Che cosa pensano i ragazzi? I racconti degli studenti dell'Istituto Comprensivo di Govone
Scritto da Segreteria il 05 Maggio 2017
La XII edizione del Concorso Lingua Madre è stata una nuova occasione per le/gli studenti della classe 3^A dell’Istituto Comprensivo di Govone (Scuola Secondaria di I° grado “N. Costa” di Priocca – CN), guidati dalla professoressa Maria Teresa Cravanzola, di mettersi in dialogo e in relazione tra loro e attraverso la scrittura sui temi inerenti alle migrazioni, all’identità, al rapporto con l’alterità e al valore della/e differenza/e.
Diamo spazio dunque ai racconti e alle riflessioni dei ragazzi dell’istituto che non hanno potuto aderire al Concorso Lingua Madre – in quanto espressamente dedicato alle donne e alle giovani straniere – ma che sono comunque importante testimonianza della visione e dello sguardo che i più giovani hanno sulla realtà, sulle donne e sui cambiamenti in atto nella società.
Di seguito gli elaborati.
COME GLI OCCHI DI UN RAGAZZO VEDONO LE DONNE STRANIERE IN ITALIA
di DAVIDE BERTOLOTTO
In Italia ci sono molte donne straniere, alcune sono venute per cercare lavoro, altre per raggiungere la propria famiglia, altre ancora per scappare dalla guerra.
La maggior parte delle donne straniere sono di nazionalità marocchina, macedone e romena ma anche cinese e russa.
Secondo me queste donne non si sentono a proprio agio, pensando di essere più deboli e inferiori rispetto a quelle italiane.
Io ho conosciuto molto bene una donna straniera, di nazionalità romena, il cui nome è Maria.
È venuta in Italia da sola per cercare lavoro, lasciando il marito e la figlia, ancora studentessa, in Romania. Il lavoro lo ha trovato nella casa della mia bisnonna come badante.
Giorno dopo giorno ha imparato la lingua italiana, che prima conosceva poco, e le abitudini della nostra famiglia.
Molto attenta nella cura della bisnonna e della casa, ha fatto subito amicizia con tutti noi. Io l’ho vista come una donna della famiglia e ho fatto l’abitudine a trovarla ad aprirmi la porta, quando andavo dalla bisnonna; la consideravo come una zia.
È stata sempre aiutata e rispettata da tutti noi anche nei suoi momenti tristi, come quando le è morto il marito.
L’ho vista molto pratica sia nella cura del giardino, nel cucinare, con la bisnonna.
Molto brava nel lavorare con l’uncinetto, ha regalato una tovaglia alla mia mamma.
Io ho avuto questa esperienza con Maria che mi ha lasciato un bellissimo ricordo. Purtroppo le notizie che si sentono sulle donne straniere sono anche tragiche, in particolare di alcune maltrattate, sfruttate; pensandoci bene, non solo loro, anche quelle italiane e anche gli uomini.
LA VITA COMPLICATA
di SIMONE BIANCO
Molte donne straniere tentano di venire in Italia perché credono che qui la situazione sia migliore, anche se, a volte, non è così, perché le difficoltà da affrontare non sono poche. Prima tra tutte la lingua, quindi la comunicazione e i rapporti con gli altri possono essere complicati, la religione può essere un fattore discriminante e anche le abitudini molto differenti.
Queste sono le difficoltà che ha incontrato anche Aya, una ragazza marocchina arrivata in Italia all’età di sedici anni.
La sua famiglia aveva affittato un alloggio nella casa dei miei nonni.
Un giorno il suo cagnolino scappò e arrivò fino al nostro cortile.
È stato così che ci siamo conosciuti.
Siamo subito diventati amici ed è per questo che ha deciso di raccontarmi quanto fosse difficile la sua situazione prima di venire in Italia.
Già all’età di dieci anni lavorava per un signore di una ricca famiglia, cercando di aiutare i suoi genitori con i pochi soldi che riceveva.
