Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale Un invito a riflettere sul rispetto di tutte le identità
Scritto da Segreteria il 21 Marzo 2024
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale 2024 il Concorso Lingua Madre propone la lettura del racconto dell’autrice CLM Leaticia Ouedraogo per riflettere sul tema e impegnarsi nell’abbattimento di pregiudizi e stereotipi.
SCEGLIERE L’ITALIA
di Leaticia Ouedraogo [Burkina Faso]
– Sono sue le ortensie?
– Sì, e anche i due cactus.
– È per un regalo?
– Sì sì, sono per mia madre. Anche i cactus sono dei regali, se mi può fare la confezione anche per quelli.
– Ok, certo, nessun problema… Che caldo oggi…
– Sì, veramente tanto. Ancora ieri pioveva a dirotto e oggi si cuoce sotto al sole.
– Ma tu sei abituata, col caldo che c’è da voi…Voi con questa pelle qua non vi bruciate mica.
– Prima di tutto mi dia del lei, grazie. Noi chi? Neri? Da noi dove? In Africa? Io comunque sono nata qui e sono stata adottata da genitori italiani bianchi. E non sono mai stata in Africa. Quindi non capisco di cosa parla, Signora. L’unico sole che conosco è quello del nord Italia.
Lei rimane scioccata e non sapendo cosa rispondere mi dice solo «Sono 29 euro…».
– Pago con la carta.
Pago e me ne vado con la rabbia che mi fa battere il cuore a ritmi insostenibili. Le vorrei vomitare addosso quella rabbia. Ma il conato mi rimane bloccato nell’esofago. Bloccato come la mia richiesta di cittadinanza.
Ho mentito. Io non sono nata in Italia e non sono nemmeno stata adottata da genitori italiani bianchi. Sono nata in Angola e mi sono trasferita in Italia quando avevo dieci anni. I miei genitori sono nerissimi così come lo sono io. Il famosissimo sole dell’Africa lo conosco benissimo. Però non cambia un bel niente per il modo in cui soffro il caldo dell’Europa. Assolutamente un corno. Ma vallo a dire a quella fiorista bigotta che manco sembra accorgersi che le sue parole catalizzano un’aggressione razzista nei miei confronti. Sono stanca di sentire queste cose. Mi fanno inalberare. Ma per la mia salute mentale, ho dovuto costruirmi una corazza sulla pelle, spalmarmi dell’olio idrofobo perché queste stesse parole mi potessero colare addosso senza entrarmi dentro e continuare a ferirmi e bruciarmi penetrandomi con la violenza di una battaglia coloniale. La violenza dell’iprite, del madamato, della legge 91/1992, degli accordi con la Libia. E che nessuno mi dica che sto esagerando. Perché lo so solo io come vivo le cose, lo so solo io come sono in grado o meno di sentire le cose, lo so solo io quanto mi fa male o mi rende triste non essere riconosciuta dal paese in cui ho compiuto diciotto anni, e poi anche venticinque. Nel paese in cui ho preso la patente, in cui mi sono laureata, in cui ho guadagnato il primo salario e pagato le prime tasse. Nel paese in cui ho partorito. Nessuno può davvero sapere o mettere in discussione quanto sia doloroso essere considerata straniera a casa propria. “Nemo propheta in patria” si dice… In verità “Nemo prophetaacceptus est in patria sua” dice il Vangelo secondo Luca. Ma io non sono una profetessa. Sono solo Agata. E mi può anche andar bene che non mi si accetti. Che almeno mi si riconosca in quanto italiana però. Anche se mi chiedo se sia possibile riconoscere qualcuno senza accettarlo. In ogni caso questa cittadinanza a me serve. Serve da sventolare in faccia agli amici di quella fiorista. O ai vecchietti che mi fermano alla stazione del treno e mi chiedono quanto prendo perché per loro le nere sono solo delle panterone da divorarsi a letto. O ancora ai carabinieri che mi chiedono automaticamente il permesso di soggiorno e non la carta d’identità, dato che quest’ultima non è valida per l’espatrio. Ma perché dovreste espatriarmi da casa mia? Perché volete continuare a compiacervi di avere il diritto di concedermi il “permesso” di stare sotto al vostro naso? Non è una filippica pietista eh. Ve lo giuro. Queste domande davvero mi attraversano la mente tra un groviglio di rabbia e l’altro. La cittadinanza mi serve anche per passare i concorsi pubblici. Anche se so che nulla di tutto questo potrà cambiare la percezione che gli altri hanno di me. Che io abbia la cittadinanza italiana in più di quella angolana non potrà smuovere quelle coscienze strette come le calli di Venezia oppure allargare le vedute monocrome e monolitiche come la Pietra Cappa. Italiani non solo si nasce. Lo si diventa anche. E non lo si diventa per rubare il lavoro a quelli che in Italia vi sono nati. E nemmeno perché lo si merita. Lo si diventa perché vi si ha diritto. Sì, proprio così. Diritto. Semplicemente.
– Mi manca solo l’estratto di nascita e il casellario giudiziario. Poi avrò tutto in mano.
– Scusa, mi sono persa nei miei pensieri. Per cosa?
– La richiesta di cittadinanza!
– Ah sì? Che bello.
– E tu? Li stai raccogliendo i documenti?
– No eh, sto ancora aspettando il responso della richiesta che abbiamo fatto io e mia mamma in Italia.
