha costituito per se stessa (e per le lettrici) un prezioso strumento di presa di coscienza. Ora, non so se per i testi che qui si presentano sia possibile affermare con sicurezza che il cambiamento c’è stato o ci sarà; di certo restituire con la parola momenti cruciali della propria vita costituisce un primo, determinante passo per uscire da sé, collettivizzando un’esperienza.
Lo scrivere una storia, in particolare la propria, ribadisce il diritto di esprimere la soggettività individuale, e mette in campo l’importanza di dire “io”. Nel caso specifico delle donne straniere, ciò che esse rappresentano attraverso la narrazione autobiografica – pur con tutti i limiti di spazio e di letterarietà del testo – è l’esilio: culturale, geografico e linguistico.
Si sa dalla psicologia e dalla psicoanalisi che la scrittura e la parola aiutano a superare i traumi del passato, a integrarli nel quadro esistenziale del soggetto, che impara a convivervi. Raramente ho trovato un modo più drammaticamente conciso per raffigurare la propria giovanile solitudine di quello adottato dalla ghanese Herrety Kessiwaah quando scrive: “a dodici anni ho incontrato in un mercato mia sorella. Mi ha riconosciuto lei…”. Da quell’isolamento famigliare ha origine un percorso di vita travagliato, sfociato poi in atti contrari alla convivenza sociale, di cui chi legge è opportunamente tenuto all’oscuro. Ed è il terreno preparatorio a quegli atti a offrirsi alla narrazione in una sorta di anamnesi che ha lo scopo di comprendere il presente attraverso il ripensamento del passato.
Mi viene in mente l’esperienza del laboratorio della Casa circondariale di Bergamo, la cui animatrice Adriana Lorenzi ne ha lasciato ampia e circostanziata testimonianza nel recente volume degli Atti triestini della Società Italiana delle Letterate (Sconfinamenti. Confini, passaggi, soglie nella scrittura delle donne, a cura di Adriana Chemello e Gabriella Musetti, Il Ramo d’Oro, Trieste 2008).
Il bisogno di scrivere di se stesse, di lasciare una testimonianza non effimera del loro essere in uno snodo cruciale della storia, individuale e collettiva, emerge con vigore dai racconti, che costituiscono una rilettura, in forma di rapidi schizzi o attraverso flashes isolati, del cammino che ciascuna delle donne emigrate ha compiuto: il racconto permette loro di appropriarsi del mondo che hanno lasciato alle spalle e di quello “nuovo” cui sono approdate. L’uscita dal silenzio, l’uso della parola possono legittimare l’essere qui e ora delle emigrate e, nei casi più fortunati, trasformare gli ostacoli in vantaggi.
Le narrazioni delle migranti non riguardano solo loro ma anche noi, il nostro rapporto con i paesi da cui provengono, con l’idea, spesso con i pregiudizi e gli stereotipi, che noi stesse – donne (e uomini) bianche occidentali – abbiamo di quei paesi. In un articolo apparso sulla rivista “Leggendaria” nel maggio 2006 dedicato all’Africa, Monica Luongo e Anna Maria Crispino invitano a “decolonizzare la mente”. Dalla identità a radice unica, che esclude ogni altra, si passa all’identità di frontiera, che ha in sé la caratteristica di continuamente ridefinirsi. Non più di radice unica si parla allora, ma di radice a rizoma, aperta all’incontro di culture, all’emozione della diversità. “Alla nascita biologica si affiancano altre nascite – scrive Clotilde Barbarulli in L’immaginario nell’erranza delle parole. Scritture migranti in lingua italiana (in Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura, a cura di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, Cuec, Cagliari 2003) – perché l’identificazione non è fondata su biografie stabili, immutabili, ma ognuna/o si costruisce/ricostruisce attraverso strategie e processi, durante tutta l’esistenza”.
Ancora: mentre aiutano a decostruire gli stereotipi, le narrazioni delle migranti immettono anche nei modelli letterari nuove parole e nuovi immaginari. Ne possediamo esempi nella letteratura italiana, se pensiamo ai percorsi e alle modificazioni apportate al canone da scrittrici come Fausta Cialente, Fabrizia Ramondino, Amelia Rosselli, Edith Bruck, Alice Ceresa. “Il panorama della letteratura italiana non è dunque omogeneo come si vorrebbe, – sono ancora parole di Barbarulli – proprio perché la letteratura non può essere intesa come bianca ed estranea alla realtà del razzismo e della migrazione: diventa uno spazio polifonico di confronto con le differenze”.
Nel numero di luglio-dicembre 2006 di “DWF”, che reca il titolo di Voci migranti, Lidia Curti dice che la scrittura è mezzo di conoscenza reciproca, e che scrivere in italiano diventa “il modo di trovare un’appartenenza”. Si tratta di “un’operazione di relazione” – scrive a sua volta Ferdinanda Vigliani nello stesso numero della rivista: una donna italiana aiuta a correggere il testo della straniera; una detenuta si rapporta con una donna libera, e le donne italiane narrano i loro incontri con le straniere. Ma si tratta anche di un’operazione di “verità”: scrivendo, le donne “trasmettono verità” –: così Daniela Finocchi nelle pagine di presentazione del premio Lingua Madre ospitate nello stesso volume di “DWF”. Verità non solo perché esse restituiscono esperienze autentiche, porzioni vere di esistenza, ma anche perché sottolineano le differenze.
In un articolo scritto per festeggiare i cento anni del grande antropologo Lévi Strauss e pubblicato su “La Stampa” dello scorso 23 novembre, Barbara Spinelli ricorda il rischio che corrono le culture della “collaborazione”:
Ogni coalizione con le diversità è minacciata da esiti paradossali. A forza di collaborare, le culture tendono alla consonanza, i particolarismi s’appannano, vivificano meno […]. La sfida consiste nel trovare un equilibrio fra integrazione e differenza, e nell’evitare il “pigro, comodo riposo” che garantisce “l’immagine della somiglianza migliorata”.
L’operazione di Lingua madre mi pare contenga in sé proprio la sfida di fare emergere il peso e la verità della differenza evitando le trappole della omologazione.
Quali i temi ricorrenti nei cinquantaquattro racconti raccolti in Lingua madre 2008? Ne cito alcuni, che spiccano per originalità o per frequenza. La natura occupa un posto di rilievo, da accenni alle problematiche connesse all’acqua alle descrizioni paesaggistiche; l’amore, la solidarietà e l’amicizia come sentimenti che abbattono i pregiudizi; i drammi coniugali, la violenza, l’alcolismo, la prostituzione, la paura; la lontananza e l’esilio; la condizione di straniera sia all’estero sia in patria; il lavoro e la schiavitù; la scuola e lo studio come privilegio; il rapporto tra generazioni e l’importanza della famiglia d’origine; l’impegno a dare ai figli un amore “multiculturale”; la gratitudine di poter godere di diritti primari; la saggezza di vivere la vita così come si presenta; l’adozione del pensiero positivo in un paese che offre possibilità; il viaggio. Raro, anche se presente, l’atteggiamento introspettivo; frequente l’ironia.