Il suo papà era un muratore, mentre la sua mamma una donna delle pulizie; le sue tre sorelle venivano affidate ai nonni.
Dopo qualche anno, il padre perse il lavoro e, poiché il sussidio di disoccupazione durava solo sei mesi, la famiglia decise di venire in Italia.
Data l’età di Aya e delle sue tre sorelle, riuscirono a risparmiare sul biglietto dell’aereo e a trovare una sistemazione temporanea.
Grazie all’abilità nel suo lavoro, il padre è riuscito a trovare subito un’occupazione, mentre la madre è rimasta a casa per dedicarsi alla famiglia.
Aya ha così potuto studiare e, finita la scuola, ha trovato lavoro in una fabbrica, in cui si trova ancora oggi.
Nonostante le difficoltà vissute da bambina e quelle incontrate in Italia, oggi Aya, si è perfettamente integrata nella società, riuscendo a sposarsi e ad avere dei figli.
Grazie ai suoi sforzi ha così realizzato il suo grande sogno, quello di spostarsi in Lombardia.
LA STORIA DI ANA
di MANUEL BORGOGNO
Ho conosciuto per la prima volta Ana all’età di sei anni, mentre il mio papà ed io ci trovavamo al supermercato a fare la spesa.
L’abbiamo incontrata una mattina di aprile sul piazzale al mercato; lei così fece conoscenza con i miei genitori e un giorno fu ospitata a casa mia per conoscerla meglio e per un eventuale colloquio di lavoro.
Mi ricordo che un pomeriggio eravamo andati a fare una passeggiata nelle colline vicine, colme di tulipani tutti variopinti che formavano bei disegni.
C’era anche un fiume dove noi ci fermammo a fare un pic-nic.
Per il pasto lei preparava sempre dei deliziosi cibi della sua terra, perché era una vera e propria cuoca e mi insegnò a preparare molte torte.
Ana era una donna albanese, madre di tre figli, che non era riuscita a trovare lavoro in Albania. Ogni giorno di quegli anni i miei genitori mi lasciavano sotto la sua custodia, perché si fidavano di lei.
Quando i miei genitori si assentavano per lavoro, lei faceva come una vera e propria mamma, cioè mi accompagnava a scuola, mi preparava il pranzo, la cena, mi aiutava a fare i compiti e provvedeva alle faccende domestiche.
Cresciuto, ero molto desideroso di andare in Albania a conoscere la sua famiglia.
Il viaggio in aereo è stato molto confortevole ma allo stesso tempo anche lussuoso.
Una volta arrivati all’aeroporto, la sua famiglia ci aspettò in macchina per portarci nella loro casa ancora da ultimare.
Ci fermammo da loro una settimana, in cui andammo a visitare il territorio albanese con le sue meraviglie.
Mi ricordo anche che, qualche giorno prima del termine della vacanza, andammo a fare una bella gita nel parco acquatico più grande: Elbasan.
I miei amici e io ci divertimmo un mondo tra scivoli mozzafiato e tuffi da paura.
Il padre faceva il pompiere, impegnato soprattutto negli ultimi giorni nell’incendio più grande che l’Albania avesse mai visto.
Ci raccontò che, di solito, il lavoro in caserma è molto faticoso perché bisogna essere sempre pronti all’emergenza, cioè, se scoppia un incendio, bisogna subito cambiarsi, mettersi la maschera antigas, la tuta per intervenire immediatamente sul posto e salvare più vite possibile.
Ormai la permanenza in Albania stava per finire e ciò mi dispiacque, perché mi rattristava lasciarli in una situazione economica non delle migliori.
Durante il viaggio di ritorno pensai a come potessi essere d’aiuto a questi nuovi amici; così arrivati a casa, raccolsi un gruzzoletto di soldi dalla mia paghetta e li mandai via posta per aiutarli nelle loro spese.
