Il mondo capovolto Giornata internazionale per i diritti dei e delle migranti
Scritto da Segreteria il 18 Dicembre 2024
La Giornata internazionale per i diritti dei e delle migranti è stata istituita dalle Nazioni Unite per riconoscere lo status delle persone migranti e riflettere sulle sofferenze che devono affrontare, al di fuori delle letture emergenziali o estremizzanti. In questo 18 dicembre il Concorso propone la lettura di un racconto inserito nell’antologia Lingua Madre Duemilaventiquattro. Racconti di donne non più straniere in Italia (Edizioni Seb27).
IL MONDO CAPOVOLTO
di Fulvia Fieni [Italia]
Ha chiesto di me. Salgo rapida le scale e percorro a uno a uno tutti i piani di questa grande nave. Fino ad arrivare a quello più alto: il numero 10. Il decimo ponte, il più triste e il più allegro, quello che accoglie le donne e i bambini. Mentre riprendo un attimo fiato non posso fare a meno di contemplare la meraviglia e la vita di questo piccolo mondo: ci sono bambini ovunque, nigeriani, senegalesi, ghanesi, etiopi, siriani, eritrei; bambini belli come il sole, timidi e curiosi insieme. Smarriti ancora, ma che piano piano prendono confidenza, si rincorrono, giocano, comunicano in questo strano esperanto di mille lingue, riempiono fogli di colori e disegni, scoprono che nel mondo esistono anche i biscotti Plasmon. Bambini quasi tutti senza padre, o con molti padri. Il ponte numero 10 è anche quello delle donne, delle madri, di quelle che di questo viaggio pagano il prezzo più duro. Ognuna di loro ha una storia che inizia in paesi diversi, ma che ha lo stesso epilogo. Sono storie di abusi, violenze, percosse, paura. Storie di cui rimane loro un dolore profondo e un bambino da portare al collo, legato sulla schiena o sui fianchi.
Ecco. La vedo, seduta là nella penombra. Sotto un telo di plastica, parete precaria di questo nostro improvvisato ambulatorio, creato per avere un angolo di pace e riservatezza nel trambusto della grande nave. Rannicchiata su se stessa, le spalle curve, le mani strette l’una all’altra, i polsi sottili, il collo reclinato tra le spalle, una massa arruffata di capelli a coprire il volto, gli occhi fissi a terra.
Hiwot, un nome che vuol dire vita. Non ha con sé la sua bambina, l’avrà forse affidata a qualcuna delle altre. Hiwot ha chiesto di parlare con me.
Difficile immaginare come due donne tanto diverse possano dialogare. Eppure tra noi c’è un filo invisibile. Un legame strano, fatto dei suoni e delle parole di una lingua condivisa, una lingua antica e orgogliosa come il popolo che la possiede. Ma fatto anche di ricordi. Cose semplici, ma che riempiono il cuore: le strade assolate e polverose sempre affollate di gente e di passi, il vento leggero del grande altopiano, l’aria fredda e tersa della prima mattina, l’alba abitata dagli shamma [1] delle donne che si recano in chiesa, le risate delle ragazze che s’intrecciano a vicenda i capelli sulla soglia delle case nei giorni di festa, i racconti degli anziani seduti tra le radici del Sicomoro, le canzoni saltellate dai bambini negli spiazzi tra le capanne, le loro urla mentre rincorrono le macchine a piedi scalzi, sui cigli polverosi delle strade, gridando “you you frengjjj”, le danze intorno al falò della fine dell’anno, le litanie recitate dalla voce cantilenante del prete ortodosso…
Condividiamo i ricordi di una terra lontana, lasciata e amata, e parliamo la stessa lingua.
