In movimento Le autrici CLM a “scrittorincittà”
Scritto da Segreteria il 20 Novembre 2023
di Benedetta Torsello, autrice CLM
Cosa si prova a non appartenere a nessun luogo, a sentirsi diverse anche nella propria stessa famiglia o a convivere con un profondo senso di colpa, mentre si è alla ricerca della propria utilità e di uno scopo? Lo hanno raccontato alcune delle vincitrici del XVIII CLM, ospiti al Museo Casa Galimberti di Cuneo, per presentare la nuova antologia Lingua Madre Duemilaventitré (Edizioni SEB27) in occasione di scrittorincittà, festival letterario che da anni collabora con il Concorso.
Scrivere per guarire, per scoprire sé stesse e trovare il proprio posto nel mondo. «Un lavoro terapeutico e traumatico», lo ha definito Patrycja Holuk, autrice del racconto Le crociate, Premio Speciale Torino Film Festival. Holuk scrive di un viaggio, quello insieme alla nonna verso il funerale del padre che non ha mai conosciuto: un ricordo doloroso divenuto racconto solo dopo essersene «dissociata».
In gran parte dei testi, emerge chiaramente il tema dell’identità e la sensazione di vivere in una condizione liminare, in cui «si può essere tutto e niente», ha commentato Hasti Naddafi, attivista, artista e mediatrice culturale. Nel suo racconto Un sorso di casa, lotfan, Premio Speciale Slow Food – Terra Madre, la ricerca di una casa è lo scontro estenuante tra culture e mondi diversi: l’Iran, dove sono nati i suoi genitori, e l’Italia, a cui la protagonista non sente in ogni caso di appartenere. «Così si finisce per sentirsi diverse e diversi anche nella propria famiglia, con un divario identitario vissuto prima di tutto in casa e poi anche fuori».
Da un’altra prospettiva si pone, invece, la voce di Chiara Nifosì, autrice del racconto La dolce bizzarra, Premio Sezione Speciale Donne Italiane, in cui protagonista è l’amicizia tra due giovani donne, sullo sfondo delle proteste scoppiate più di un anno fa in Iran. Il privilegio dell’occidente di fronte alla tragedia che si consuma in un altro angolo del mondo diventa occasione per interrogarsi sulla ricerca del proprio ruolo: «Senza parlare al posto di qualcun altro, senza erigermi a eroina e senza neppure voltare lo sguardo altrove» ha spiegato Nifosì, denunciando così quanto pericolosa possa essere “la retorica del salvatore bianco”, al pari della violenza e della cieca indifferenza.
«Né vittime, né eroine sono le protagoniste dei racconti di questa antologia» ha aggiunto Daniela Finocchi, ricordando che in diciotto anni del Concorso Lingua Madre sono oltre 10 mila le donne che si sono raccontate e unite al progetto. Da quest’ultima edizione il sottotitolo è stato modificato in Racconti di donne non più straniere in Italia, a testimoniare il cambiamento avvenuto e la molteplicità di identità e provenienze che convive nelle autrici. «Il progetto, inoltre, si fa da sempre promotore di uno sguardo sessuato sul fenomeno migratorio e sulla capacità delle donne di cambiare il mondo, anche migrando» ha sottolineato l’ideatrice del Concorso.
In questi racconti il senso di appartenenza vacilla: è una ricerca inesausta e infinita. Forse per questo il richiamo alle radici familiari ritorna e, come una risacca, si infrange nelle appartenenze multiple delle autrici e delle protagoniste che si susseguono nell’antologia. La figura materna è molto spesso un modello da desiderare ed emulare, come nel caso di Naddafi – “Volevo essere come mia madre” si legge a più riprese nel suo racconto – e allo stesso tempo un monito che ricorda dolorosamente la propria diversità: “Nonostante lei fosse lì, accanto a me, percepivo una distanza incolmabile presente tra di noi”.
Altre volte il rapporto con la madre è un intricato sottotesto. «Mia madre non parla bene l’italiano – ha raccontato Holuk – ma a casa non parliamo neppure il polacco: viviamo in una sorta di terra di mezzo». E mentre la madre, che non compare direttamente nella narrazione, è come se fosse rimasta con la testa nel proprio paese d’origine; la nonna, nata in Polonia nel ’39, vive trincerata nella sua “torre comunista” e non vuole affatto tornare in Italia. In questa geografia emotiva così frammentata, l’autrice sembra aver trovato rifugio in una sorta di intermezzo, tra il passato e il presente.
Nella continua ricerca di identità e appartenenza, si finisce molto spesso per essere definiti e definite da qualcun altro: a scuola, in famiglia, al lavoro, per strada. «Si viene razzializzati – ha sottolineato ancora Naddafi – ovvero identificati a partire da tratti somatici che fanno supporre una determinata provenienza geografica, a prescindere dal reale luogo di nascita». Su questo tema si è aperto il dibattito con il pubblico.
In particolare c’è chi lavorando in ambito sociale ha manifestato la profonda difficoltà nel destrutturare gli immaginari nei confronti della diversità. Si tratta di riferimenti, «porti sicuri», che immediatamente ci consentono di definire l’Altra e l’Altro, senza i quali siamo in preda a un profondo disorientamento. Cosa si può fare allora per evitarlo o, quanto meno, per accelerare il processo di ribaltamento di certi stereotipi? «Non ho una risposta, – ha concluso alla fine Hasti Naddafi – le dinamiche di potere alla base del razzismo, così come il colonialismo, sono spesso interiorizzate anche da chi ha origine straniere. Quello di cui sono certa è che finché non saremo tutte e tutti disposti a rinunciare e perdere parte di quel potere, prima di tutto quello economico, non potremo mai dirci davvero antirazzisti».
Quelli di seguito gli scatti a cura del festival scrittorincittà.