Il caffè Madri e figlie
Scritto da Segreteria il 16 Settembre 2022
Testimoniare e ricostruire una genealogia femminile attraverso la scrittura. In questi testi le autrici tornano a riappacificarsi con le proprie origini e la propria cultura, per pensarsi e rappresentarsi al di fuori degli stereotipi. Un percorso che le porta a riconoscere il debito simbolico verso le madri (reali e non) per scoprire, in sé e nelle altre, una grandezza capace di unire.
IL CAFFÈ
di Elona Aliko [Albania]
Ogni volta che sento al telefono Sheyla la prima domanda è: «Quando vieni a bere il caffè?».
Una domanda talmente semplice racchiude in sé l’universo.
In Libano, nei campi profughi siriani, ero io a chiamare Sheyla a qualsiasi ora del giorno per chiederle se potevo andare a bere il caffè nella sua tenda. Quattro pali di legno, il nailon bianco a coprire tutto e dare una parvenza di casa, all’interno il cellofan argentato che infastidisce la vista, due materassi per terra, un tappetto in plastica e Sheyla in mezzo alla stanza con la bomboletta a gas che prepara il caffè turco.
Lo stesso caffè che evoca la mia infanzia in Albania. Il profumo si impadronisce della casa, le donne della famiglia intorno al tavolo, mia nonna con il suo velo bianco sui capelli che racconta dei campi profughi ciamurioti al confine tra Albania e Grecia; io seduta per terra sul tappeto ad immaginare la sua vita.
Sheyla indossa un vestito marrone che le copre il corpo, il velo nero sulla testa e un sorriso che le illumina il viso. È lo stesso sorriso che mi accoglie ogni volta che la vado a trovare nella sua nuova casa, una casa vera, in Italia. È lo stesso sorriso che mi riscalda il cuore e mi dà la forza e il coraggio per combattere le ingiustizie. Vive nel nostro paese da dieci mesi ormai, e il suo sorriso in questo tempo è cambiato, è diventato più scintillante, ha cambiato forma, è diventato vita, diritti, dignità.
Sono le 4.30 del mattino e Sheyla prepara il caffè con il sonno ancora in faccia. Quando entro in cucina mi sorride, mi fa accomodare, mi prepara la colazione con zaatar, olio e pane arabo e insieme gustiamo il caffè.
Poco dopo suona il campanello, è ora di andare. Io, Sheyla e Selma prendiamo la valigia e ci dirigiamo verso l’ospedale Papa Giovanni di Bergamo accompagnate dalla Croce Rossa. Sua figlia Selma, di 13 anni, oggi verrà operata per rimuovere la scheggia di un bomba che ha in prossimità dell’arteria polmonare. Arrivate in ospedale la ragazza viene preparata per l’intervento, ci consentono di accompagnarla fino all’entrata della sala operatoria. Mi stringe forte la mano, mi chiede di entrare con lei, si rifiuta davanti all’infermiera di separarsi da una parte del mio corpo. La madre al capezzale del letto, in un angolo, piange in silenzio senza farsi vedere. La preoccupazione ha preso il posto del sorriso. Le infermiere portano via Selma e lei continua a chiamare il mio nome.
Questa loro fiducia non riesco a comprenderla, chi sono io per meritarla? Ne sono degna?
Sheyla vuole un caffè. Andiamo al bar, si asciuga le lacrime e un sorriso timido si intravede sul suo viso. Il caffè e la sua onnipresenza, in qualsiasi situazione, triste e felice, insostituibile. Il caffè: il suo sostegno nei momenti difficili.
Nell’attesa di avere informazioni sulla figlia, beve altri caffè, fuma le sue sigarette, si incupisce nei suoi pensieri, sorride fiduciosa e conosce l’intero piano della chirurgia pediatrica con le sue passeggiate. Dopo sei ore arriva il dottore, l’intervento è stato complicato, ma è andato bene. Selma sta bene ma dovrà stare in terapia intensiva.
Sheyla chiede un caffè, stavolta lo prendiamo alla macchinetta, le insegno come usarla.
Lei ride e irradia la sala d’attesa della rianimazione.
E’ il momento di vedere Selma.
Entriamo insieme, Sheyla non parla italiano, è arrivata in Italia poche settimane prima dell’emergenza Covid-19. Lascia che sia io a gestire la situazione, a parlare con i medici e le infermiere, si affida a me. Mi commuove e mi spaventa questa loro fiducia, ingrandisce il mio cuore e il mio amore nei loro confronti.
