Il tuo sguardo su di me Intervista a Margherita Giacobino
Scritto da Segreteria il 25 Febbraio 2021
Un’intervista vivace e stimolante alla scrittrice Margherita Giacobino, parte della Giuria del Concorso, che ha appena pubblicato Il tuo sguardo su di me (Mondadori), volume che imprime la traccia di un ordine simbolico materno potente e fondativo.
Come si legge nella quarta di copertina, infatti, quella con la madre è la prima delle nostre relazioni, perfino precedente al venire al mondo. Raccontarla può essere la sfida di una vita, perché in quella relazione spesso sono inscritte molte delle verità che ci riguardano. “In questo romanzo Margherita Giacobino mette al centro un rapporto tra due donne – una più grande, l’altra più piccola – che nel corso delle loro esistenze si sono ascoltate, ignorate, osservate, amate profondamente: incidentalmente sono anche madre e figlia, ancor più incidentalmente sono l’autrice e sua madre. Da bambina Margherita la contempla rapita come fosse il sole, l’astro luminoso attorno al quale tutto gira e prende vita: coraggiosa, energica, determinata. Da adolescente non cerca e non riceve confidenze ma la comunicazione passa nei gesti e nelle parole di tutti i giorni e la fiducia è totale. Adulta, tra preoccupazione e divertimento, Margherita vede la madre iniziare una nuova vita, intrecciare un amore misterioso… Fin quando i ruoli prendono a invertirsi: non più, o non solo, la madre che si prende cura di noi, ma noi a prenderci cura della madre. Con la sua scrittura vigorosa, calibratissima, nitida, sempre anticonformista; distillando la nostalgia per la madre amatissima, il desiderio di raccontarla che da sempre l’accompagna, una visione intelligente e spassionata del rapporto madre-figlia e del femminile molteplice, Margherita Giacobino crea un romanzo sorprendente e vibrante, un omaggio alle madri e alle eredità lasciate alle figlie, non sempre fardelli da cui emanciparsi, in alcuni casi scie luminose e salvifiche.
Il rapporto madre-figlia e, più in generale, il rapporto tra donne costituisce un perno fondamentale della sua narrazione, non solo in questo libro. Può approfondire questo aspetto della sua scrittura e quali ne sono le motivazioni?
Sono cresciuta in una famiglia di donne, non perché gli uomini fossero assenti ma perché il centro, il cuore della famiglia erano le donne: mia madre, le nonne, le magne ovvero le zie. Erano operaie, contadine, piccole negozianti, impiegate, una era levatrice e aveva fatto nascere mezzo paese, insomma erano abituate a rimboccarsi le maniche e ad affrontare il peso della sopravvivenza quotidiana. Donne concrete, molto diverse dal femminile docile e perbenino che trovavo sui libri di scuola e da quello sospiroso e seduttivo delle riviste e dei fotoromanzi. Poi a vent’anni ho scoperto il femminismo, ovvero un femminile plurale nuovo, creativo, dirompente e spesso anche incasinato, comunque affascinante. Non soltanto emancipazione, rivendicazione di diritti e di parità, ma un riconoscersi a vicenda come persone intere, su cui contare, con cui costruire.
Per questo mi è sempre sembrato importante, oltreché riuscirmi spontaneo, parlare di donne e dei rapporti tra loro anche nei miei libri.
Il mio ultimo romanzo, Il tuo sguardo su di me (Mondadori 2021) è dedicato a mia madre. Avevo già parlato di lei in Ritratto di famiglia con bambina grassa (Mondadori 2015) in cui raccontavo le vicende familiari a partire dalla più anziana delle prozie, magna Ninin, nata alla fine dell’800. Se quello era un romanzo familiare con tanti protagonisti, questo ultimo è un’elegia per una donna in particolare, mia madre Maria Grazia.
Le mie però non sono soltanto storie autobiografiche, sono anche esplorazioni di argomenti più vasti, come il rapporto tra madre e figlia visto come la relazione primaria in cui tanti aspetti della nostra persona e del nostro vivere trovano le loro radici.