Tutti i discorsi negativi che si ascoltano dai media riguardo alle donne straniere non sono del tutto veritieri perché́, secondo l’esperienza che ho vissuto, posso confermare che ci sono madri, sorelle che si impegnano e faticano a cercare un lavoro onesto come quelle italiane.
UNA DONNA CORAGGIOSA
di ANDREA ORESTE CORDERO
Nell’estate del 2012, grazie ad una cliente del bar in cui lavora la mia mamma, la mia famiglia ed io, i miei cugini e i loro genitori fummo invitati nella sua casa delle vacanze in Marocco.
Una sera la mamma ci raccontò come fosse arrivata in Italia.
Hannan è nata da una famiglia benestante che abitava nel centro di Safi, una città al centro del Marocco.
Ha un fratello che giocò con noi e ci spiegò qualcosa sul territorio.
Hannan non ha mai rispettato molto le regole, infatti è andata a scuola e tuttora non indossa il velo. In Italia ha preso la patente.
Si trasferì in Italia, si sposò dopo anni e ebbe una figlia.
Lei e suo marito trovarono lavoro entrambi, lui, geometra, aveva progettato anche la casa in cui ci ospitarono.
Era una casa nella periferia di Safi, vicino all’oceano.
Un euro da loro valeva circa dieci dirham, quindi non fu molto difficile pagare i lavori.
In casa avevano una sorta di maggiordomi che costruivano, cucinavano e accudivano gli animali. La loro era una casa molto spaziosa, costruita su tre piani, con una decina di camere da letto, una grande cucina e un enorme soggiorno con la piscina.
Si viveva e si mangiava bene.
Loro ogni giorno bevevano il tè, ma la particolarità era l’acqua che dava sapori diversi a seconda della casa in cui veniva preparato.
Un giorno ci hanno cucinato il cous cous che, per tradizione, si mangia seduti intorno a una tavola rotonda.
L’anno scorso la famiglia ha venduto la casa a una squadra di calcio del posto, anche perché per loro aveva un costo fare avanti e indietro con la nave o il traghetto per andare in Marocco.
Al giorno d’oggi è difficile trovare una famiglia che ti ospiti e ti tratti bene come hanno fatto Hannan e suo marito, chissà se magari, un giorno, potremo ripagare la loro ospitalità̀.
MADRE E FIGLIO, STORIA DALLA ROMANIA
di SIMONE CORDERO
Mariana è una signora romena.
Prima di venire in Italia, viveva in una famiglia povera, non come la mia, che abita in una casa confortevole, può scegliere che cosa mangiare e ha la possibilità di viaggiare.
Mariana, alla mia età, non passava il pomeriggio al computer, ma nei campi, a seguire le capre.
Il suo problema principale era di avere tutti i giorni qualcosa nel piatto.
Non riesco neanche a immaginare una simile povertà, se penso alla quantità di cibo che mi aspetta ogni giorno sulla tavola.
Mariana ricorda quando da piccola suo padre rincorreva le galline per ammazzarle e lei cercava di metterle in salvo, rischiando anche le botte.
L’amore per gli animali era più grande della fame.
A Natale si ammazzava il maiale, lo stesso maiale con cui Mariana aveva giocato fino al giorno prima: Mariana odiava il Natale e aveva i suoi validi motivi.
Quando gli altri bambini attendevano Babbo Natale, Mariana aspettava che finisse il Natale, tanto a lei non sarebbe arrivato nulla, i regali se li costruiva da sola.
Ad esempio la slitta per andare sulla neve era fatta con un sacco di plastica imbottita di paglia, le bambole erano lavorate con la lana e vestite con ritagli di stoffa.
Nonostante questa vita difficile, Mariana andava a scuola: due chilometri a piedi con scarpe rovinate e d’inverno, quando la temperatura scendeva a meno quindici gradi, stivali di gomma e piedi gelati.