Era il mio punto di riferimento in Libano; le confidavo tutto e cercavo i suoi consigli. Ora, in Italia, i ruoli si sono capovolti. Credo ci sia una sorta di affinità elettiva tra di noi, lei analfabeta e io istruita, lei madre e io no, ma entrambe portiamo nella storia delle nostre famiglie l’essere rifugiata e migrante.
Sheyla entra in terapia intensiva e guarda la figlia piena di tubi. Ha cinque flebo, il drenaggio, il catetere e un tubo in bocca. Mi guarda e gli occhi si riempiono di lacrime, la sua anima mi abbraccia per essere consolata, la vedo e la sento. Non possiamo avvicinarci, le misure emergenziali ce lo proibiscono. E le nostre anime si rincuorano a vicenda, lontane dai nostri corpi, fuori dalla terapia intensiva, in un luogo in cui non c’è il distanziamento sociale. Cosa prova una madre a vedere la propria figlia in queste condizioni? A non poter chiedere informazioni perché non conosce la lingua? A non sapere dove si trova esattamente? La sua casa natia, i suoi famigliari, i suoi affetti sono lontani.
Selma inizia a svegliarsi dall’anestesia, è molto spaventata; nessuno le aveva spiegato che si sarebbe trovata in questo stato, non lo sapevamo e anche lei capisce poco l’italiano. La scuola a distanza non le ha permesso di imparare la nostra lingua e tanto meno instaurare delle relazioni.
Scalcia, si muove, vuole parlare. Sgrana gli occhi e chiede spiegazioni. La madre non riesce a vederla in queste condizioni, esce dalla stanza, la sua anima fino ad ora abbracciata a me si allontana, e piange in solitudine appoggiata allo stipite della porta. Il suo pianto rimbomba per tutta la stanza. Mi penetra dentro. Ancora una volta si affida a me, stavolta la sua fiducia mi pesa. E’ un dolore anche per me vedere Selma in queste condizioni. Mi trema il corpo e sudo freddo. Raccolgo le forze a fatica, appoggio le borse per terra e cerco di tranquillizzarla spiegandole cosa le è successo e dove si trova.
Lei si affida, per l’ennesima volta, a me e alle mie parole, senza riserva.
La dottoressa ci informa che bisogna toglierle il tubo che ha in bocca, Selma si agita nuovamente, cerca di strapparsi il drenaggio, ha dolori fortissimi. Le parlo, cerco di calmarla, le chiedo fiducia. E lei si fida, totalmente. La madre, insieme alla sua anima, continuano a piangere appoggiate agli stipiti della porta d’ingresso, un pianto pieno di paura e di amore. Sono ai piedi del letto davanti a Selma, posso solo parlarle, non la posso toccare, mentre la dottoressa e l’infermiere ai lati del letto cercano di toglierle il tubo nella bocca. Lei contrae il viso dal dolore, si aggrappa alle ringhiere del letto e continua a spalancare gli occhi. Io cerco di trattenere le lacrime come posso. Finalmente è libera di comunicare con la voce, è stanca e affaticata. La madre e la sua anima si dirigono verso di noi, si incontrano per strada, e in un corpo unico si avvicinano alla figlia. La accarezza, le tiene forte la mano, le guarda la ferita, e con parole confuse le esprime il suo amore.
Stavolta è Selma a sorridere, a illuminare noi e le nostre anime. I suoi occhi neri si rilassano, i capelli ricci le scendono ai lati del viso sul cuscino, il suo corpo perfetto e delicato si adagia sul letto. Continua a ripetere il mio nome, ma io non la ascolto. Sono intorpidita dalle emozioni, dalla stanchezza e dalla preoccupazione.
La guardo e le sorrido nella speranza di darle coraggio.
È ora di andare, l’orario delle visite è finito. La salutiamo e usciamo dalla terapia intensiva.
Sheyla desidera tanto un caffè. I suoi occhi piangono ma il suo viso sorride, sua figlia è ancora viva.
La scheggia non c’è più e Selma ora può avere una vita normale.
Sheyla sorride, il suo sorriso cambia ancora forma, si ingrandisce, diventa forte, diventa speranza.
E io, oggi, per la prima volta in vita mia, ho capito il vero significato della parola fiducia.
Il racconto Il caffè di Elona Aliko è pubblicato in Lingua Madre Duemilaventuno – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27)