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Il mio doppio respiro Un contributo dell’autrice CLM Besa Nuhi

Scritto da Segreteria il 24 Febbraio 2025

di Besa Nuhi

I. Shqipja: la colonna sonora di un popolo

La mia lingua madre è l’albanese. Antica, fiera, scolpita nella pietra della storia. Ventinove consonanti come colonne di un tempio millenario, sette vocali come archi che le uniscono, donando equilibrio perfetto, armonia segreta. La lingua si snoda tra le lettere come un fiume tra le rocce, scorre indomita, custodisce le voci di chi è stato e di chi sarà. Shqipja non è solo suono, ma memoria. Un mistero e un miracolo, un albero antico che affonda le radici nelle profondità degli Illiri, conservando in sé le prime parole di un’Europa dimenticata. Unica, solitaria nel grande albero indoeuropeo, una stella che brilla di luce propria. Ogni parola nuova è un germoglio su questo albero immortale. E quando un bambino, in una terra lontana, impara a dire “Unë jam shqiptar”, (io sono albanese) non è solo un’affermazione d’identità, ma un ponte tra generazioni, un filo invisibile che lega passato e futuro.

Dire “Shqipëri” non significa soltanto nominare una terra. Significa pronunciare un giuramento, un respiro che non si spezza, un inno di libertà mai soffocato. Ogni verbo, ogni radice è una fiaba scolpita nei monti dai battiti d’ali delle aquile, ogni sillaba risuona come lo scalpiccio dei balli nelle nozze della Labëria. Questa lingua ha curato le ferite del suo popolo. Nell’epoca delle invasioni, quando spade straniere tentavano di spegnere la sua voce, si nascose nei canti degli anziani, nelle rapsodie della Lahuta, nel codice di Besa: la fedeltà che lega più del sangue. E quando i regimi oscuri provarono a sentirsi immortali, scrittori come Migjeni, Poradeci, Kadare trasformarono la parola in spada e scudo. “Shqipëri o longevita” di Naim Frashëri non è solo un poema, è il grido di una madre-padre che abbraccia i figli nel vento della storia.

È lingua di contrasti: dura come la roccia del Dajti, dolce come il miele di Zagoria. Quando si pronuncia “Rinia” (la gioventù), risuona la forza; quando si ripete “Nënë” (madre), trema la terra; quando si pronuncia “Dashuri” (amore), si scioglie la neve. E tra tutto questo, i dialetti: il Ghego con l’orgoglio delle alture, il Tosco con la dolcezza delle pianure, si uniscono come due braccia che si tengono strette nel ballo di Shqipe. “Gjuha jonë sa e mirë!“, scriveva un poeta del Rinascimento. «La nostra lingua, che meraviglia! Quanto è dolce, quanto è ampia! Quanto è leggera, quanto è pura! Quanto è bella, quanto è preziosa!».

II. Eredità di pietra, sogni d’aria

A scuola ci insegnavano il russo e l’inglese. Lingua di Puškin e Dostoevskij, mi incantava con la sua durezza e il suo mistero. Lo sentivo nei film, pronunciato da labbra femminili con quella dolce fermezza che sembrava custodire segreti. Era una lingua profonda, a tratti impenetrabile, che scivolava tra le lettere come un camino sulla neve. Mi affascinava il silenzio dell’essere, quell’assenza nel presente che parlava più di mille parole. Eppure, il russo mi arrivò come eredità politica, non culturale. E forse proprio per questo, non l’ho mai posseduta davvero. Rimase un palazzo di ghiaccio, splendido e inabitabile.

L’inglese, invece, era un eco di libertà ma anche un tiranno democratico che accoglie tutti ma non si inchina a nessuno. Lo studiavamo con fervore, con la voglia di cantare i Beatles, di sentire le corde vocali vibrare con Lennon, di sfiorare un mondo lontano ma così desiderato. Lingua di poche regole e mille eccezioni. Niente genere di sostantivi, coniugazione ridotta dei verbi, ma lettura strana delle parole, soprattutto delle vocali. Nell’alfabeto si scrive “o” e si legge “o”. Nella parola “one” si legge “uan” (!?). Mi intimoriva la sua vastità, la sua logica sfuggente, i suoi verbi intrisi di mille sfumature. Un dizionario di fraseologie che possedevo dedicava ben quattro pagine all’uso del solo verbo “give”. Ma nelle sue imperfezioni si nasconde un fascino unico.

