Le autrici di Lingua Madre

Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale Un racconto per riflettere su identità e pregiudizio

Scritto da Segreteria il 21 Marzo 2023

Il Concorso Lingua Madre ricorda la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale 2023 con il racconto della giovanissima autrice CLM Nada Atik.

CHIESI A MIO FRATELLO: «COSA SIGNIFICA ESSERE STRANIERA?»
di Nada Atik [Marocco]

Chi sono? Chi siamo noi? Da chi è composto davvero quel noi? A che gruppo culturale appartengo? Siamo davvero tutti uguali come mi sono sempre sentita dire negli anni? Io penso proprio di no, o almeno, io mi sono sempre sentita uguale ma profondamente diversa da chi mi circondava.

Sono Nada, ho diciassette anni e frequento il liceo Ariosto di Ferrara. Ho scelto di fare lingue perché pensavo che imparare e comprendere nuove realtà potesse essere il futuro. Realtà diverse e intrecciate dalle tradizioni e dalle educazioni più variegate. Sfumature di un mondo ricco che, detto tra noi, è sicuramente più interessante di quello del paesino di campagna dove sono nata e cresciuta. Sebbene il fiume dietro casa, i fuochi di fine estate, la nebbia o il bosco della Panfilia mi abbiano sempre regalato dei bei momenti, ho sentito la necessità di allargare i miei orizzonti scontrandomi più volte con chi privilegia l’ignoranza.

Ho sempre sentito un qualcosa in me che mi spingeva. Un’irrefrenabile voglia di sapere cose che ancora non sapevo. Conoscere persone che mi potessero raccontare realtà diverse e misteriose incise da tradizioni secolari. E così facendo valorizzare la mia, anzi, le mie. Per esempio, mia mamma una domenica cucinava le lasagne e l’altra il couscous.

Forse la verità è che siamo talmente tanto diversi che la sola cosa che ci assimila e ci rende unici è la diversità stessa. Non l’ho mai capito davvero e sicuramente non sono io ad avere la risposta in tasca, ma se c’è una cosa di cui sono sicura è che ad un certo punto mi ci hanno fatto sentire, diversa.

Ero alle medie e come tutti i miei compagni mi apprestavo a uscire da scuola per tornare a casa. Stavo parlando con una mia amica quando, ad un certo punto, si avvicinò il mio compagno di banco a cui non avevo passato i compiti. Imbronciato, si mise davanti a noi e mi chiese il motivo per cui non me ne tornassi nel mio paese. Non capendo, risposi che in verità mi trovavo già nel mio paese e che, dopo tutto, era anche il suo, perché ci abitava anche lui. Tutto d’un tratto mi apostrofò dandomi della “marocchina di merda”, dicendo che dovevo ringraziarlo perché era grazie a lui se potevo vivere in Italia. Confusa per gli insulti senza senso me ne ritornai a casa e la prima cosa che chiesi a mio fratello, che mi aspettava a tavola con la solita pasta al pomodoro, fu: «Cosa vuol dire che siamo dei marocchini di merda?»

Mio fratello, che aveva già vissuto situazioni simili, mi disse che non dovevo dare peso a ciò che mi era stato detto e che le persone, frustrate per i propri problemi personali, tendono a riversare il proprio astio sugli altri. Soprattutto su chi è diverso e apparentemente più fragile. Tuttavia, non capivo in cosa dovessi sentirmi diversa, perché io ero uguale a tutti i miei amici che, esattamente come me, erano cresciuti sporcandosi di fango nel bosco e che alla fine dell’estate guardavano verso l’alto i fuochi che segnavano l’inizio di un nuovo anno scolastico.

L’indomani allora chiesi al mio compagno di banco il motivo per cui mi avesse detto cose così violente. Con un volto prepotente, mi rispose che lui era italiano mentre io, seppure nata qui, ero diversa. Che ero straniera, perché nata da genitori che erano venuti nel suo paese per cercare lavoro a scapito dei suoi che, invece, erano italiani di sangue. Continuavo a non comprendere il nesso e soprattutto mi pareva assurdo che mio padre, che lavorava in cantiere, potesse rubare il lavoro al suo, da cui puntualmente prendeva il caffè alla mattina. Ironicamente, era proprio mio padre a dargli lavoro.

Pensavo anche a mia madre, la mia eroina, che si era trasferita dal Marocco e che senza basi aveva imparato l’italiano per includersi in una società nuova. Quella stessa donna che per garantirci un bel piatto di pasta dopo scuola o il couscous alla domenica aveva fatto tanti sacrifici.

Una volta, sul lavoro, le dissero di accettare che prima o poi mio fratello, “come gli altri stranieri”, avrebbe lavorato in fabbrica e che sarebbe stato inutile garantirgli un’educazione. Ma mi madre non si arrese e per lottare contro questo luogo comune ci educò come nemmeno lei aveva fatto per sé stessa. Oggi infatti, mio fratello ha due lauree e un master, ed è presidente di Cittadini del Mondo, un’associazione che lotta contro chi tenta di calpestare la dignità di chi è arrivato in Italia da poco.

Sono certa che la forza che si porta dentro mia madre abbia una marcia in più rispetto a molti altri. Quando vivi con la pressione che i tuoi errori possano valere due volte in più rispetto a chi in Italia ci ha sempre vissuto, sei spinta ad avere automaticamente un punto di vista più ampio e tollerante verso il prossimo, il ‘diverso’.

Penso che sia proprio quella diversità di cui oggi alcuni hanno tanta paura. Una diversità che invece, sono certa, dovremmo insegnare a sfruttare così da valorizzare chi ci sta intorno e per permettere al nostro paese di essere ogni giorno la migliore versione di se stesso.

Della paura oggi, però, si fa cavallo di battaglia. Perché la paura crea divisione e come ci insegnano i romani ‘Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā’. C’è chi usa questo motto per costruirsi una carriera e c’è chi come mia mamma fa il contrario e, in silenzio, ogni giorno cerca di rendere il suo paese bello e denso come la sua lasagna di carne halal.

Mia madre ormai abita in Italia da più di venticinque anni, più della metà dei suoi anni. Non l’ho mai vista sfruttare il fatto di conoscere più lingue per denigrare gli altri. Non l’ho mai vista sfruttare il fatto di conoscere più culture per denigrare il prossimo. L’ho sempre vista propositiva, incline ad amare, a imparare a insegnare, incline a far conoscere. Far conoscere tante cose diverse, cose che sa non appartenere al singolo ma a cui il singolo contribuisce, rendendole sempre più ricche. Ricco come i semi che mia madre ha visto in noi, piantati in questa terra con la speranza di poter influenzare positivamente ogni giorno le piante che abbiamo intorno. Solo così anche gli altri avranno il coraggio di piantare nuovi semi e scegliere di affondare le proprie radici il più profondamente possibile e, così facendo, raggiungere tante fonti diverse, lontane dall’ignoranza e dalla paura. Diverse come i miei amici, la mia scuola, mio fratello. Diverse e variegate come mia mamma che ha imparato cosa significasse essere straniera per gli altri o, come dice Tahar Ben Jelloun, ad essere “lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo”.

Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Fotografia Chi sono di Hanan Boukhbiza per la XVIII edizione del Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo del Concorso Lingua Madre.