Identità migranti nella scrittura delle autrici del Corno d'Africa
Scritto da Segreteria il 17 Giugno 2010
Di Moira Luraschi
Il nuovo fenomeno della letteratura postcoloniale in lingua italiana pone particolarmente l’accento sul tema dell’identità, intese come identità ibride, frutto di incontri e di scontri al tempo del colonialismo italiano. Autrici come l’italo-etiope Gabriella Ghermandi e Igiaba Scego e Cristina Ali Farah, ambedue di origine somala, ripropongono però questo stesso tema anche alla luce del nostro presente: le identità ibride, infatti, si rispecchiano oggi anche nelle storie di vita dei migranti che si trovano a vivere nel nostro paese. Da un’analisi dei romanzi di queste autrici, sembra che il colonialismo e la migrazione producano gli stessi effetti sulle persone che vivono sulla propria pelle l’incontro tra culture. Si tratta dunque di un tema che riguarda sia il nostro passato che il nostro presente.
Le indagini sociologiche, che non trattano di personaggi letterari, ma di persone reali che si destreggiano, più o meno con successo, tra diverse lingue, codici morali, regole sociali, mostrano come le identità migranti facciano del loro essere a cavallo di due mondi il loro modus vivendi quotidiano. Ciò che infatti emerge chiaramente sia da un’analisi dei testi letterari che dalle indagini sociologiche tra i migranti, è che le culture (e le lingue) non si scelgono, ma si vivono. La cultura di ognuno non è un abito che si può mettere o togliere a piacimento, specialmente la propria cultura di origine che, come diceva Montaigne nei suo Saggi “viene succhiata insieme al latte materno” e che si esprime inevitabilmente in una lingua madre. Quindi, le persone che vivono più culture e parlano più lingue, non vivono e non parlano a compartimenti stagni, ma spesso mescolano, fondono, integrano una cultura con l’altra, una lingua con un’altra, fino ad ottenere un risultato del tutto nuovo. Non si può scegliere la cultura di origine e forse neppure quella in cui ci si trova a vivere per i casi della vita. Heideggerianamente parlando, l’identità dei migranti è un “esserci attraverso” o, per dirla con un’espressione inglese, un’esserci betwixt and between: esserci attraverso i confini geografici, le lingue, i modi di vivere e di pensare. È in questo status liminale proprio dei migranti che le scrittrici postcoloniali affondano la loro ricerca stilistica.
La scrittura delle autrici sopracitate ha infatti elaborato nuovi mezzi narrativi per esprimere questo tipo di identità. Uno degli espedienti utilizzati, ad esempio, è quello di costruire intrecci molto complicati, con più voci narranti che raccontano il dipanarsi della trama, come nei romanzi di Cristina Farah e di Igiaba Scego, a cui a ogni voce narrante è affidato un capitolo o un paragrafo che porta il nome proprio della voce narrante. Nel romanzo di Gabriella Ghermandi questa impostazione narrativa è meno marcata, ma comunque presente. La pluralità delle voci narranti per raccontare un’unica vicenda comune rende bene l’identità plurale che abita nei singoli soggetti. In una poesia, incipit di una novella, Ghermandi spiega questa scelta poetica dicendo: “Siamo storie/ di storie nella storia/ Angoli o centri/ di trama e ordito/del tessuto del mondo” (Ghermandi 2004); in questo modo l’autrice vuole sottolineare l’intreccio di voci e di eventi che crea l’identità del singolo. Curiosamente utilizza anche la metafora della trama e dell’ordito di un tessuto, che viene ripresa anche da Cristina Farah. Nel suo romanzo, infatti, Cristina parla della faticosa ricerca della protagonista che cerca di “riannodare i fili” dei dispersi della diaspora somala (“Sono il filo sottile, così sottile che si infila e si tende prolungandosi. Così sottile che non si spezza. E il groviglio dei fili mostra, chiari e ben stretti, i nodi, pur distanti l’uno dall’altro, che non si sciolgono.” Farah, 2007, p.1).