III. Le mie ali

Quando decisi di affrontare gli esami postuniversitari per il dottorato, scelsi l’italiano come lingua straniera. Non fu una scelta casuale. Lo avevo studiato privatamente, ma, ancor prima, mi aveva chiamato con una voce melodiosa, avvolgente. Era un’eco lontana eppure vicina, come un’aria antica che risvegliava qualcosa di già mio. Non avevo mai pronunciato una parola con quattro vocali consecutive. Con quattro consonanti, sì. Ma le vocali dell’italiano mi seducevano, scivolavano leggere, promettevano bellezza. Una bellezza familiare, che aspettava solo di essere riconosciuta.

Da bambina, i miei genitori mi portavano al cinema a vedere film italiani: Non c’è pace tra gli ulivi, che nel nostro paese divenne Non c’è pace sotto gli ulivi, perché la sottomissione non porta quiete, solo ribellione. Guardavo L’uomo dai calzoni corti e ricordo ancora le lacrime degli spettatori. Guardavo Casa Ricordi e l’intera serie dei suoi compositori geni. Mentre Verdi, Bellini, Puccini componevano arie immortali, i miei avi nascondevano alfabeti sotto le pietre.

Parlare italiano è un privilegio, un atto d’amore. Ogni volta che lo usi, porti sulle spalle il peso e la gloria di secoli, ma anche la leggerezza di un petalo di rosa. È la lingua che ti permette di gridare “Mamma!” con una dolcezza unica, di descrivere il tramonto come “un incendio di perle”, di guardare l’alba e nominare una terra. L’italiano mi ha insegnato la bellezza delle sfumature, la grazia delle doppie consonanti, il suono carezzevole della “c” che si adatta con un gesto di gentilezza e si piega alle vocali come un soffio di vento. Nella mia lingua, invece, la “c” non fa compromessi. Forse perché l’indipendenza è stata guadagnata a caro prezzo. Per cambiare suono, serve una virgola sotto: “ç”, un segno piccolo ma potente.

Ho imparato a memoria regole che per un italiano sono istintive. Se una vocale precede una parola che inizia per consonante e insieme creano un nuovo significato, quella consonante raddoppia: mettere – ammettere, viso – avviso, testare – attestare… Non dimenticavo mai le doppie consonanti nelle forme verbali: la “m” e la “b” nella prima persona plurale del passato remoto, nella condizionale presente; nella terza persona singolare e plurale di quest’ultima.

Ma il vero enigma era scegliere l’articolo giusto per i sostantivi che terminavano in “e”: un mistero senza logica apparente, come fare una scelta senza sapere il perché.

La coniugazione dei verbi, invece, era un terreno familiare: sette modi, otto, quattro, due tempi rispettivi. Perfettamente simili a quelli della mia lingua. E anzi, noi ne abbiamo persino di più: nove modi verbali, due in più dell’italiano. Il desideroso e il sorprendente, perché forse l’anima ha bisogno di più sfumature per dire voglio o per esprimere meraviglia.

Ismail Kadare diceva che per un albanese, imparare una lingua straniera è come per un pilota militare guidare un aereo di linea. E io, nell’italiano, ho trovato le mie ali. L’italiano non si limita a descrivere il mondo, ma lo trasforma in poesia, lo colora, lo accarezza. Parlare italiano non è solo comunicare: è esprimere con l’anima di Dante, dipingere con la magia di Michelangelo, innamorarsi con la passione di Giulietta e Romeo. Oggi scrivo in italiano con fierezza. Shqipja resta il mio scheletro – dura, sacra, scolpita nel marmo della Storia. L’italiano è la carne che lo riveste: vibrante, sensuale, capace di trasformare il solido in liquido.

Non è una lingua straniera per me. L’ho scelta. Mi ha scelta. L’ho studiata. L’ho vissuta. L’ho amata. E ora, con grande respiro e amore, dico: sono di madrelingua italiana.