Poi nacquero i suoi fratelli, prima Nelu, poi Cristian, Aura e infine Marian.
Essere la sorella maggiore di quattro fratelli voleva dire che il lavoro non finiva mai.
Al ritorno da scuola, se non c’era niente di pronto, Mariana si metteva a impastare il pane o a cuocere la polenta per tutti.
Ancora oggi ricorda quello che diceva il fratello Cristian: “Cosa si mangia oggi? A colazione, latte e polenta; a pranzo cambiamo, polenta e uovo, e a cena? Polenta e formaggio!”.
Il menù non cambiava mai.
In primavera iniziavano i lavori nei campi e i genitori pretendevano che Mariana li raggiungesse con la zappa per aiutarli.
Durante le vacanze estive, ai tempi della dittatura di Ceausescu tutti e cinque lavoravano nei campi dello Stato per guadagnare pochi soldi, che sarebbero serviti per comprare in autunno il materiale scolastico.
In Romania ogni famiglia possedeva un pezzo di terra troppo piccolo per sfamare uomini e animali, quindi i ragazzi portavano al pascolo le capre nei campi statali.
Se arrivavano le guardie, i ragazzi fischiavano e le capre cominciavano a correre verso casa. Mariana ricorda che le capre erano così veloci che era difficile raggiungerle.
In Romania la scuola superiore è obbligatoria e si può scegliere se frequentare il liceo o una scuola professionale.
Mariana aveva scelto il liceo; era un grosso sacrificio perché la scuola era lontana da casa sua e lei doveva vivere in un collegio.
C’erano regole rigide e orari da rispettare: sembrava quasi una caserma.
Il fine settimana gli studenti si lavavano i vestiti per la settimana successiva; Mariana aveva con sé un paio di pantaloni di velluto rosso, una maglia rosa, una giacca, una tuta e un pigiama.
Ad un certo punto, però, suo padre non ebbe più la possibilità di pagarle il collegio e quindi, per continuare a frequentare il liceo, dovette prendere il pullman, che partiva alle quattro di mattina, tornando alle sette di sera.
Durante il viaggio doveva svolgere i compiti, perché arrivata a casa, aveva solo tempo per lavorare.
La vita di Mariana cambiò all’improvviso al matrimonio della cugina.
Alla festa erano presenti molto invitati italiani, per lei motivo di curiosità.
Quando arrivò il momento di ballare, Mariana invitò un giovane che se ne stava in disparte e non sapeva ballare.
Fu amore a prima vista.
Dopo pochi mesi passati a scriversi delle lettere, decise di andare in Italia per conoscersi meglio. In poco tempo si sposarono e per lei cominciò un’altra vita.
I problemi, però, non erano finiti.
“Lasciare la mia famiglia, ambientarmi in un paese straniero, imparare la lingua italiana e usare la lavatrice” dice Mariana, “Non è stato facile. Sto scherzando, ma anche usare per la prima volta gli elettrodomestici che non avevo mai visto, non fu semplice. Ad esempio la lavatrice: io guardavo lei, lei guardava me e nessuno faceva il primo passo”.
Per lei tutto era nuovo e si stupiva dei carrelli pieni del supermercato, dell’abbondanza di cibo e di quanto mangiassero gli italiani.
Oggi Mariana pensa e prega in italiano, ma il suo stupore nei confronti della ricchezza degli italiani non è cambiato.
Nel frattempo la famiglia si è allargata: nel 1997 è nata Sara.
Per Mariana è stato uno dei più grandi regali che abbia mai ricevuto. Nel 2003 sono nato io.
NON SIAMO DIVERSI
di AURELIO ALESSANDRO LABATE
Io conosco un’amica della mia mamma che ha origini siriane; il suo nome è Monia.
Lei racconta sempre la storia di come è arrivata in Italia, spiegando sempre che era in pericolo per la guerra e ogni giorno rischiava la vita, anche solo uscendo di casa.
