Le autrici di Lingua Madre

Giornata Internazionale della Lingua Madre 2023 Un invito a riflettere sul fertile intreccio delle lingue

Scritto da Segreteria il 21 Febbraio 2023

In occasione della Giornata Internazionale della Lingua Madre 2023, un invito a riflettere sul fertile intreccio tra la lingua d’origine e quella del paese d’adozione, grazie al racconto di Sei Iturriaga Sauco, autrice CLM.

LINGUA MATRIGNA
di Sei Iturriaga Sauco [Messico]

Radici separate dalla terra, come i cespugli rotolanti del Nord America; quelli di noi che hanno lasciato il loro luogo d’origine, girano lungo i sentieri dove porta la forza del vento del nostro destino. È facile pensare che la vita sfugga a questi rami sferici che non possono ancorarsi alla terra per sentire sorgere i minerali che li alimentano; è facile vederli come un cumulo rotolante di aridità. Ma se sappiamo conoscerli, ci renderemo conto che questi arbusti vivono in questo modo, che hanno imparato da millenni ad abitare il deserto e girovagare finché non trovano il posto giusto. Quelli che li conoscono meglio dicono che si muovono insieme al vento perché inseguono le nuvole buone, cacciano le tempeste.
Anche le nostre radici sono uscite dalla terra, anche loro a volte sembrano seccarsi, sembrano morire con tutta la polvere delle strade, fragili e grigie. Il ricordo delle nostre origini, le cose che non diciamo più perché in questa nuova realtà non hanno senso e cominciano a diventare scene lontane a cui preferiamo pensare poco, come succede con i sogni tristi. Inoltre, dopo tanto camminare, la lingua si secca, diventa arida corteccia. I nomi delle cose, le parole che nel nostro luogo d’origine vengono pronunciate ogni giorno, non hanno posto nella nostra valigia e quando arriviamo in una nuova destinazione, ci rendiamo conto che nemmeno le parole a cui teniamo di più possono sopravvivere quando smettiamo di usarle.
È un momento triste quando si sente come se la propria lingua fosse diventata estranea, rallentata, goffa, anche quando ci si aggrappa a essa come a una stampella; va piano, inciampa, fino a quel giorno in cui ci chiede di lasciarla sola a casa, nella stanza buia, con le finestre chiuse. Vuole rimanere lì, in quel luogo protetto della memoria. Cominciamo a uscire senza di lei, orfani della lingua madre che ci ha insegnato il mondo e ci ha reso le persone che siamo. Le nostre mani, libere nell’aria strana di luoghi sconosciuti, la cercano ancora.
È una solitudine enorme, come una montagna o un mare di notte quando manca la luna. È un vuoto, un abisso di cui non si sa nulla. Ritrovarsi senza la propria lingua, in un silenzio forzato, con l’incomprensione legata alle caviglie come un’ancora. Soffoca, stanca, non poter dire le cose come sappiamo, chiamare gli oggetti per nome, poter parlare agli altri senza sentire la contrazione forzata di tutte le nostre ossa mentre forziamo le mascelle a pronunciare le parole nella nuova lingua. Si rompono un po’, i loro muscoli sono feriti, si tendono e vogliono tornare al loro solito posto, ma in questo sforzo quotidiano succede qualcosa.
Ci rendiamo conto che dopo qualche giorno di vagabondaggio come bambini sperduti, sulla crosta secca della nostra propria lingua, l’umidità della vita si ricrea, nuove cose hanno cominciato a emergere, parole come germogli, il muschio delle nuove sensazioni cresce senza sosta. Ogni giorno una nuova foglia, un tenero stelo per dire alla gente quello che pensiamo o quello che vogliamo, per dire buongiorno negli uffici immigrazione, per salutare i vicini sulle scale. Cose semplici, che si arrampicano sulle pareti del nostro corpo come viti.
È la nuova lingua, quella che regna in queste terre di cui siamo stranieri. Il linguaggio degli altri stende le sue foglie fresche come le mani di una madre che non è nostra, ma che a suo modo ci ripara. La lingua matrigna sarebbe un’espressione molto dura, se non volessimo raccontare una storia diversa da quella dei racconti delle principesse, dove la matrigna è una figura così brutta. Ci sono buone matrigne, ci devono essere, perché è successo mille volte nella storia dei bambini persi che qualcuna li salva e si fa carico di offrire loro una nuova vita. La lingua di adozione che abbiamo imparato per strada, tra burocrati e funzionari, con i mucchi di accenti che si sentono nei bar dei quartieri migranti, questa lingua italiana, ci nutre come la lupa di Romolo e Remo nel mito dei Romani, perché è questo che fanno le madri; salvano gli orfani anche se sono di altri regni, di mondi diversi.
Sono nata a Città del Messico, ho vissuto in altre città e diverse latitudini, l’amore di un uomo di queste terre mi ha portato a Torino qualche anno fa e ancora prima di arrivare qui, l’italiano era già diventato una delle radici di cui si nutre la nostra lingua domestica. A volte, prima di addormentarmi, gli dico, in silenzio, una lunga lista di parole che ho imparato nella sua lingua, come offerte, concetti che perdo dal mio sistema linguistico, che sacrifico perché non sanno più di niente se non le dico con le sue parole, nel suo mondo, così vicine alla sua bocca da uscirne impregnate del suo respiro, come farfalle bagnate che tentano il loro primo volo.

Racconto pubblicato in Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Fotografia “Piccole autobiografie portatili” delle studenti dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla XIII edizione del Concorso Lingua Madre.