Lungo i molteplici confini orientali Intervista a Diana Bošnjak Monai
Scritto da Segreteria il 25 Ottobre 2024
Senza lasciapassare. Trent’anni lungo i confini orientali è il titolo dell’ultimo libro dell’autrice CLM Diana Bošnjak Monai pubblicato con Infinito edizioni. Un libro che tiene insieme tutti quelli scritti finora e allo stesso tempo scava sempre di più nel passato dei paesi balcanici. Regione che nel ventesimo secolo è stata attraversata da fratture generate sia da guerre combattute che fredde, entrambe vissute dalla scrittrice in prima persona obbligandola alla condizione di profuga.
E quando diventi profuga – scrive – “finiscono i diritti. Sembri invisibile. Un corpo senza voce, semplicemente non esisti. Vieni trasformata in un numero, deplorevole, evitata e umiliata, un essere numero che deve sottostare a qualsiasi capriccio di qualunque persona che abbia bisogno di esercitare il potere sulla tua pelle, curando i propri complessi di inferiorità”.
Testimonianze dure, illustrazioni, testi di Sergio Monai e Vittorio Comisso: la ricchezza che compone il volume “vuole fare luce sulla gente che vive lungo quel confine simbolico e mobile, perché più volte spostato nel corso dello svolgersi della storia umana. Una frontiera il cui significato cambia a seconda di dove si diano le spalle. Perché spostandosi al di là di questa linea immaginaria e politica, come d’incanto il confine orientale diventa occidentale. Cambiano i punti di vista. Cambiano le pretese. Cambiano le opinioni. Cambia, all’improvviso, la Storia”.
A cosa allude il titolo del suo nuovo libro?
Non c’è nessuna allusione o illusione. È molto semplice. Il libro è un connubio fra autobiografia, reportage, saggio e racconto di viaggio. Parla proprio della mia esperienza come profuga di guerra che si trova ad attraversare dei confini senza un documento, cioè un lasciapassare valido. L’intento è anche quello di dar voce a molti, tantissimi altri che si trovano in situazioni simili e non sono in grado di gridare aiuto. Nella vita può succedere di tutto e, inaspettatamente, ci si può trovare in una situazione del genere. Nessuno escluso. A me è capitato da un giorno all’altro: mi sono trovata a cercare una nuova vita, una nuova casa, gli affetti altrui.
Tutta la sua precedente produzione letteraria è incentrata su Sarajevo e i Balcani. Perché è importante continuare a parlare dei territori dell’ex Jugoslavia in cui gli equilibri sono ancora precari?
È vero. La maggior parte dei racconti e dei romanzi che ho scritto sono ambientati nei Balcani e ce ne saranno sicuramente altri. È vero anche che ho scritto molte altre cose, alcune pubblicate, altre che cercano ancora il momento giusto per esserlo.
Non è strano che io descriva i Balcani, è molto più facile scrivere di argomenti che conosciamo. Nei miei libri si può trovare il nostro balcanico modo di essere, il pensiero, la nostra tragicomicità, il rapporto con la vita e la morte.
Vivo sul confine fra Trieste e Umago. La mia anima è divisa in due; il cuore è balcanico, la ragione italica. Conosco i Balcani, mi scorrono nelle vene.
Se poi i miei libri continuano a essere pubblicati, vuol dire che l’interesse sulle questioni balcaniche c’è ancora. Per me è importante. Importante raccontare anche la pace – non solo la guerra, che sta ad aspettare dietro una porta socchiusa, sempre minacciosa – perché la vera pace nei Balcani non c’è e forse non c’è mai stata. Anche adesso, dopo trent’anni dalla fine della guerra jugoslava, sembra che le cose non funzionino. Basta pensare alla divisione della Bosnia in cantoni, alla situazione politica e sociale, il rispetto dei semplici diritti umani, o alla situazione in Macedonia o Montenegro – selvaggia privatizzazione, corruzione, criminalità, illegalità – per non parlare di Serbia e Kosovo che ancora non riescono a trovare una soluzione per le questioni urgenti aperte. I popoli balcanici servono da nuove reclute nelle guerre oltre i confini, fra le steppe russe e ucraine, nei califfati mediorientali… L’opinione pubblica è divisa anche sulle questioni politiche o le guerre in corso e c’è sempre qualcuno a soffiare sul fuoco. Come non parlare dei Balcani, quando la pentola che sobbolle potrebbe scoppiare di nuovo da un momento all’altro!
