Appuntamenti

Narrazioni generative Aperitivo letterario con Dragana Babic

Scritto da Segreteria il 30 Settembre 2023

Immerso nel verde di parco Braccini a Torino si apre uno spazio che è un bar, uno spaccio di cultura e una portineria di comunità dove si sperimenta un nuovo modello di comunità, facendo incontrare le persone che abitano sul territorio, condividendo buone pratiche e narrazioni generative.

Si tratta del Caffè dell’Orto di via Osasco 19/a, parte della Rete di Economia Civile Sale della Terra e gestito da donne tra cui Dragana Babic, autrice CLM che venerdì 29 settembre è stata protagonista di un incontro, insieme a Daniela Finocchi, per presentare il Concorso e le antologie Lingua Madre, grazie alle letture di Maria Caglianone.

“Belgrado, non mi ha mai amata abbastanza, oppure sono stata io a non comprendere mai il suo amore, e così […] non riuscì a darmi la consolazione di cui avevo bisogno. Quella mancanza dell’amore della mia città natale nei miei confronti, per la quale io trovavo come prova evidente il fatto che non era riuscita mai a darmi qualche opportunità o uno spiraglio di speranza in un futuro migliore, mi convinse, anche se quella mia convinzione fu allora completamente inconsapevole, di abbandonarla per sempre”.

Così scrive Babic nel suo racconto Belgrado non mi ha amata abbastanza, pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilaotto. Fino a trent’anni ha vissuto a Belgrado, dove si è laureata in Scienze e Tecnologie Agrarie. Nei primi anni Duemila si è trasferita – da sola – a Torino grazie al visto universitario per convalidare il suo titolo estero in un’epoca in cui «tutti volevano andar via dal paese, le guerre erano appena finite, non si stava bene in quel posto». Nel mentre, per mantenersi, ha cambiato diversi lavori e case. Per due volte è tornata a Belgrado; per due volte è poi tornata a Torino. E proprio qui oggi – sposata e con una figlia adolescente – conduce insieme all’amica Ida Moretti questo innovativo spazio, nato dalla riqualificazione di un’ex bocciofila e relativa area verde.

La scrittura è stata da sempre una passione per lei e dopo quel primo racconto altri ne sono seguiti: Un senso alla vita e La mia romena, che sono stati selezionati e pubblicati rispettivamente nelle antologie Lingua Madre Duemilaventi e Lingua Madre Duemilaventidue. Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Esperienze che non sempre riescono a colmare la sua “fame dell’Est”, così poeticamente descritta nel rapporto con l’amica romena che sta per partire e lasciarla “vuota come una tasca”:

Tu per me eri la mia romena, il mio pezzo privato dell’est, tenuto in tasca, a portata di mano. Un Est che avevo abbandonato e poi ritrovato in te, purificato e migliorato. […] Ho amato la tua generosità. Offrivi sempre tu, spendevi facilmente i soldi. Cosa tipica di ‘noi dell’Est’ forse, perché non abbiamo potuto esercitarci nell’arte del risparmio. Non c’era da risparmiare, era già tanto se c’era da vivere”.

Non indulge negli stereotipi Babic, non si fa vittima né eroina, a volte spietata con se stessa così “sprovvista dell’abilità di vivere”, come scrive in Un senso alla vita. Narra il potere delle scelte solitarie che si fanno sinonimo di resistenza e rivendicazione. Narra la fatica di crescere e trovare un posto autentico nel mondo, una vita autentica.

Come all’inizio della mia vita adulta, inciampo ancora facilmente e faccio fatica a rialzarmi. Ma amo Torino, molto. Anche se non è riuscita a cambiarmi, a strapparmi dal mio passato, a gettarmi in una vita davvero nuova. La amo come se fosse viva, in carne e ossa, come sapesse ascoltare, parlare, abbracciare. Spesso mi trovo a pensare a questo mio sentimento bizzarro e a chiedermi com’è possibile amare un luogo come se fosse una persona viva. Non conosco la risposta.

Ma qualche risposta in più, rispetto a una volta, adesso credo di averla. Intuisco quanto sia importante, per poter vivere bene, sentirsi abbracciati, ascoltati, accolti, compresi, voluti bene. A distanza di quasi vent’anni ancora mi scaldano il cuore i piccoli gesti affettuosi della mia zia mancata che mi salutò per sempre all’aeroporto di Belgrado. Devo andarmi a cercare proprio i gesti così, devo imparare a non temere gli altri, ad andar loro incontro, devo imparare ad abbracciare per poter essere abbracciata. Per poter forse, finalmente, trovare un senso alla vita”.

Il modo in cui considerare e costruire se stesse, i dubbi, le incertezze ma anche la forza e il coraggio di affrontare la vita e viverne gli eventi con determinazione si riflettono in scritti di altre autrici pubblicati nelle antologie Lingua Madre che sono stati letti da Maria Caglianone nel corso della serata: La straniera segreta di Natalia Marraffini, Mille e una luna di Yenniffer Lilibell Aliaga Chávez e Il mio corpo un posto felice di Diana Paola Agámez Pájaro dove a emergere è anche la centralità dei corpi, sino all’accettazione radicale della metamorfosi fisica che diventa così trasgressione.

Il pubblico ha partecipato con interesse, attenzione e profondo coinvolgimento, recando un effettivo contributo anche al dibattito che si è andato a creare con le partecipanti. Nel corso della serata è intervenuta anche Luisa Ricaldone della Società Italiana delle Letterate, parte della giuria e del Gruppo di Studio del Concorso, illustrando l’attività di ricerca svolta dal progetto sulla letteratura e la migrazione femminile. In particolare, si è soffermata sul lavoro che sta attualmente impegnando le docenti su “pace e risoluzione dei conflitti”, indagando a riguardo scrittura, arti ed ecofemminismo.

In dialogo con Daniela Finocchi ecco quindi che si è sviluppato il racconto di cosa ha significato trovare uno spazio “libero”, a disposizione per esprimersi senza filtri, senza interpretazioni, senza ingerenze come quello del Concorso Lingua Madre. Un progetto che, come è stato detto, si pone semplicemente al fianco delle donne migranti, straniere, native o italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’Altra. La “politica dell’accanto”, come scrive Lorena Carbonara, mutuando l’espressione dalla studiosa Paola Zaccaria, è infatti la sola via possibile quando, in punta di piedi, ci si ritrova a contatto con la genealogia e le memorie di donne che hanno vissuto l’esperienza della migrazione o – giovani e future – sommano in sé una molteplicità di cui non ci si può far interpreti.