Lei sapeva di avere uno zio a Torino; era rimasta orfana, però aveva una sorella più grande di due anni.
Per cercare di scappare avrebbero dovuto prendere un barcone, perché non avevano il passaporto.
Quindi lei e sua sorella rimediarono dei soldi, non so come, perché non me l’ha mai detto.
Un giorno si imbarcarono e fuggirono.
Lei racconta che era pieno e, se non stavi fermo, potevi cadere.
Quando erano quasi arrivati, gli scafisti dissero a tutti di buttarsi in mare perché c’era una nave della guardia costiera nelle vicinanze.
Sua sorella non sapeva nuotare, quindi adesso Monia non sa se sua sorella sia viva o morta.
Oggi lei lavora a Torino e abita con suo marito, che non la costringe a portare il velo, e ha un figlio di nome Abdul, che ha tre anni.
Monia non ha paura quando racconta questa storia, è solo triste per la sorella, perché non sa che cosa le sia successo.
A parte questo adesso è felice per come vive e, secondo lei, ha fatto la scelta migliore. Vive in Italia già da tre anni e parla l’italiano quasi correttamente.
UNA DONNA E IL SUO PASSATO
di CLAUDIO MAROLO
Ogni tanto a casa nostra viene una signora marocchina a fare le pulizie, anche se ha già un lavoro.
Il suo nome è Abdula.
Abdula è una donna di quarantadue anni, con la pelle scura, i capelli castani e gli occhi più scuri del carbone, infatti non sono mai riuscito a distinguere le sue pupille dall’iride.
È una donna meravigliosa, gentile con me ma anche con tutti, simpatica; parla benissimo l’italiano e non è più musulmana.
Di lei conoscevo tutto, tranne un piccolo particolare.
Quando pulisce, si tira su le maniche, così ho visto una lunga cicatrice partirle dall’avambraccio e finirle sulla mano.
Allora, dopo alcuni mesi, le chiesi che cosa le fosse capitato e, senza nemmeno volerlo, lei iniziò a raccontarmi tutta la sua storia.
Se avessi saputo che avrebbe parlato così a lungo, non le avrei chiesto nulla.
Abdula è nata in un villaggio che lei, e tutti i suoi compaesani, chiamano “Amahar”, ma in realtà il suo vero nome è “Agadir”.
Una volta era un vecchio paesino formato da capanne fatte di fango, foglie e sterpaglia, oggi è una grande città in riva al mare, piena di case e grattacieli.
Lei era la più piccola di tre fratelli e quattro sorelle, delle quali due gemelle che l’avevano accudita come una figlia.
Suo padre era un contadino, mentre sua madre una casalinga.
Abdula già da molto piccola partiva con le sue sorelle di primo mattino per lavorare nei campi del padre, mentre i tre maschi andavano a caccia di qualche animale da cucinare. Tornava a casa al tramonto senza, la maggior parte delle volte, aver pranzato, mentre a cena mangiava quel poco che riuscivano a raccogliere nell’orto e a cacciare.
Per l’acqua erano stati molto fortunati, perché nel loro villaggio c’erano tre pozzi di acqua potabile.
Essendo la più piccola tra i fratelli, veniva presa sempre in giro da tutti, tranne che dalle gemelle che, al contrario, l’hanno sempre difesa e protetta ogni istante da quando era nata.
Lei ha sempre avuto la passione per lo studio e col passare degli anni imparò a leggere e a scrivere, desiderando andare a scuola per imparare sempre di più.
In questo modo si procurò quella lunga ferita.
All’età di diciannove anni, mentre stava cercando di leggere dei vecchi libri trovati in casa sua, una banda di bulli cominciò a prenderla prima in giro per la sua passione per lo studio e poi le lanciarono oggetti a caso, finché una grossa pietra le finì su un braccio.