– Bah… Io non capisco perché ti ostini. È uno spreco di tempo. Posso capire tua mamma che alla fine ha vissuto solo in Italia e alla fine la richiesta la può fare solo là. Ma tu?! Ti sei trasferita in Germania prima di me, lavori qui da prima ancora che io finissi l’università. Hai tutti i requisiti. E nonostante tutto, sei qui che galleggi come un tronco di acacia nell’oceano infinito della burocrazia italiana. E aspetti. L’Italia non ti vuole e sicuramente non ti aspetta. Tu invece ti ostini e ti butti sempre tra le sue braccia, come una quattordicenne innamorata di un ventenne tutto palestrato che sarebbe in grado di accettare i peggio trattamenti perché è accecata dall’amore. Proprio tossico! Che poi a quattordici anni cosa sai dell’amore?
– Ti stai allontanando con le tue metafore. Bellissime tra l’altro. L’acacia è un albero bellissimo. E l’idea di essere un tronco non mi dispiace affatto. Poi i fiori di acacia in pastella, mamma mia…Bbbbboniiiiii!!!
– Ora chi si sta perdendo con le metafore?
– Volevo solo stare al gioco polla… In ogni caso ci tengo a ribadirti per l’ennesima volta che io la cittadinanza in Germania non la chiederò. Non mi sento tedesca. Non sono tedesca. Capisci, vero?
– E sei italiana invece se l’Italia non te la vuole concedere sta benedetta cittadinanza?
– Sì cara. Io sono italiana. Italianissima nonostante l’Italia, come una madre irresponsabile o un padre adultero, non mi riconosca. E, anzi, mi tratta come una bastarda che all’eredità non avrà diritto manco per sogno. Sono italiana nonostante tutto questo Giulia. Se l’Italia mi rinnega, io persisto con la scelta di non disconoscere il mio genitore. L’Angola è mio padre. L’Italia invece è mia madre. Anche se mio padre si è risposato con la Germania, e anche se io accolgo e rispetto questa nuova madre, la mia genitrice biologica è l’Italia. Così riesci a capacitarti della mia ostinazione?
– Tesoro mio… Guarda che non è che non capisco. Credo solo che a una certa devi rifiutare quello che non meriti e respingere chi o ciò che non ti merita. Se l’Italia, attraverso il suo apparato legislativo, non è in grado di apprezzarti e abbracciarti come una figlia legittima, tu accetta di gettarti tra le braccia della Germania che ha reso le condizioni e i tempi per acquisire la cittadinanza più umani.
– Non hai tutti i torti. Ma io proprio tedesca non lo sono. Non mi interessa il fatto che con un passaporto europeo potrei mettermi il mondo intero in tasca e schiacciare tutte le frontiere, i muri e le barriere del pianeta tra i palmi delle mie manine. Preferisco continuare a fare la fila gigantesca in aeroporto per i “Passaporti non-UE”. Preferisco continuare a cestinare le offerte di lavoro o i bandi pubblici dove scrivono in grassetto tra i requisiti “Cittadinanza italiana”.
– E perché ti devi torturare così se puoi saltare la fila, fare tutti i concorsi pubblici di cui hai voglia e tutto il resto?
– Puoi pensare che sia tortura. Ma per me è fedeltà e amore, verità per me stessa e nei confronti dell’Italia. Io sono italiana. Checché se ne dica.
– Ma non lo puoi nemmeno dimostrare…
– Ma perché dovrei dimostrarlo? È la polizia dell’identità? Io non devo dimostrare nulla a nessuno. Curioso che nessuno mi chieda mai di dimostrare che sono angolana. Sai, si vede sulla mia pelle, dicono. Ma il fatto è che il manto di pelle che racchiude i miei sogni, le mie pene e la mia storia sia nero (a dire il vero è marrone, ma vabbè) non dice assolutamente nulla dei rizomi che si intrecciano e danzano assieme nel disegnare la mappa poetica della mia identità. Tutti, italiani bianchi e non, angolani neri e non, vogliono che io dimostri che sono italiana. Che buffo… Persino tu Giulia. Tu che sei nera come me, che hai impressi i colori e i sapori di Abidjan e Mantova nell’anima.
– Ma non è così Agata… Mi dispiace se la mia rabbia contro l’Italia mi fa dire cose che ti feriscono…
– Ma anche io sono arrabbiata tesoro. Sono arrabbiatissima contro l’Italia, non gli italiani. Ma anche innamoratissima di lei. E che ci posso fare? Giulia, io sono italiana. Punto.
– Punto. Va bene…
– Brava, punto! Punto perché nonostante la stanchezza, la forza la troverei sempre per cantare una serenata all’Italia alle due di notte. A squarciagola per di più. Troverei le energie per tessere un’ode a questo paese. Andrei in capo al mondo per trovare la voglia e la grinta per salvare l’Italia se dovessi. Come Agamennone che dichiara guerra a Troia per salvare Elena. Oggi io scelgo l’Italia. E anche domani la sceglierò. Persino ieri la sceglievo. Il tutto senza dimenticare mai o abbandonare l’Angola. Sono italiana e angolana. Punto.
– Punto, amore mio. Ti voglio bene.
– Punto, amica mia. Ti voglio bene anche io.
Il racconto è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventitré. Racconti di donne non più straniere in Italia (Edizioni SEB27).
La fotografia La meraviglia dei contrasti è di Selma Jakupovic ed è stata selezionata al XVIII CLM per la sezione fotografica del Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.