La normalità negata Intervista a Gordana Grubač
Scritto da Segreteria il 13 Marzo 2024
In occasione della riedizione del volume La normalità negata, la scrittrice e autrice CLM Gordana Grubač racconta in questa intervista il suo libro, pubblicato dalla casa editrice Besa Muci.
Come recita la quarta di copertina, gli undici racconti che compongono l’opera narrano le storie di uomini e donne senza nome che fuggono da un passato disseminato di troppe assenze e provano a ricominciare in un altro paese, sullo sfondo delle guerre che negli anni ’90 portarono alla dissoluzione della Repubblica Federale di Jugoslavia. Il ricordo del passato e l’incertezza del presente si fondono con l’obiettivo di raccontare le identità delle persone protagoniste senza cristallizzarle in una definizione, ma cercando di rispondere a una domanda universale: dove si trovi la felicità e se esista una patria in cui si abbia la certezza di trovarla.
Grubač spinge i lettori all’interno di una realtà complicata davanti a cui non si possono chiudere gli occhi. Chi decide di andarsene dal proprio paese d’origine ha una storia che deve essere raccontata e non deve essere oscurata da una semplice analisi storica e numerica degli spostamenti migratori. L’autrice mette in luce in modo lucido e diretto il sentimento di nostalgia di una terra abbandonata e la difficoltà di integrazione in un nuovo paese che tende a dimenticare l’importanza delle vite dei singoli, concentrandosi su dinamiche burocratiche come un certificato di cittadinanza, un nuovo lavoro o addirittura la nascita di un figlio.
Il suo libro La normalità negata non ha l’obiettivo di far prevalere il contesto storico. Lei sceglie di dare maggior rilievo alla storia personale dei/delle protagonisti/e. Perché questa scelta e quanto ha inciso la sua esperienza privata sulla scrittura delle storie?
Se per il contesto storico si intende una cornice temporale come, per esempio, gli ’90 e un luogo come l’Ex-Jugoslavia allora i miei racconti sono inseriti in un contesto storico.
Se invece per il contesto storico si intende il contenuto di quel decennio, ovvero la storia sui buoni e sui cattivi, allora la risposta è che l’unica storia che mi sento di raccontare è quella che ho vissuto in prima persona e che ho visto accadere alle persone che conosco. Purtroppo, la mia esperienza personale con la storia recente è complicata. Ho sentito tante versioni di quanto accaduto nell’Ex-Jugoslavia, io ne sapevo poco e di quel poco che sapevo dubitavo fortemente e tutt’ora ne dubito.
La storia veniva filtrata dal regime, distorta dai media, influenzata dalla soggettività di chi la raccontava o semplicemente omessa. Ecco perché non mi verrebbe in mente di raccontare i fatti storici. Ho scelto consapevolmente di raccontare quello che ho provato io mentre quella storia incerta stava accadendo perché so che quelle emozioni e quei fatti sono autentici.
I miei racconti sono influenzati molto dalla mia esperienza personale, soprattutto la parte che riguarda le proteste degli studenti alle quali ho sempre preso attivamente parte.
La ricostruzione di una normalità negata per chi vuole ricominciare a vivere in un altro paese è un tema ricorrente nella sua scrittura. Come sono maturati in lei il sentimento e il desiderio di libertà?
In quegli anni ho visto tanti amici andare via dal paese. Non sapevo che un giorno me ne sarei andata via anche io. Il desiderio di libertà non matura, è innato, c’è sempre, solo che si attiva nel momento in cui questa libertà viene minacciata. È un istinto primordiale ed è anche un diritto che dovrebbero avere tutti gli esseri umani.
Da una parte è fondamentale rappresentare l’identità delle/dei protagoniste/i, ma allo stesso tempo lei scrive: “Sono straniera. Sono profuga. E allora? Vi interessa che persona sono?”. Come coniugare dunque la necessità di raccontare il proprio passato, ma anche quella di sottrarsi alle definizioni stereotipate su chi fugge? Cosa conta realmente?
In realtà, non sarebbe affatto difficile parlare del proprio passato se solo le persone non fossero piene di pregiudizi e l’impotenza di un essere umano di fronte ai pregiudizi è disarmante. C’è chi sceglie di affrontarla con il silenzio e c’è chi, come me, sceglie di affrontarla con le parole.
Chi va via dal proprio paese la maggior parte delle volte scappa dalle situazioni terrificanti, dalla guerra, dalla morte certa o dall’estrema povertà portandosi dietro solo la consapevolezza di se stesso e dei suoi valori che non vengono sempre percepiti e rispettati nella nuova società che offre nell’immediato la pace e, prima o poi, anche un lavoro, ma guarda coloro che fuggono attraverso il velo della diffidenza e della paura.
L’esigenza di raccontare il passato, pertanto, è il momento di presa di coscienza del cambiamento avvenuto e del nuovo contesto sociale nel quale occorre inserirsi facendosi accettare per poter costruire il futuro.
L’unica cosa che conta veramente è riuscire ad accettare il proprio passato senza rimpianti e mettersi in gioco mantenendo solida la consapevolezza di se stessi cercando, oltre che la libertà, anche di essere liberi.