Il patriarcato ha messo tra parentesi, svalutato e addirittura negato i rapporti tra donne, incoraggiando l’attenzione e l’amore per il maschio, sia esso padre, figlio, marito o amante, e la competizione tra le femmine. Su questo modello si basano moltissime narrazioni letterarie e popolari dell’Ottocento e del Novecento. C’è voluto il femminismo per cambiare le carte in tavola, con il concetto di sorellanza e la riscoperta dell’amicizia tra donne.
Anche se naturalmente parecchie autrici c’erano arrivate anche prima: women alone stir my imagination, solo le donne stimolano la mia immaginazione, ha scritto Virginia Woolf.
Margaret Atwood ha affermato che si può raccontare solo ciò che si conosce – e io ovviamente conosco meglio i pensieri, la vita, i problemi di una donna.
Sono convinta che abbiamo appena cominciato a parlare di donne – in tanti modi – uno è quello, importantissimo, del Concorso Lingua Madre, che dà voce alle donne di diversi paesi, lingue e culture, raccogliendo le loro esperienze e gli incroci dei loro percorsi.
Quali altre letture e autrici l’hanno accompagnata nella sua esplorazione dei rapporti tra donne?
Per me due incontri fondanti nel mio lungo viaggio sulla scrittura e le storie di donne e su madri e figlie sono stati quelli con due grandi scrittrici americane, Audre Lorde e Dorothy Allison. Su entrambe ho lavorato a lungo, traducendone anche in italiano alcuni testi, e in entrambe ho trovato non solo figure di madri possenti, ma anche inedite coniugazioni dell’amore filiale. A Lorde, figlia di migranti caraibici nella Harlem degli anni ’30 e ’40, la madre appare come una dea in esilio che porta con sé il ricordo di una comunità in cui “le donne vivono e lavorano insieme”, mentre sopravvive in una città ostile e razzista. Fortissima ma in posizione di debolezza, inventiva e sensuale ma anche autoritaria e segreta, la madre è oggetto allo stesso tempo di amore e conflitto, di ribellione e ammirazione, e fonte di ispirazione per la figlia poeta e militante.
Nel romanzo che ha dato un successo internazionale a Dorothy Allison, La bastarda della Carolina, la piccola Bone è unita a sua madre da un legame appassionato se pure insufficiente a proteggerla dal patrigno violento; il loro è un amore ferito ma non per questo meno assoluto. In entrambi i casi, le autrici vedono la madre nelle sue dimensioni molteplici e anche contraddittorie: donne forti ma prive di potere, in lotta contro un avversario tanto più grande di loro, la società razzista e sessista, la violenza degli uomini e dei pregiudizi, la disparità eretta a sistema.
All’inizio mi è parso curioso ritrovare una sensazione di “casa mia” in storie e personaggi pur così lontani da me. Cos’avevano in comune mia madre, le mie nonne e zie, con quelle donne americane emarginate perché nere o povere? Poi ho capito che c’era in loro la stessa capacità di lavorare e di resistere, lo stesso humor di sopravvivenza, il sentirsi diverse, il tessere rapporti di solidarietà tra donne per affrontare il quotidiano.
Ho pensato che a contraddistinguere, e in un certo senso a salvare, le mie antenate, proprio come quelle di Lorde e Allison, era la loro stessa marginalità, l’estraneità alla cultura e alla lingua dominante, la loro vicinanza alla concretezza del reale. Il legame vitale che sapevano creare tra madri e figlie, tra zie e nipoti, veicolato da una lingua comune delle donne, la sola che desse loro quella voce che gli era negata nella lingua ufficiale del loro Paese.
In questo libro lei ricostruisce e riconosce il debito simbolico verso la madre, sin dal titolo. Quanto è importante e in cosa si differenzia lo sguardo delle madri?