Dopo alcuni giorni di dolore i suoi la portarono in un piccolo ospedale, dove le dissero che aveva avuto una distorsione al tendine e cercarono di operarla con urgenza.
Le aprirono il braccio, senza anestesia, e le misero a posto il tendine; il dolore fu atroce. Una signora, venuta a sapere del fatto, andò in Marocco e le propose di tornare con lei in Italia, dove avrebbe potuto studiare e trovare un posto di lavoro stabile.
A questa proposta furono tutti, anche se a malincuore, d’accordo.
Ora Abdula è in Italia da più di vent’anni, ha trovato lavoro alla “Ferrero” e anche a casa nostra.
Da quando è in Italia ha anche spedito una volta al mese un po’ di soldi alla famiglia e dopo dieci anni sono riusciti a riunirsi tutti quanti.
Ora hanno tutti una famiglia e un lavoro, proprio come lei.
HELENA: LA BADANTE 2.0
di DIEGO SCANAVINO
Non ricordo quando ho visto la signora Helena per la prima volta.
I suoi occhi azzurri e la sua risata coinvolgente hanno sempre accompagnato le nostre vacanze estive in Liguria.
Lei, infatti, abita nell’appartamento accanto al nostro, a Borghetto Santo Spirito.
È una persona simpatica e intelligente ma anche molto riservata, per questo sappiamo poco della sua vita prima di arrivare in Italia.
Ha cinquantacinque anni e se n’è andata dall’Ucraina qualche anno prima che io nascessi. Nonostante la sua timidezza, ama chiacchierare con noi, raccontando a me e a mia sorella come siamo cresciuti dalle prime volte che ci ha visti.
A Borghetto lei ci starebbe tutto l’anno, ma Bruno no.
Bruno è il signore, quasi novantenne, di cui si prende cura.
Nonostante lui sia un grande appassionato di mare e pesca, durante l’inverno preferisce stare nel suo paesino, nel ferrarese, perché è molto legato alla sua casa, all’orto e ai suoi amici.
Ogni anno, però, appena arriva giugno, caricano la macchina e la signora Helena guida per quattro ore per portarlo, come dice lui, a “ricaricare le pile per l’inverno”.
Definirla una badante sarebbe riduttivo.
Si tratta, infatti, di una persona molto intelligente, tant’è vero che il suo italiano migliora continuamente.
In Ucraina era un’insegnante di musica e suonava il pianoforte.
Nonostante non sia più capace, perché non si allena da anni, è molto interessante quando parla degli strumenti tipici della sua zona.
Ha lasciato nel suo paese una figlia molto giovane che, qualche anno dopo la sua partenza, le ha dato l’adorata nipotina Maria.
Purtroppo non l’ha mai conosciuta, perché il viaggio sarebbe molto lungo e il Signor Bruno non riuscirebbe a stare senza di lei per troppo tempo.
Per fortuna, grazie alla tecnologia, riescono a vedersi e a sentirsi quasi tutti i giorni.
Quando non era ancora tanto capace a usare Skype, veniva con il computer sul nostro balcone per farsi dare qualche dritta.
È bello sapere che, insegnandole a usare Internet, abbiamo contribuito a farla sentire più vicina ai suoi cari.
Oltre alla sua curiosità e alla sua intelligenza, di lei mi colpisce il modo in cui accudisce il signor Bruno.
Non si limita, infatti, a fare la spesa, cucinare e pulire la casa per lui.
Si informa sempre su cosa può fargli bene per tenerlo in forma.
Helena gli prepara profumatissimi pranzetti e dei centrifugati che, anche se meno buoni, fanno molto bene alla salute.
Gli fa anche sempre compagnia, portandolo a passeggio e giocando a carte con lui. Inoltre si occupa anche delle faccende burocratiche: banca, bollette, nessuno la ferma! Insomma, il signor Bruno si deve ritenere fortunato, visto che è anziano e non ha figli che lo possano seguire.