Per quale motivo ha scelto di scrivere un libro come questo in italiano e non in una delle lingue balcaniche che conosce?
Come dicevo, l’italiano è la mia lingua d’adozione, per me è una lingua franca e, scrivendo in italiano, mi sento più libera di esprimere le mie opinioni. L’italiano mi permette di distaccarmi dal cuore e dare voce alla ragione. Inoltre, scrivendo in italiano non devo optare e usare una delle lingue balcaniche che conosco, cioè: croato, bosniaco, serbo, montenegrino o sloveno, visto che nessuna di esse è effettivamente la mia lingua madre. Scrivo e parlo in stokavoijekavo, nella variante occidentale, ma conosco bene anche le altre varianti, nonché l’alfabeto latino e quello cirillico.
Il romanzo parte dalla sua esperienza in prima persona come profuga di guerra perché lei stessa ha attraversato molti di quei “confini mobili” di cui scrive, dalla Bosnia, alla Croazia, alla Slovenia, all’Italia. Come è cambiato anche il suo sguardo, nel cambiamento geografico?
Il mio sguardo è sicuramente diverso. Da persona che non ha una chiara appartenenza nazionale, viste le mie origini multiculturali, questo sguardo probabilmente era già diverso in partenza. Forse i sentimenti che provavo una volta si sono placati e adesso riesco a vedere la realtà senza uno stretto coinvolgimento affettivo: osservo più razionalmente tutto ciò che succede. Ovviamente, però, quando gioca una squadra balcanica, faccio sempre il tifo. Qualunque essa sia.
Ripudio la guerra. Anche questo, come altri miei libri, è soprattutto un manifesto antimilitarista. Un po’ anarchico, come sono anarchica anch’io. I cambiamenti, le barriere, i confini geografici hanno portato tanto dolore da sempre. Spero, con tutto ciò che è successo e che accade ancora, che la gente possa pensarla come me e che le madri non siano più costrette a sacrificare i propri figli.
Che significato ha per Gorizia e Nova Gorica essere la nuova Capitale europea della cultura 2025?
Per me ha un grande significato simbolico. Sono cosciente che molte cose debbano essere ancora cambiate. Attraverso i confini ogni giorno e vedo che chi governa spesso e volontieri usa questo territorio per motivi propagandistici. Ma la gente che vive sul confine ha bisogno di sentirsi libera e capire che il mondo può essere visto diversamente.
Il confine orientale o occidentale, dipende dai punti di vista, è stato uno dei più complicati del ventesimo secolo. Per motivazioni politiche, la gente del confine ha dovuto subire esodi e persecuzioni. Le lingue parlate e studiate sono state ostacolate. Per fortuna, i giovani di oggi alla fine hanno trovato una soluzione. Non parlano più tre lingue come ai tempi dell’Impero Austroungarico, ma riescono a comunicare lo stesso. Parlando l’inglese.
Che cosa rappresentano le illustrazioni contenute nel romanzo e perché associarle al testo?
L’arte fa parte del mio essere. È il rovescio della medaglia. Chiunque si inoltrerà nella lettura del libro dovrà “subire” anche le mie illustrazioni. Sono in bianco e nero, sono documentaristiche e parlano di posti oggi quieti, ma disseminati delle ossa dei diciottenni di una volta che giacciono nei campi di battaglie lontane, combattute un po’ dappertutto lungo questi confini sfortunati.