O almeno la parlavo. Mi fermo ancora un attimo, chiudo gli occhi e cerco di ritrovare quei suoni, quelle voci, quelle parole dentro di me, le faccio crescere e risuonare nella testa, faccio affiorare i ricordi, perché possa capire. Ecco entro e mi siedo accanto a lei. La guardo e le sorrido. Hiwot è nervosa, deglutisce, cerca la voce, cerca il coraggio. Le dita si intrecciano spasmodicamente, lo sguardo è fisso a terra. Vuole raccontare, vuole dire, vuole parlare. Le sue sono all’inizio parole sommesse, sussurrate. Ma crescono, prendono forza, vigore. Diventano un fiume in piena che straripa. Come se volesse lasciare uscire tutto, vomitare quel peso che opprime, liberarsi finalmente.
E io posso solo ascoltarle. Accoglierle in religioso silenzio, consapevole che mi sta consegnando la sua storia. Una storia che non dimenticherò.
Hiwot viene da un piccolo villaggio vicino a Bahar Dar, nel cuore dell’Amhara, terra natale dei re del grande impero etiope. Dal suo villaggio vedeva il lago Tana, le sue acque calme con i riflessi del cielo. Qualche volta era scesa fino alla grande città con i genitori, per vendere prodotti al mercato o a qualche negoziante. E la città le era sembrata bellissima, soprattutto dopo le piogge quando gli alberi di Jacaranda e le bouganville si riempivano di fiori di mille colori e l’aria era greve dei loro profumi.
La sua vita non era diversa da quella di tante altre bambine. Lei era la prima nata della famiglia, per questo le era stato dato il nome Hiwot, vita. Per lei, per i suoi genitori. Dopo di lei altri due bambini: Tesfaye e Brhane, la mia speranza e la mia luce. Perché i suoi genitori erano così: semplici, poveri, pieni di rispetto per la famiglia e la tradizione, osservanti religiosi fino nei giorni di digiuno e preghiera. Vivevano di agricoltura: patate, caffè, piselli, orzo. Vivevano dei loro animali: capre, pecore e galline.
A scuola non c’era quasi mai andata. Le sue giornate erano piene di cose da fare: andare a prendere l’acqua alla pompa fuori villaggio, aiutare la mamma con i fratelli, guardare che non combinassero disastri mentre lavava i panni al fiume, stendere il berbere [2] ad asciugare al sole, preparare l’impasto per il pane o per l’enjera [3]. I giorni scorrevano così, segnati dalle piogge o dalla siccità, dalle feste religiose e dai viaggi verso il mercato della città.
Ad un certo punto avevano comprato un asino. Le piaceva così tanto: era docile, con dei grandissimi occhi. Per andare a prendere l’acqua lei gli montava in groppa per non consumare le scarpe. Al ritorno non le sembrava vero legargli le taniche sulla sella e potergli camminare accanto leggera, quasi fosse una passeggiata di piacere. Tekur, nero, lo aveva chiamato, perché era molto scuro.
Poi il mondo si era capovolto: suo papà si era ammalato. Una tosse prepotente si era impossessata di lui, in alcuni giorni non gli permise di lavorare, mangiare, alzarsi. A nulla erano serviti i tanti viaggi all’ospedale. Erano piano piano sparite le pecore, le capre, le galline, vendute ad una ad una per poter pagare medicine e visite. Poi era venuta la volta dei medici tradizionali, infusi e pozioni. E sua madre si consumava a furia di digiuni, preghiere e pellegrinaggi ai monasteri. Per ultimo era stato il turno di Tekur. Un giorno all’alba sua mamma era partita con lui per il mercato ed era tornata a piedi, da sola, senza una parola. A Hiwot si era spezzato il cuore, ma aveva inghiottito le lacrime. E il mattino dopo di buon’ora si era caricata le taniche sulla schiena ed era andata a prendere l’acqua alla pompa, senza Tekur.
Era stato il primo dei grandi saluti. Poi era andato via suo papà, portato all’ospedale e mai più ritornato. Il lekso [4] era stato breve, erano ormai troppo poveri e i vicini li avevano aiutati a mettere la tenda e a ricevere parenti e amici con shai e kolo [5].