Anche noi amiamo chiacchierare con Helena, perché ogni volta ci arricchiamo, sentendo parlare di una realtà completamente diversa dalla nostra.
MIA CUGINA
di MATTEO SCOFFONE
È entrata a far parte della mia famiglia Irene.
Lei ha ventinove anni ed è originaria della Spagna, più precisamente di Tarragona.
L’ho conosciuta grazie a mio cugino Dimitri.
Era l’estate del 2011, quando organizzò una vacanza in Spagna.
Lì ebbe l’occasione di conoscerla durante un pomeriggio in spiaggia.
Si sono trovati così bene che Dimitri decise di tornare da lei per trascorrere insieme il Natale.
In quel momento scattò una decisione significativa per lei: lasciare la sua patria per raggiungere l’Italia.
Ebbe la possibilità di fare ciò, dato che aveva concluso i suoi studi a Barcellona.
Diventò cittadina italiana l’estate successiva.
Irene è una ragazza solare, creativa, socievole, capace di mettersi in gioco.
Da subito ha imparato ad apprendere la lingua italiana, non mettendo da parte quella spagnola. Successivamente, grazie a Dimitri, ha imparato parecchie parole in dialetto piemontese: è molto brava!
Ha lavorato da Eataly e in un agriturismo, che ha dovuto abbandonare per l’arrivo del figlio Leonardo.
Ora, oltre a fare la mamma, visto che ha molta fantasia, crea dei pupazzi di diverso materiale e dimensione.
Ama parlare entrambe le lingue con il figlio, sperando che le ricordi tutte e due.
In Italia si trova bene, anche perché le differenze tra i due Stati non sono così marcanti.
Avendo delle agevolazioni con i trasporti, riesce a tornare in Spagna più di quattro volte l’anno per rivedere la sua famiglia.
Irene è molto soddisfatta della sua scelta ed io sono contento di averla conosciuta.
Spero di andare presto in vacanza a Tarragona con lei.
LA STORIA DI SALIA
di KLEJDI SPAHO
Salìa, nata a Marrakech, è una donna marocchina ottima lavoratrice, indipendente ma allo stesso tempo solare.
Lei sa sorridere anche nelle situazioni dure, buie e tristi; sente tutti i dispiaceri sulle spalle, pesanti come il mondo, che a volte non riesce neanche a risolvere.
Lei si preoccupa per tutti, anche per una persona insignificante che chiede l’elemosina, seduta sul pavimento di un centro commerciale.
Io voglio raccontare la sua vita, perché merita di essere raccontata.
Salìa si è sposata molto giovane con un uomo assai protettivo e coraggioso che, però, sotto l’effetto dell’alcool, si fa comandare come se fosse un burattino di legno.
Suo marito, Mossaab, ha avuto due figli con lei: Yassin e Karim, due ragazzi molto svegli e simpatici.
Ricordo che ogni pomeriggio volevo andare a giocare in cortile con loro; mi divertivo.
Non è per questo, però, che voglio parlare di Salìa; voglio raccontare di lei per il fatto che è stata vittima di maltrattamenti maschili.
Lei abitava vicino a me, praticamente era la mia vicina e ogni sera, sempre alla stessa ora, sentivo le sue grida perché il marito tornava a casa ubriaco fradicio dal bar e non ragionava con la testa: la violentava e minacciava.
Finché un giorno un abitante del nostro stesso condominio chiamò la polizia.
Quel giorno, oltretutto vicino a Natale, il marito venne arrestato, ammanettato e portato in prigione.
Questo fatto è avvenuto sei anni fa.
Lui è ancora adesso in prigione, dunque la pena inflitta non è stata assolutamente leggera. Questa è stata la giovane vita di Salìa.
Ora dorme in eterno a causa di un cancro maligno.
La sua vita non è stata rosea, però questa donna merita che la sua storia venga raccontata.
Spero che sappia che io ho scritto un testo per ricordarla.
Addio Salìa!