Allo stesso modo, la trama viene complicata attraverso il continuo sbalzo di piani temporali con frequenti flashback: la condizione di esserci attraverso viene espressa anche in una dimensione temporale, che crea un fortissimo legame tra presente e passato, tra prima e poi.
Un altro elemento stilistico importante è la commistione tra lingua scritta e lingua orale: infatti queste autrici provengono da contesti culturali in cui il racconto scritto è un fatto piuttosto recente, come nel caso del somalo, che è diventato lingua scritta solo nel 1972. Tutta la tradizione narrativa nelle lingue madri di queste autrici è quindi orale, e si risente ancora molto nei loro testi scritti attraverso l’uso di epiteti e di formule standardizzate ripetute che compaiono per tutta la lunghezza del testo. In altro modo, come mostra lo stile di Igiaba Scego, il debito nei confronti dell’oralità si percepisce nella resa di un italiano colloquiale con tutte le sgrammaticature, i pleonasmi e i debiti nei confronti del dialetto che questo comporta. L’italiano, infatti, all’opposto di ciò che avviene per le lingue madri di queste scrittrici, nasce come lingua letteraria, come lingua scritta. La parte di oralità delle tradizioni popolari italiane è invece espressa nei dialetti locali. Ed è proprio a questi a cui si rifà in particolare Igiaba Scego, la quale riprende in più punti il romano delle borgate*. L’oralità a cui si fa riferimento, dunque, non è solo quella della lingua madre, ma anche quella dei dialetti italiani: un’attenzione stilistica propria di queste scrittrici che provengono da un contesti culturali in cui la narrazione orale ha molto più peso che nella lingua italiana.
Ma l’aspetto in cui maggiormente si evidenzia la capacità stilistica di “esserci attraverso” le lingue si ha proprio nel plurilinguismo presente nei romanzi di queste autrici. Cristina Farah inizia il suo romanzo con un refrein in somalo; Ghermandi dissemina termini amarici qua e là, dando anche un saggio di una lettera in alfabeto amarico che non viene tradotta pedissequamente proprio per rendere anche visivamente la suspance che dà trovarsi di fronte ad un’altra cultura (Germandi, 2007, p. 215 e 218); Igiaba Scego, invece, sceglie il plurilinguismo come tratto proprio del suo stile. Attraverso un alter ego letterario, Scego dice: “Mi chiedo se la lingua madre di mia madre possa farmi da madre. Se nelle nostre bocche il somalo suoni uguale (…). Ma poi, ogni volta, in ogni discorso, parola, sospiro, fa capolino l’altra madre. Quella che ha allattato Dante, Boccaccio, De André e Alda Merini. L’italiano con cui sono cresciuta e che a tratti ho anche odiato perché mi faceva sentire straniera. (…). Non saprei scegliere nessun altra lingua per scrivere. Il somalo scritto non è la stessa cosa”. (Scego, 2008, 442-443)
Scego parla chiaramente di più lingue madri che costruiscono l’identità dei soggetti migranti. A mio parere è proprio in questa pluralità di lingue, di culture, di punti di vista, di voci narranti, di piani temporali che si vedono gli apporti innovativi di questa nuova generazione di scrittori in lingua italiana.
*Altri autori stranieri che scrivono in italiano attenti all’aspetto linguistico dialettale sono il togolese Kossi Komla-Ebri, che prende a piene mani dal dialetto lombardo, e il congolese Jadlin Mabiala Gangbo, che si rifà al bolognese.
Bibliografia
Farah C., (2007), Madre piccola, Frassinelli, Roma
Ghermandi G., (2004), All’ombra dei rami sfacciati, carichi di fiori rosso vermiglio, in “El-Ghibli” 1,4 http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_01_04-section_1-index_pos_4.html
Ghermandi G., (2007), Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma
Scego I., (2008), Oltre Babilonia, Donzelli, Roma