La loro terra inaridiva, le loro pance sempre più spesso vuote, gli occhi sempre più grandi, la notte lunga e fredda…
Una mattina la madre li svegliò presto: aveva fatto il tè caldo e forte, tostato del pane e aveva comprato un po’ di zucchero.
«Partiamo» disse. «Andiamo in Sudan, lì dicono che ci sia lavoro. Qui non c’è più niente per noi».
Cosa ricordava di quel viaggio? Poco. Era stordita. Camminavano tanto, mangiavano poco. Non sapeva più dove era, riconosceva solo il fiume, l’Abay, lo stesso che nasceva dal lago Tana, le stesse acque lente dove si rifletteva il cielo. Al confine aspettarono giorni il passaggio sul camion per Giuba. Fu lì che persero Brhane. Una febbre scuotente lo lasciava bagnato di sudore con lo sguardo perso. Dopo tre giorni non si svegliò più. Non ci fu lekso, né parenti né vicini di casa. Una sepoltura veloce e il volto di pietra di sua madre.
A Giuba sua madre lavorava come cuoca per gli etiopi nelle costruzioni. A quei tempi Giuba era tutta un cantiere e i palazzi crescevano veloci… Un accampamento nel deserto che si era trovata a diventare capitale.
Sua madre lavorava tutto il giorno, curva sul fuoco per cucinare enjera e wot [6], sempre più grigia e curva. Lei invece era diventata ragazza, in mezzo alla polvere e alla sporcizia, a piedi nudi e con pochi vestiti addosso. Aveva imparato un po’ di arabo, a volte aiutava sua madre a cucinare, altre gironzolava senza meta insieme a Tesfaye. La notte si coricavano nel retro della cucina, condividendo lo stesso giaciglio ogni giorno più stretto.
Ma fu quando la madre annunciò che era ora che cominciassero a lavorare seriamente, lei come cuoca e lui come muratore, che la ribellione nacque in lei. Si vide come sua madre, la schiena irrimediabilmente curva, lo stesso odore di fuoco e fuliggine, il volto di pietra solcato di rughe senza più traccia della bellezza e della dolcezza di un tempo.
Spiego a Hiwot che la farò. Una segnalazione, una relazione che, chissà, forse le appianerà la strada per ottenere protezione, assistenza, asilo politico. O forse no.
Adesso lei è in piedi, lo sguardo dritto nei miei occhi, le lacrime asciutte e persino un sorriso mentre mi abbraccia, ringrazia e sembra più leggera.
Dopo giorni di stallo in mezzo al mare, stamattina è arrivato l’ordine all’improvviso: si sbarca, si va a terra. La nave si anima, freme, si agita, ci sono mille cose da fare… Ho un solo pensiero. Faccio le scale di corsa, attraverso il ponte numero 10, busso ed entro quasi senza aspettare risposta.
Hiwot è raggiante: ha gli occhi spalancati, quasi saltella, stringe a sé Abaynesh.
«Guarda» le dice indicando l’oblò. «Guarda, quella è l’Italia… Siamo arrivati». Poi si volta verso di me, mi abbraccia, piange, ringrazia. «È l’Italia, adesso possiamo avere una vita nuova».
Quando si avvicina la banchina di cemento grigio di Porto Empedocle ho un’emozione strana, un nodo che si stringe in gola. Mi trovo a recitare silenziosamente una preghiera:
“Ti prego fa che la strada le sia lieve,
fa che sia baciata dal sole,
che ci sia amore e calore e scuola e lavoro e pane spezzato e famiglia
e mai più solitudine…
Ti prego che ci sia vita anche per loro…”.
[1] Scialli bianchi tipici.
[2] Peperoncino rosso.
[3] Tipo di focaccia tradizionale.
[4] Funerale, ma letteralmente il pianto.
[5] Tè e semi tostati.
[6] Sughi tipici.
Fotografia Global Community Passport di Valeria Natalia Moncada Bustamante con Mariapaola Infuso, Palmina Montanari e Paola Pavan (Bolivia e Italia), selezionata per il Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XIX edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.