Sono convinta che il rapporto madre-figlia sia stato per moltissimo tempo, e sia ancora, la cinghia di trasmissione del modello femminile, con le sue regole, i suoi divieti, la rituale svalorizzazione che fa parte del ruolo assegnato alla donna nella società patriarcale.
È di solito a partire dallo sguardo della madre che la figlia si valuta, si critica, si ritiene adeguata o, più spesso, inadeguata. È dal grado di libertà e realizzazione personale della madre che la figlia, prima ancora di rendersene conto, si fa un’idea delle possibilità che le sono aperte nella società in cui vive. È dalla madre vittima che la figlia impara l’impotenza, così come è rifiutando in blocco l’esistenza materna come limitata e senza valore che spesso imbocca la strada di un’emancipazione basata sull’adozione acritica del modello maschile.
Insomma, la madre, lo voglia o no, gioca un ruolo cruciale.
Sono gli sguardi in cui ci riflettiamo a darci il senso di noi. E quello della madre è il primo.
Ancora Virginia Woolf: “Per tutti questi secoli le donne sono servite da specchi dotati del magico e delizioso potere di riflettere la figura maschile a dimensione doppia di quella naturale”. Mi viene da aggiungere che lo sguardo di una madre è stato invece addestrato per secoli a rimpicciolire le figlie, insegnando loro a essere meno intraprendenti, meno coraggiose, meno libere e sicure di sé di quanto potrebbero esserlo naturalmente.
Ciononostante, molte madri si sono rifiutate di funzionare in questo modo, e non solo da adesso. Penso a Sidonie, la madre di Colette, ad Abigail May Alcott, madre di Louisa, l’autrice di Piccole donne, e tante altre. Tra loro c’era anche mia madre.
La mia è stata una madre atipica, anticonvenzionale se pure in un suo modo discreto e tranquillo. Lavorava dalla mattina alla sera per pagare i debiti di gioco di mio padre, il suo lavoro le piaceva ma era anche molto faticoso, non aveva tempo di coccolarmi e non mi ha mai spazzolato i capelli – eppure mi faceva sentire non solo amata e protetta ma anche, il che è più raro, riconosciuta. Se dovessi sintetizzare in una parola quel che è stata, direi: una madre intelligente (anche se non aveva studiato, ma aveva una grande passione per i libri, che mi ha trasmesso). Una madre che si è sempre fidata di me e non mi ha mai chiesto di essere qualcosa di diverso da quello che sono.
Di conseguenza, ho provato fin da piccola un senso di gratitudine, e il desiderio di ripagarla, almeno in parte, di quello che mi dava. Ci ho messo decenni a dare un nome preciso e sintetico ai doni ricevuti da lei: libertà e fiducia in me stessa – una fiducia critica, sempre un po’ tinta di dubbio, di quel pragmatico e divertito scetticismo che è alla base della nostra cultura familiare e, direi anche, regionale.
A volte le amiche mi dicevano: tu idealizzi tua madre! Ma certo! rispondevo io. Idealizzare non vuol dire per forza essere cieche alla realtà, idealizzare un oggetto d’amore vuol dire vederlo illuminato come un’immagine sacra, un bel quadro, un paesaggio che ti apre il cuore, vuol dire vedere l’altra/o nel suo di più, nelle sue potenzialità ancora inespresse. E io penso che questo faccia bene all’immaginazione e alla vita. Soprattutto quando è una cosa reciproca, come è stato tra me e mia madre (che, nella sua vecchiaia, era sostenuta dalla ferma fede che sua figlia non potesse sbagliare in niente, il che a volte mi faceva tremare, altre volte sorridere, ma sempre anche mi dava una gran spinta.)
Quindi sì, il debito simbolico per me esiste concretamente ed è fondante della mia identità. È un sentire che nella mia vita ha rappresentato uno stimolo, un’ispirazione e una pienezza affettiva. Perciò non l’ho mai considerato un peso ma al contrario una ricchezza.
Qui il booktrailer de Il mio sguardo su di te.